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Psicopatologia antropologica
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E-book867 pagine10 ore

Psicopatologia antropologica

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Info su questo ebook

Questa “Psicopatologia antropologica” rappresenta un evento insolito, nel panorama editoriale psichiatrico italiano, per molti motivi: per il suo spirito fortemente innovativo, per il suo richiamo ad un’antropologia non convenzionale (ovvero genericamente “umanistica”) bensì scientifica, per la complessità, la densità e lo spessore della sua architettura, per la sua sistematicità ed insieme per la sua apertura alle correnti di pensiero più diverse (in primo luogo psicoanalitiche e fenomenologiche), per il suo affondare le proprie radici nella tradizione ed insieme per il suo protendersi nell’attualità; ma soprattutto, si contraddistingue per essere uno dei pochissimi testi di Psicopatologia che un autore italiano contemporaneo, pur partendo da un’impostazione del tutto personale ed indipendente rispetto agli orientamenti dominanti, abbia osato dare alle stampe negli ultimi anni, stante il clima di esclusività e di egemonia culturale pressoché assoluta instaurato dai DSM e dalla Psichiatria di indirizzo farmacologico. Il libro rappresenta pertanto, oltre che un aiuto importante per orientarsi nel panorama della Psicopatologia classica e attuale nonché un potente strumento di approfondimento clinico, anche un’occasione per aprirsi a prospettive di pensiero nuove ed ancora parzialmente inesplorate, quali le recenti impostazioni della Medicina e della Psichiatria evoluzionistica: impostazioni con le quali l’autore si confronta in maniera sorprendentemente originale e creativa, mostrandoci molte delle loro possibili applicazioni alla Psicopatologia.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2016
ISBN9788860223036
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    Anteprima del libro

    Psicopatologia antropologica - Volfango Lusetti

    VIII

    Prefazione

    Quando nel 1961 ricevetti dal prof. Alfred Kranz, dell’Università di Heidelberg, l’invito a collaborare al volume Psychopatologie heute (La Psicopatologia oggi), in onore del 75° compleanno di Kurt Schneider, cioè della persona più rappresentativa della Psichiatria del dopoguerra, pensai di riprendere il problema dell’aprirsi al delirio, dello schiudersi a questa irruzione del radicalmente altro, dell’emergere di uno dei punti nodali dell’esperienza di colui che inizia a percorrere questo sentiero interrotto (la holzweg heideggeriana) che si perde nel bosco della psicosi. Nel mio iter psichiatrico mi trovavo allora, da oltre dieci anni, nel pieno fervore di uno studio alimentato sì di buone letture (da Bumke a Jaspers, da Minkowski ad Ey, da Bleuler a Binswanger, da Slater a Lopez Ibor), ma soprattutto nutrito dai numerosi, quotidiani incontri con i pazienti, che da tutta Roma et ultra venivano allora ricoverati al reparto psichiatrico della Neuro, e fornivano continuo stimolo per accese discussioni con carissimi colleghi.

    Molti anni sono trascorsi, il mio itinerarium mentis mi ha condotto su percorsi diversi, verso orizzonti più vasti e più inquieti, come io stesso ho voluto epitomizzare in un mio sfortunato libro. E oggi, dopo altri significativi incontri con non pochi colleghi, giovani e meno giovani, ecco approdare nel mio porticciolo la bella imbarcazione di Volfango Lusetti, anche egli dotato di ampia esperienza clinica, di certo pienamente attuale pur senza troppo staccarsi dall’insegnamento del passato.

    Lo studio di Lusetti, profondo e sistematico, è testimonianza di un percorso professionale intenso e severo, corrispondente a fasi di una vera e propria circolarità alchemica fra momento teorico ed apertura clinica.

    È proprio di questo che oggi hanno bisogno gli studenti di medicina e gli specializzandi, per cogliere quei goethiani valori d’ombra, quegli adombramenti husserliani che ci aiutano a trovare uno spazio per riflettere sui nostri incontri psico-quotidiani, che ci facilitano il confronto con le incertezze più che l’acquisire certezze, per accettare più conoscenze e meno convinzioni.

    In questo senso questa Psicopatologia di Lusetti si può davvero configurare come un’autentica propedeutica ad una vera e propria formazione, ad una Paideia, ad una Bildung, nonostante il denso grigiore attuale, fatto di aziende e di crediti.

    È questa la trama esistenziale che ci apre al nascere alla psicosi (così dice il francese Jean Greisch) come ad una delle modalità dell’umano.

    È qui che l’inconscio ci si ostende non come passivo ricettacolo dei rifiuti della coscienza, ma come sistema autonomo, pressoché oceanico. È qui forse che, con Carl Gustav Jung, l’ambivalenza e l’ambiguità della psiche possono essere comprese empaticamente, e non tramite il mero intervento della chiarificazione ordinatrice.

    Lusetti ricorda, a volte in tutta chiarezza, a volte solo allusivamente, lo Jaspers della quarta edizione della Psicopatologia Generale (1946), là dove Egli già propone di declinare l’uomo malato non più soltanto nella propria realtà empirica, invischiata in un soffocante nosografismo (che è poi quello dei DSM) ma anche, anzi soprattutto, di coglierlo nella sua particolare, irriducibile, peculiare dimensione esistenziale (e oggi, come vado ripetendo da decenni, co-esistenziale); richiamo qui l’indimenticabile pagina 335 dell’edizione italiana del 1964, come tradotta da Romolo Priori: il malato non è solo una realtà empirica... in esso si può evidenziare una profondità che non appartiene alla malattia come oggetto di indagine scientifica, ma a questo individuo nella sua storicità.

    Pur tenendo io sempre più conto dei grandi pensieri epocali (in primis C. G. Jung e Ludwig Binswanger, ma anche E. Minkowski, M. Klein ed H. Kohut), devo sottolineare che la Psicopatologia fenomenologica è veramente propedeutica per molte prassi psicoterapeutiche.

    Lusetti tiene conto soprattutto del grosso e valido corpus psychopathologicum costituito dai problemi psichiatrici delle psicosi, deliranti, maniaco-depressive schizofreniche, delle personalità abnormi, alias disturbi di personalità (in primi borderline, asociali, perversioni), nonché delle tossicomanie, dei disturbi della coscienza, delle psicosi organiche, delle cosiddette nevrosi.

    In particolare appaiono stimolanti le sue pagine sul borderline e quelle sugli stili di attaccamento; del pari ricco di suggerimenti è il capitolo sulle dimensioni, ispirato certo dall’importante contributo di Cloninger, ma in verità sostenuto dall’originario, insostituibile apporto del pensiero di Jaspers, sopra da me riferito... Unicuique suum!

    Oggi è particolarmente urgente il richiamo alle nuove culture, alle sottoculture della violenza, dell’immigrazione, dei gruppi adolescenziali metropolitani, del declino della famiglia triangolare edipica, della new age. Tutto ciò sollecita il passaggio dello psicopatologo dall’oggettivazione del caso clinico all’esperienza del rapporto e dell’incontro con la persona, quindi all’accostamento dei mondi vissuti (mondi che io studiai a lungo con il mio indimenticabile Antonio Castellani), aprendomi sempre di più all’antropologia culturale.

    E Lusetti, confrontandosi con questi mondi, in particolare con quelli della violenza e delle vite difficili, apre vivacemente al rapporto intersoggettivo, alla corporeità, all’incontro mancato (la Vergegnung di Martin Buber), all’esigenza di scorgere e di cogliere l’Alter Ego ed il suo esser mondano, con il passaggio dall’Alienità all’Alterità, passaggio cui mi fu maestro luminoso Danilo Cargnello.

    L’antropologia dell’incontro fa veramente compiere un giro di boa al pensiero psichiatrico moderno, sempre più sensibile all’istanza umana; e Lusetti lo sa bene e ben lo mostra nell’Appendice, su cui vorrei richiamare l’attenzione di tutti i Servizi di Salute Mentale: attenzione allo studio dei fenomeni controculturali o sottoculturali che caratterizzano la deriva esistenziale e comportamentale di non pochi giovani (o tardo-adolescenti) delle ultime generazioni. Questi aderiscono in maniera radicale, totale ed esclusiva a nuovi, alternativi stili di vita, sovente quasi-tribali (penso all’hinterland napoletano, dove opera con entusiasmo fecondo Gilberto Di Petta) e dotati di codici comportamentali, valoriali e progettuali sagomati da nuove necessità aggregative, per certi versi utopistiche, di matrice anarcoide, protese ad una realtà tangenziale e distaccata da quella comune.

    Perentorio è qui, anche per me, vecchio psichiatra, il richiamo psicopatologico al mondo della notte, mondo frequentato dai più diversi abusers, mondo di disoccupati marginali, utilizzatori di ecstasy o di oppiacei sintetici, sia per sfuggire al vuoto dell’insignificanza, sia per superare il grigiore dell’esistenza, verso l’autodistruzione, la tossicodipendenza, il viaggio ed il viraggio psicotico.

    In questo vasto e crescente ambito di nuove psicopatologie, con Lusetti vado a cogliere la distruzione di legami sociali precostituiti, la dispersione dell’identità, il naufragio in una dimensione crepuscolare, il travisamento angoscia-fuga nelle sostanze e/o nel vuoto, attrattore, esito, abuso, scollamento, risucchio, sniffing, shorting, tirare, piffare, bucarsi, calarsi... Con tutta la corte sequenziale di disforia, aggressività, depressioni, sintomi produttivi maniaco-deliranti, amnesie, pulsioni e scopi distruttivi, di esaltazione e di violenza.

    Con questa psicopatologia della notte, aperta ampiamente alla psichiatria forense, all’etnopsichiatria, ai suoi matrimoni esogamici, alle controversie più attuali, si chiude il bel volume di Lusetti, dall’ampio respiro clinico e densità di dottrina.

    Caro Volfango... ad astra!

    Roma, 15-2-08

    Bruno Callieri

    Docente di Psichiatria

    e docente di Clinica Neuropsichiatrica,

    La Sapienza Università di Roma

    a

    Introduzione

    Sono stati pubblicati, in passato, numerosi trattati e manuali di Psicopatologia, alcuni dei quali egregi, scritti da studiosi eminenti o addirittura da personalità geniali; perciò, da sempre, gli autori che si sono accinti a pubblicarne un altro hanno avvertito una comprensibile soggezione verso un così glorioso passato; ciò li ha talora spinti a giustificare la loro iniziativa adducendo argomenti piuttosto generici, quali la continua evoluzione della materia, la necessità di un aggiornamento, di una riflessione critica e simili, nonché ad evitare accuratamente di evidenziare i punti più problematici, o addirittura critici, della tradizione psicopatologica precedente.

    Questo imbarazzo è ulteriormente aumentato negli ultimi decenni, e più precisamente da quando le numerose, successive edizioni e revisioni del DSM hanno praticamente fatto il vuoto attorno a sé, nell’ambito della Psicopatologia, mettendo implicitamente in discussione perfino la legittimità di effettuare un tentativo di sintesi differente da quello definitivo che lo stesso DSM, con la sua ambizione unificante ed onnicomprensiva, ed allo stesso tempo a-teoretica, ha inteso incarnare; ed infatti, da molti anni è divenuto assai raro imbattersi in un temerario che abbia osato dare alle stampe, in solitudine e senza confrontarsi ossessivamente con la koiné imperante, un nuovo manuale di Psicopatologia, o addirittura di rendere pubblico un pensiero psicopatologico che ambisse ad essere, in qualche modo, personale ed indipendente rispetto al contesto culturale prevalente.

    Ora, non c’è dubbio che la disciplina psicopatologica, dalla sua nascita ad oggi, sia mutata più e più volte e sia tuttora in fase di tumultuoso mutamento (senza, peraltro, che i successivi DSM abbiano saputo adempiere alla loro pretesa di rappresentare, in questo campo, delle sintesi adeguate di ogni novità e linguaggio possibili); però non è tanto questo il motivo che ci ha spinti al presente lavoro, quanto il fatto che, malgrado tutti i suoi mutamenti (alcuni dei quali fortemente innovatori, quale il concetto di dimensione), la Psicopatologia, nata sostanzialmente con Kraepelin e con la concezione categoriale, dopo un ricco e lunghissimo percorso teorico sembra per molti versi tornare, a seguito del trionfo delle correnti di pensiero neo-kraepeliniane che sono alla base del DSM e della cultura attuale, al suo punto di partenza, manifestando così un evidente stato di crisi e di difficoltà teorica.

    Di questa singolare tendenza alla circolarità propria del pensiero psicopatologico, diamo brevemente due ulteriori esempi, anche se essi vanno in una direzione ancora differente: in primo luogo, la Psicopatologia si è praticamente sviluppata insieme al concetto, squisitamente medico, di un processo, di una malattia, di una rottura patologica della precedente personalità, ovvero, si è sviluppata col superamento dell’idea griesingeriana di psicosi unica, di degenerazione, ed in definitiva di costituzionalità: attualmente però, con i sintomi di base di Huber e Klosterkoetter (già prefigurati peraltro da Minkowski, nel suo concetto di schizoidia, e dalle tipologie di Kretschmer) essa sembra ritornare, ad onta della grandiosa costruzione di impronta medica nel frattempo lasciataci in eredità da Schneider, proprio all’idea della continuità fra il normale ed il patologico, ed in definitiva, alla costituzionalità di Griesinger.

    In secondo luogo, si assiste da qualche tempo (con Akiskal, ed in Italia con Cassano, Koukopoulos e Perugi), alla tendenza ad interpretare in senso iper-inclusivo la frequente presenza in comorbilità, nelle varie fasi del disturbo bipolare, di aspetti clinici appartenenti ad altri capitoli della Psicopatologia (quali il disturbo di panico, le fobie, alcune forme di ideazione ossessiva, le compulsioni alimentari, quelle al gioco d’azzardo, i disturbi di personalità di tipo borderline, alcuni fenomeni allucinatori e deliranti specie di tipo mistico, ecc.): in altre parole, abbiamo a che fare con la tendenza a considerare gran parte delle patologie psichiche, sia nevrotiche che di personalità, sia psicotiche bipolari che schizofreniche, come includibili tout court nello spettro bipolare, quasi che fossero una sua diretta manifestazione; ma ciò ha spinto questo spettro, a poco a poco, a cambiare la propria natura, a dilatarsi a dismisura ed a mutarsi nel proprio contrario: ossia, a divenire una sorta di continuum, il quale alla fine tende fatalmente ad inglobare tutti i capitoli della Psicopatologia. Insomma, anche questa nuova tendenza sembra ricondurci in realtà verso il passato, ossia, ancora una volta, verso il concetto pre-kraepeliniano della Psicosi unica che fu proprio di Griesinger.

    In definitiva, le insufficienze e le vere e proprie aporie dei modelli teorici cui la Psicopatologia si è finora richiamata, sembrano di volta in volta averla spinta o in direzione dello spezzettamento esasperato, in senso ultra-categoriale, delle sindromi (quale quello che si ha nel DSM), oppure verso un’altrettanto esasperata tendenza alla loro unificazione; quest’ultima, poi, è stata di solito ottenuta tramite l’iper-inclusione di ogni sintomo in sindromi sempre più grandi, indifferenziate e praticamente inservibili sul piano clinico.

    Ma questi elementi di circolarità e di ritorno al punto di partenza non sono gli unici segnali di crisi offertici dalle discipline psicopatologiche: come è stato apertamente riconosciuto, abbastanza di recente, da un autorevolissimo psichiatra di fama internazionale, Mario Maj (Congresso della Società Italiana di Psichiatria tenutosi a Torino nell’autunno del 2000), la Psichiatria, a distanza di 150 anni dalla propria nascita, e di quasi 300 anni dal fiorire di Morgagni, fondatore dell’anatomia patologica e della medicina fondata su evidenze scientifiche, è talmente poco progredita in senso scientifico da essere ancora lontanissima dal potersi definire una branca della medicina: essa infatti non può tuttora identificare, fra le innumerevoli condizioni morbose classificate all’interno dei suoi due principali sistemi diagnostici internazionali (il DSM ed il ICD), neppure una condizione che soddisfi ad almeno uno dei tre criteri necessari, per Morgagni, per potere parlare di malattia:

    1) un’evidenza anatomo-patologica specifica;

    2) un’ezio-patogenesi accertata e riferibile all’evidenza anatomo-patologica stessa;

    3) un quadro sintomatologico costante e tipico, nonché riferibile sia all’evidenza anatomo-patologica che all’ezio-patogenesi.

    Quanto a costanza, ad autonomia ed a tipicità del quadro psicopatologico, in particolare, c’è solo da disperare: a tale proposito lo stesso Maj citava, in quell’occasione, il fatto singolare che la maggior parte dei disturbi psichiatrici elencati sia dal DSM che dall’ICD, sono più frequentemente rinvenibili in forma associata ad altri disturbi, ossia in comorbilità, che non da soli (cosa per lo meno strana per dei quadri clinici che si pretendono autonomi, ed inoltre difficile a rinvenire, nella maggioranza dei disturbi, in qualunque altra disciplina medica).

    Quanto ai primi due punti, i quali a prima vista sembrerebbero riguardare solo tangenzialmente la Psicopatologia, occorre osservare che l’assenza categorie diagnostiche correlabili con evidenze anatomo-patologiche e con un’ezio-patogenesi accertata ha costituito la ragione principale della crescente tentazione della Psicopatologia contemporanea di abbandonare le categorie e di ricorrere al concetto di dimensione: le dimensioni, infatti, dovrebbero teoricamente rendere la Psicopatologia molto più scientifica e misurabile in termini di correlazione con il biologico, anche se nettamente meno caratterizzata in senso medico.

    Ad un’ultima singolarità della Psichiatria accenniamo soltanto, poiché essa, davvero, tocca solo marginalmente la Psicopatologia: l’assoluta non specificità di azione delle quattro principali categorie di psico-farmaci che essa usa per il trattamento delle malattie mentali (ansiolitici, antidepressivi, antipsicotici e stabilizzanti dell’umore); una non specificità condivisa, in realtà, da molti altri farmaci di uso medico ed internistico, ma che solo in Psichiatria riguarda praticamente la totalità dei farmaci stessi.

    Tale non specificità peraltro, negli ultimi tempi, si sta sempre più ufficializzando, con l’estendersi progressivo delle indicazioni di questi farmaci, che sono ormai rivolte praticamente ad ogni tipo di disturbo psicopatologico, oltre che nella pratica corrente, nelle stesse schede tecniche: antidepressivi, sia triciclici che serotoninergici, usati come farmaci antipanico ed anti-ossessivi, antipsicotici atipici usati come stabilizzanti dell’umore, stabilizzanti dell’umore, come la lamotrigina, usati come antidepressivi, oppure come il litio usati in senso antiaggressivo e come complemento antipsicotico (per non parlare dei farmaci di derivazione non psichiatrica, come gran parte degli antiepilettici, i quali sono usati da gran tempo come stabilizzanti dell’umore o come ansiolitici incisivi).

    Noi, perciò, intendiamo giustificare questo nuovo manuale di Psicopatologia in maniera esattamente opposta a quella descritta all’inizio di quest’Introduzione: come un tentativo non già di seguire e sottolineare una presunta evoluzione della disciplina, bensì di segnalarne la stasi; un tentativo, insomma, se si vuole anche provocatorio, di forzare una situazione di stallo, riprendendo a procedere nell’indagine psicopatologica non già, come attualmente è d’uso, a partire da elementi estrinseci (quali la psico-farmacologia o le neuro-scienze), bensì dall’interno stesso della disciplina, ossia da una riflessione ad essa intrinseca, che ne esamini, spassionatamente e senza veli, tutti limiti.

    Il libro, dunque, si muove fra due opposte esigenze.

    La prima esigenza è quella, appunto, tradizionale, di compiere una riflessione critica sulla Psicopatologia partendo dalla sua storia, quindi attraversando nel modo più sistematico possibile le sue principali aree, infine facendo un bilancio dei suoi attuali orientamenti; conseguentemente a tale esigenza, il libro possiede un’architettura da manuale di Psichiatria, quindi comprende un capitolo introduttivo di carattere storico, otto capitoli di carattere tematico e un capitolo finale, il quale costituisce una sorta di carrellata sul più recente pensiero psicopatologico; c’è inoltre un’Appendice su un tema tornato recentemente di grande attualità, come quello della pericolosità del malato di mente, e più specificamente del paziente difficile o violento.

    Malgrado quest’architettura, però, si tratta a pieno diritto, come il lettore noterà immediatamente, di un libro di Psicopatologia generale, poiché in esso la riflessione sulle forme morbose non è mai finalizzata a scopi clinici, immediati, terapeutici o comunque pratici, ma ha l’ambizione prioritaria di tendere al loro approfondimento teorico ed alla loro comprensione strutturale.

    Il libro peraltro, anche se ha acquisito nel corso della sua lunga stesura una connotazione sempre più complessa, nasce come manuale destinato ad una scuola per infermieri professionali: di tale origine ha dunque conservato una struttura di base decisamente didattica, ed in certi passaggi, addirittura didascalica; ciò produrrà forse, in un primo momento, un effetto di noia sul lettore più esperto; tuttavia riteniamo che tale effetto sarà solo iniziale, poiché il testo, pur partendo da ciò che è noto, si sforza di non essere mai banale; del resto la nostra scelta didascalica è meditata, poiché mira a fondare ogni possibile ragionamento teorico, per complesso che sia, su una base il più possibile solida; e la solidità, nella nostra opinabilissima disciplina, spesso coincide con la semplicità dei punti di partenza.

    Da segnalare infine, anche in riferimento a quanto sopra, la nostra scelta, in sé evidente, di implementare al massimo sistematicità del testo: una sistematicità, notata anche da Bruno Callieri nella sua Prefazione, che ad alcuni lettori potrà apparire eccessiva, troppo ambiziosa o addirittura ossessiva, e comunque tale da esporre al pericolo di sacrificare l’approfondimento di singole tematiche al mito di una impossibile completezza; si fa però notare che le nostre convinzioni vanno in un senso esattamente contrario a questa perplessità: riteniamo, infatti, che solo partendo da un confronto fra il maggior numero possibile di forme psicopatologiche, ed anche di impostazioni dottrinali, ossia da una Psicopatologia che potremmo definire, oltre che sistematica, comparata, si può cogliere la natura profondamente unitaria sia della mente che della sofferenza mentale; ed inoltre si può avere qualche probabilità di soddisfare l’ambizione (che confessiamo di nutrire) di individuare almeno alcuni anelli mancanti del pensiero psicopatologico, e quindi di fare progredire in una qualche misura, anche se modesta, la nostra disciplina.

    La seconda esigenza, invece, è meno tradizionale, ed è appunto quella di partire dalle vedute classiche per poi esplorare, nella forma più articolata ed approfondita possibile, alcune aree critiche della Psicopatologia, alcune tematiche rimaste finora oscure, alcuni problemi di base, o nodi della disciplina, che ci sembrano irrisolti; ed inoltre, di farlo non già seguendo le linee di ricerca più consuete nell’attuale panorama culturale (che ci sembrano spesso dettate da mode più o meno effimere), bensì le direttrici che personalmente riteniamo più proficue e gravide di significati di ordine generale, quali ad es. quelle evoluzionistiche.

    Da questo secondo punto di vista, il libro è decisamente orientato, selettivo, a tratti apertamente tendenzioso: lo è, ad es., nella scelta, che a molti sembrerà scandalosamente superata, di collocare l’anoressia mentale fra le malattie psico-somatiche, ed in genere fra i disturbi su base organica; una scelta, peraltro, da noi effettuata nell’intento di contrapporci in termini apertamente provocatori all’imperante banalizzazione di tipo familistico che viene effettuata su un disturbo così drammatico e mortale, nonché di sottolineare come la sua indubbia psicogenesi affondi le proprie radici nel livello mentale più arcaico, profondo e confinante con il soma di cui l’essere umano disponga, quello alimentare, e denoti perciò un evidente meccanismo di difesa auto-cannibalico, singolarmente frapposto a invasioni predatorie esterne, percepite come terrificanti.

    Il libro, inoltre, è tendenzioso nell’interpretazione delle perversioni sessuali, disturbi visti come meccanismi di difesa che si avvalgono di un uso antipredatorio ed antipersecutorio della sessualità; fra le perversioni, fra l’altro, abbiamo osato includere, anche qui in termini scandalosamente arretrati dal punto di vista dell’ideologicamente corretto, l’omosessualità; e ciò non tanto perché ci prema sottolineare una presunta condizione di malattia negli omosessuali, ma semplicemente perché riteniamo che le dinamiche più generali che sottostanno al meccanismo di difesa sessuale antipersecutoria, tipico della struttura perversa, siano comuni anche agli omosessuali; in questo senso, il problema non è tanto di capire se gli omosessuali siano o no dei malati, ma se lo siano in generale i perversi, ed anche molte delle categorie psicopatologiche più diffuse (ivi incluse le più gravi).

    Ancora, il libro è tendenzioso nel carattere volutamente elementare, ed anche arcaico, che abbiamo voluto conferire al capitolo sulle nevrosi, l’analisi delle quali, come il lettore esperto noterà, si avvale, praticamente, di nozioni psicoanalitiche che si fermano alle proposizioni del primo Freud; il capitolo infatti, fatta salva la parte riguardante il continuum ossessivo-delirante (che si ispira ai classici della Psicopatologia, più che a quelli della Psicoanalisi), avrebbe forse dovuto tener conto in maggior misura del concetto kleiniano di conflitto fantasmatico interiore, dei contributi della Psicologia dell’Io, di quella del Sé e di quella dei cosiddetti rapporti oggettuali: ossia, nell’insieme, avrebbe dovuto tener conto del ricco e lunghissimo cammino compiuto dal pensiero psicoanalitico, dopo il Freud teorico dell’Edipo, ed in particolare a partire dal Freud di Al di là del principio del piacere per arrivare fino a Bion (di questo cammino, del resto, ed in particolare della teoria dei rapporti oggettuali, abbiamo tenuto conto soprattutto nel capitolo riguardante i disturbi di personalità, e segnatamente nella trattazione del disturbo borderline); ma poiché il capitolo sulle nevrosi nel complesso lascia piuttosto in ombra questo percorso teorico, è doveroso spiegare che questa nostra scelta, in apparenza strana e lacunosa, intende non già indicare una sottovalutazione dell’importanza della Psicoanalisi post-freudiana, bensì sottolineare la non centralità che questa Psicoanalisi (a parte i nomi di Jung, di Lacan, di Adler e quelli di pochissimi altri) possiede rispetto all’insieme del nostro discorso psicopatologico; e poiché, dunque, i suoi concetti non avrebbero concorso a formare, nel presente manuale, un quadro d’insieme armonico e coerente con il testo, ed anzi avrebbero rischiato di rappresentare solo uno sfoggio di sterile erudizione (in quanto tale destinato a rappresentare una sorta di corpo estraneo), abbiamo preferito ometterli; del resto, a differenza di quanto si può dire per la Psicopatologia generale, non mancano ottimi testi, anche recenti, di storia delle teorie psico-dinamiche (anche perché queste teorie non hanno ancora avuto il loro DSM!), ed il lettore interessato potrà senz’altro fare riferimento a quelli.

    Il libro è tendenzioso, infine, nelle ipotesi che avanza circa la possibile funzione antipredatoria del delirio, delle allucinazioni, della colpa e della stessa coscienza, quindi nella messa in discussione dell’idea-cardine, dalla quale è nata la stessa Psicopatologia, circa la natura patologica e processuale dei disturbi mentali più gravi; questa messa in discussione del carattere medico dei disturbi psichiatrici, però, non ci ha spinto affatto in direzione dell’alternativa rappresentata da un facile e generico costituzionalismo, ma semmai verso ipotesi biologiche alternative e fortemente innovative per la Psichiatria (anche se non nuove in assoluto), come quelle evoluzionistiche.

    Queste nostre piccole esplorazioni a carattere speculativo, le quali si ergono, qua e là, sulla poderosa base concettuale fornita dalla Psicopatologia classica, e si pongono allo stesso tempo in contrasto ed in rapporto dialettico con essa, convergono peraltro, tutte quante, su un paio di idee-base, che a chi leggerà il libro salteranno immediatamente agli occhi:

    1) la prima, è che l’insieme delle innumerevoli patologie mentali che affliggono l’uomo sia unificata da un elemento che è loro comune, e che possiede un chiaro carattere persecutorio (forse di lontana origine predatoria, probabilmente cannibalica).

    2) La seconda, è che in tutte o quasi tutte le forme psicopatologiche conosciute, il soggetto gestisca il proprio rapporto con tale elemento persecutorio di base attraverso un meccanismo di compensazione istintuale interiore, il quale è configurato a circuito con l’elemento persecutorio stesso, e proprio per questo motivo è spesso in grado di neutralizzarlo; questo meccanismo si manifesta clinicamente nelle varie forme di ciclicità psicopatologica, le quali talora si scaricano in prevalenza sul mondo esterno (come avviene nei deliri a sfondo mistico-megalomanico ed aggressivo-paranoideo degli schizofrenici, oppure negli stati maniacali, o ancora negli stati isterici ed in quelli caratteriali, come pure nelle psicopatie criminali), talaltra di rivolgono prevalentemente sullo stesso soggetto (come nelle forme allucinatorie ed in quelle motorie catatoniche, in quelle depressive, in quelle nevrotiche e fobico-ossessive), o infine, a volte, restano a metà strada fra il soggetto e l’ambiente (come avviene nelle forme anoressico-bulimiche e nelle perversioni sessuali: queste ultime, in particolare, ci appaiono tutte quante pervase, a partire dalla pedofilia per finire all’omosessualità, da una dinamica sado-masochistica in cui l’elemento persecutorio si proietta ed incarna nell’altro, ma viene in parte neutralizzato dalla sessualità che scaturisce dall’interiorità del soggetto; la sessualità, poi, al fine di esercitare un compenso sulla persecuzione, assorbe in sé stessa la valenza persecutoria, e talora se ne carica, divenendo a sua volta predatoria. Nelle forme anoressico-bulimiche, poi, questo circuito antipredatorio fra soggetto ed ambiente esterno si avvale, anziché dell’istinto sessuale, di quello alimentare, approdando a risultati che, quanto ad assorbimento della predazione da parte dell’apparato istintuale, sono in gran parte analoghi a quelli delle perversioni, ragione per cui i disturbi dell’alimentazione possono essere definiti delle perversioni alimentari).

    Dall’idea dell’esistenza di un circuito antipersecutorio interiore su base istintuale, il quale sarebbe alla radice di tutte le forme di sofferenza mentale, l’autore ha tratto lo spunto per illustrare questo manuale di Psicopatologia, attraverso l’icona che campeggia sulla sua copertina, con l’immagine mitologica di derivazione junghiana dell’Uroboro, il Rettile che si mangia la coda: questa celebre immagine, riportata da Erich Neumann all’inizio del suo La nascita della coscienza, ha forse il proprio omologo poetico più degno nell’impressionante verso dantesco del canto VIII dell’Inferno, il quale ha l’analogo significato di raffigurare plasticamente il volgersi delle difese antipersecutorie umane verso lo stesso soggetto che le ha messe in atto, ove esse abbiano fallito nel loro compito difensivo verso la persecuzione esterna:

    Dopo ciò poco vid’ io quello strazio

    far di costui a le fangose genti,

    che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

    Tutti gridavano: A Filippo Argenti!;

    e ‘l fiorentino spirito bizzarro

    in sé medesmo si volvea co’ denti.

    In questo verso il termine bizzarro indica, nella sua ambiguità semantica, sia l’anomalia comportamentale della sofferenza mentale, patologica perché apparentemente controproducente (e della quale sfugge, a prima vista, l’originario significato di autocontrollo), sia il suo carattere violento, collerico, bizzarro appunto perché soggetto ad improvvise ed inspiegabili collere, o bizze, di volta in volta dirette verso l’esterno o verso l’interno del soggetto.

    Tramite tale compensazione istintuale interiore, comunque, nelle malattie mentali, all’istanza persecutoria e predatoria vengono di solito contrapposte altre istanze persecutorie e predatorie ad essa equivalenti che hanno il compito di annullarla, oppure istanze istintuali di segno opposto, ossia pacificatorie (quindi, di volta in volta, sessuali, alimentari o socializzanti in senso lato), le quali hanno appunto il compito di compensare e neutralizzare la spinta persecutoria di base, e di correggerla nella maniera più morbida ed indiretta possibile.

    Questo singolare meccanismo di compensazione antipersecutoria a circuito, che secondo noi fa leva essenzialmente sugli istinti sociale, sessuale ed alimentare, e che attraversa l’insieme delle malattie mentali, traspare chiaramente, ai nostri occhi, non solo nella psicosi ciclica per eccellenza (la psicosi maniaco-depressiva, o bipolare, nella quale predazione e socialità sembrano alternarsi nella forma più evidente, e contrapporsi con la massima trasparenza possibile), ma anche in numerose altre condizioni psicopatologiche: le schizofrenie (anch’esse spesso fasiche, oltre che imperniate sulla persecuzione e sul tentativo di neutralizzarla con forme di allarme allucinatorio, o con deliri di grandezza misteriosamente intrisi di desiderio e di istintualità), le perversioni sessuali (tutte accomunate, come si è detto, da una sorta di circuito antipersecutorio sessualizzato, a metà interiore ed a metà esterno al soggetto, a sfondo invariabilmente desiderante e sado-masochistico), la complementarietà e l’alternanza fra le bulimie e l’anoressia mentale (due forme opposte di difesa antipersecutoria, una espansiva e l’altra inibitoria, però accomunate dall’essere entrambe imperniate su un istinto elementare e potentissimo come quello alimentare), il rituale manipolativo e pseudo-sociale, oltre che tossico, con cui viene padroneggiata o alternativamente scatenata l’aggressività nelle tossicodipendenze ed anche in moltissimi disturbi di personalità (in particolare, in quello borderline, in cui ciclicità e persecutorietà sono più evidenti); o ancora, la palese complementarietà, e talora la franca alternanza che esiste fra ossessioni e fobie (tutte letteralmente pervase dalla persecuzione e dall’esigenza di un suo controllo ritualizzato), ed inoltre fra queste due ultime forme, per lo più collegate fra loro, e l’insieme dei disturbi di personalità: assai spesso, infatti, i soggetti fobico-ossessivi hanno una sottostruttura caratteriale, mentre i caratteriali manifestano dei precisi sintomi fobico-ossessivi.

    Un ultimo esempio di quello che secondo noi è un vero e proprio funzionamento antipersecutorio a circuito della mente umana, infine, è rappresentato dall’antinomia strutturale, ed insieme dalla misteriosa complementarietà clinica, che si instaura talora fra le psicopatie da un lato e l’anoressia mentale dall’altro lato: ciò, come se l’anoressia fosse una difesa femminile dalla psicopatia maschile, e viceversa come se la psicopatia fosse un tentativo maschile, più o meno spastico, di forzare le difese femminili, in specie di tipo anoressico, che la specie mette in atto contro la psicopatia stessa (vedi, in bibliografia, il caso descritto nel libro autobiografico Il cacciatore di anoressiche, scritto dall’io narrante uno psicopatico criminale).

    Non potendo certo addentrarci in dettaglio, in questa breve Introduzione, in tutte le forme psicopatologiche, torniamo ancora un momento al disturbo bipolare, che è forse il più centrale e paradigmatico della Psicopatologia, anche in riferimento al nostro assunto di base sul carattere ciclico della patologia mentale e della stessa mente umana: questo disturbo, come abbiamo già detto (vedi sul piano internazionale il lavoro di Akiskal, ed in Italia quello di Cassano, di Perugi, di Koukopoulos e di altri) sembra costituire, nelle tendenze attualmente prevalenti in Psicopatologia, un singolare buco nero dotato di grande densità e di enorme capacità di attrazione, il quale tende ad inghiottire, almeno nella mente di molti psicopatologi, pressoché la totalità dei disturbi psichiatrici: come già accennato, vengono sempre più considerati parte integrante della malattia bipolare da un lato molti disturbi schizofrenici (giacché l’incerta categoria della schizo-affettività contemplata dal DSM, contestata da tutti ma nondimeno molto usata a causa della fasicità di moltissime schizofrenie, viene ascritta a semplice misconoscimento del disturbo bipolare), dall’altro i disturbi ossessivi, quelli fobici e d’ansia generalizzata, quelli anoressico-bulimici, il gioco d’azzardo, i disturbi di personalità (in particolare, il disturbo borderline), le tossico-dipendenze e le più svariate forme di comportamento compulsivo o aggressivo; ciò come se tutti questi disturbi, pur così eterogenei fra loro, fossero delle espressioni assolutamente tipiche del disturbo bipolare, finora misconosciute dalla Psicopatologia classica.

    Noi restiamo, almeno su questo punto, ancorati all’idea (molto più conforme agli orientamenti tradizionali) che la frequenza con cui questi disturbi si presentano, in varia misura, nei bipolari ed in soggetti che non mostrano alcuna traccia di bipolarità, rafforzi, più che smentire, l’ipotesi classica: quella che essi siano, più che un aspetto della bipolarità in sé, delle più o meno efficaci difese contro di essa, le quali (come è ovvio per ogni difesa) in molti casi hanno successo ed in altrettanti falliscono; ciò sembra tanto più vero se si considera che altri disturbi psicopatologici, parimenti ciclici e configurati a circuito (come ad es. le perversioni sessuali sado-masochistiche), appaiono assolutamente refrattari a farsi inglobare nel disturbo bipolare, quindi restano irriducibilmente estranei a qualunque tendenza nosologica iper-inclusiva, anche se mostrano di condividere con questo disturbo, ed anche con altri, un carattere strutturalmente ciclico ed a circuito.

    Tuttavia riteniamo che l’orientamento iper-inclusivo che si sta affermando a poco a poco in Psicopatologia (un orientamento il quale, nella sostanza, mira a tornare all’idea griesingeriana della psicosi unica ed a privilegiare, come perno di tale psicosi unica, il disturbo ciclico per eccellenza, quello bipolare), costituisca in fondo la migliore conferma della nostra ipotesi principale: con esso, infatti, sembra che sia proprio la realtà clinica ad obbligarci a prendere in considerazione il fatto che tutte le forme psicopatologiche si incrociano, ad un certo punto del loro percorso, con un qualche aspetto di ciclicità; il fatto, poi, che tale ciclicità, in senso categoriale, venga ascritta o meno ad un’appartenenza bipolare, ci appare del tutto secondario: l’importante, per noi, non è tanto che esista o sia ipotizzabile, in qualche parte dell’universo nosografico che agli psichiatri è caro immaginare, una malattia mentale ciclica in grado di assorbire ed unificare le altre, ma piuttosto, che sia riscontrabile un meccanismo mentale universale di ordine ciclico, o meglio a circuito, il quale compensa sul piano istintuale i vissuti persecutori, ed attraversa in vario modo le diverse forme della sofferenza mentale, improntandole di sé.

    Questo universale movimento ciclico della mente umana potrebbe perciò rappresentare un meccanismo di natura molto generale; esso, fornendo una risposta istintuale compensatoria ai vissuti persecutori, sembrerebbe finalizzato a compensare alcuni imponenti stress ambientali, vissuti in passato dalla nostra specie, per qualche misterioso motivo, come onnipresenti e terrificanti, quasi che fossero dotati di una carica predatoria assai pervasiva e potente.

    Per tale ragione, le malattie mentali (condizioni nelle quali i vissuti persecutori sono preminenti su tutti gli altri) sembrano affondare le proprie radici nel cuore stesso della natura umana.

    Questo universale meccanismo ciclico di compensazione istintuale antipersecutoria, sembra infine avvalersi essenzialmente di due o tre istinti: in primo luogo degli istinti sessuale ed alimentare (nei disturbi di tipo perverso, in quelli psicopatici criminali ed in quelli anoressico-bulimici), ed in secondo luogo, con un’amplificazione metaforica e quindi un peso culturale potenziale assai maggiore, dell’istinto sociale e dei suoi strumenti comunicativi linguistici (ciò, in particolare, nei disturbi schizofrenici di tipo delirante-allucinatorio, nei disturbi maniaco-depressivi basati sul codice sociale della colpa, ed infine nei disturbi fobico-ossessivi e caratteriali, tutti connotati da una fortissima quota di ritualità para-sociale).

    Un terzo tema di ricerca del libro, dopo quello sulla natura persecutoria dei disturbi mentali e quello sull’assetto ciclico ed auto-compensatorio della mente, è il tema che riguarda la natura della coscienza e dei suoi rapporti con le patologie mentali.

    Su tale tema, l’autore proporrà essenzialmente, nel corso dei capitoli, tre concetti:

    1) il concetto che esista, alla base delle patologie mentali più gravi e primitive una sorta di circuito allucinatorio-delirante primario, e che esso rappresenti da un lato un meccanismo di precoce individuazione e percezione allucinatoria delle stimolazioni persecutorie di origine ambientale, dall’altro un meccanismo volto alla neutralizzazione immediata di tali stimolazioni tramite l’attivazione di una risposta delirante (risposta che noi vediamo come potenzialmente dotata, se non altro in passato o in contesti molto primitivi, di reali capacità di influenzamento sugli altri); inoltre, proponiamo che tale meccanismo abbia rappresentato un primo abbozzo (di tipo puntiforme anziché esteso e narrativo) della coscienza; la coscienza, in questo senso, sarebbe nata come una sorta di precoce sensore psichico antipersecutorio ed antipredatorio, strutturato su base delirante-allucinatoria; tale sua caratteristica, peraltro, renderebbe conto della sua trama rappresentativa continua, ossia permanente nel tempo e quasi filmica. Questo vero e proprio circuito metaforico-rappresentativo a finalità antipersecutoria che è la coscienza, quindi, si sarebbe avvalso di meccanismi di allarme tipo allucinatorio, ed in senso lato linguistico, i quali potrebbero avere gradualmente sostituito, ovvero trasformati, resi più plastici e maneggevoli, alcuni tipi più primitivi di circuito mentale antipredatorio, quali quello basato sull’istinto sessuale (circuito sado-masochistico), oppure sull’istinto alimentare (circuito anoressico-bulimico). Ipotizzare tutto ciò, quanto all’origine della coscienza, ci sembra utile, almeno se se si vuole intendere la coscienza stessa come una funzione che ha avuto, all’inizio della sua evoluzione, un’utilità immediata per la sopravvivenza, sia dell’individuo che della specie.

    2) Il concetto che il circuito bipolare, o maniaco-depressivo, abbia rappresentato un’evoluzione decisiva del più primitivo circuito allucinatorio-delirante di tipo schizofrenico; ed inoltre, che la formazione, con esso realizzatasi, di una particolare coscienza integrata di tipo conflittuale (sintesi dinamica di istanze opposte perché basata sull’alternanza, ed insieme sulla compresenza costante, nella mente, dei derivati istintuali della predazione e della socialità), abbia costituito, per così dire, il cuore stesso del processo di formazione della coscienza nella nostra specie. Riteniamo, in particolare, che quella dolorosissima coscienza integrata di natura predatorio-sociale che fu costituita dal ciclo maniaco-depressivo, abbia allargato in misura decisiva la sfera della coscienza umana, estendendola dal piano spaziale e puntiforme di tipo allucinatorio, ad un piano temporale, di per sé più vasto e più narrativo; in base a questo sviluppo la coscienza, a poco a poco, ha potuto iniziare a basarsi su più sofisticati ed articolati codici simbolici, quali quello della colpa e della posticipazione della gratificazione, e quello del diritto maniacale al piacere ed alla gratificazione immediata. In particolare, esercitandosi nei confronti delle spinte predatorie provenienti dal codice maniacale del diritto alla gratificazione immediata, il sensore antipredatorio della coscienza, attraverso il codice della colpa e della posticipazione della gratificazione, si è volto ad un certo punto dall’esterno all’interno dell’individuo, iniziando ad identificare, oltre ai pericoli predatori provenienti dall’ambiente esterno, anche quelli provenienti dall’interiorità. Per questo motivo la coscienza è dovuta divenire, a poco a poco, un’auto-coscienza riflettente, ossia una sorta di sensore, ovvero di occhio antipersecutorio, rivolto all’interno, quindi spietatamente auto-osservante e finalizzato all’individuazione precoce ed alla repressione di quelle spinte predatorie interiori che possono, in virtù della loro natura, innescare a loro volta una risposta aggressiva ambientale incontrollabile. In virtù di questa sua doppia funzione di vigilanza antipredatoria interiore ed esterna, infine, la coscienza ha dovuto assumere una forma strutturalmente dissociata ed auto-osservante a partire da un punto di vista esterno; ossia è dovuta divenire capace di rappresentare il sé come se fosse un oggetto relativamente estraneo e pericoloso, e quindi di porsi dal punto di vista dell’altro (del collettivo sociale, e talora del possibile predatore) al fine di meglio monitorare e controllare proprio il sé.

    3) Il concetto che la bipartizione della mente, scoperta da Freud, in conscio (dominio di una volontà autonoma dagli istinti e dell’istinto di cooperazione sociale) ed inconscio (dominio dell’istinto sessuale e di quello predatorio), non sia altro che il prodotto relativamente recente della rottura di una più dolorosa e primitiva coscienza integrata di tipo maniaco-depressivo (e dello stretto collegamento fra predazione e socialità che questa coscienza comportava, con la sua perenne carica conflittuale). In seguito a tale rottura, poi, potrebbe essersi formata una coppia di strutture psichiche omologhe e complementari, agenti in simbiosi ed in dipendenza reciproca, ma l’una all’insaputa dell’altra, ossia in forma inconscia: quella nevrotica (la cui sfera di azione si è ulteriormente dissociata e separata, sul piano cosciente, dalle istanze predatorie, producendo forme ossessive di scollegamento strutturale fra ideazioni ed affetti, ed alla fine relegando le istanze predatorie nell’inconscio), e quella caratteriale (la quale ha invece conservato fino alla fine piena coscienza di tali istanze predatorie, ed ha preso quindi ad agire in forma molto meno dissociata, ma anche meno mentalizzata e più motoria, finalizzandosi soprattutto allo scarico esterno).

    L’autore di questo libro ritiene, in conclusione, che un tale carattere di ricerca, che al lettore potrà apparire estremo rispetto ai canoni classici e tradizionali, possa essere considerato legittimo proprio perché nel testo questi canoni non vengono ma trascurati, ed anzi ne costituiscono la base.

    L’equilibrio fra criteri classici e ricerca, insomma, ci sembra essere la caratteristica principale del libro: esso dovrebbe far sì che nel lettore, indotto a partire dal confronto fra le diverse forme psicopatologiche così come appaiono (ossia considerate fenomenologicamente) e poi ad approdare ad una loro esplorazione non solo approfondita ma anche di frontiera, non si ingeneri confusione, ma al contrario uno stimolo intellettuale, ed insieme la curiosità di sviluppare una riflessione personale in proposito.

    Per ultimo, alcune avvertenze.

    Anzitutto, ogni capitolo clinico del libro è preceduto da un breve ritratto della tipologia umana che alla categoria diagnostica ivi descritta più frequentemente corrisponde: ciò ha lo scopo di fornire immediatamente al lettore una precisa sensazione circa il tipo di contatto empatico che con tale tipologia, di solito, viene stabilito dall’interlocutore medio.

    In secondo luogo, specie in alcuni capitoli che maggiormente si prestano a ciò, sono stati inserito alcuni miti greci o episodi biblici che ci sono sembrati particolarmente adatti ad illuminare la natura e la genesi della patologia trattata.

    In terzo luogo, mentre l’insieme dei capitoli è incentrato sull’analisi della Psicopatologia classica, interrotta solo da brevi comparazioni con ipotesi alternative (quali ad es. quelle antropologiche, oppure quelle psicoanalitiche), nell’Appendice, ed in particolare nella sua seconda parte, sono state collocate le nostre ipotesi più personali.

    Infine dobbiamo precisare che per uno dei capitoli (quello dedicato alle categorie ed alle dimensioni) siamo in larga parte debitori al bel libro di Vella ed Aragona Metodologia della diagnosi in Psicopatologia edito da Bollati Boringhieri, il cui contenuto abbiamo rielaborato ai fini del nostro discorso, ed al quale rimandiamo il lettore che sia interessato ad ulteriori e più specifici approfondimenti.

    I ringraziamenti più vivi vanno al prof. Bruno Callieri, che ha voluto dedicare parte del suo tempo alla lettura ed alla revisione dell’opera, e dal quale sono giunti apprezzamenti e critiche che sono stati molto utili alla sua definitiva stesura.

    Capitolo Primo

    Cenni di storia della psicopatologia

    La Psicopatologia sostanzialmente nasce con la medicina greca: le sue prime formulazioni, le quali si riferivano soprattutto alle tipologie (ad es. quella sanguigna, flemmatica, melancolica e biliosa), risalgono infatti ad Ippocrate.

    Tuttavia il corpus più cospicuo della disciplina è coevo alla nascita della Psichiatria moderna, e risale a poco dopo la rivoluzione francese: in particolare, può essere fatto risalire all’epoca della cosiddetta liberazione dei folli dalle catene operata da Pinel; ad essa seguì, assieme alla collocazione dei malati di mente in strutture specializzate per la loro cura (denominate, prima che Ospedali Psichiatrici, Manicomi), un inizio di elaborazione teorica sulle malattie mentali, ancora necessariamente confusa e farraginosa, cui diedero vita, in particolare, autori francesi quali lo stesso Pinel, Esquirol, Morel, Magnan, Falret e molti altri.

    Però un pensiero psicopatologico che fosse minimamente articolato e coerente, cioè tale da basarsi sull’individuazione di una struttura formale e di precise gerarchie nelle svariate forme del pensiero patologico, poté essere prodotto solo più tardi, con molta fatica e dopo che furono definitivamente superati, soprattutto ad opera di autori tedeschi, alcuni pregiudizi, che sulle malattie mentali avevano fin dall’inizio inficiato il pensiero degli psichiatri: in particolare, il pregiudizio (la cui formulazione più chiara ed esplicita è attribuibile a Griesinger, ma che era stato a lungo presente, allo stato latente, nel pensiero psichiatrico) che le manifestazioni cliniche della follia, essendo dei semplici epifenomeni di un insanabile disordine strutturale organico, ovvero di una degenerazione, talora acquisita e talaltra atavica, del cervello, non avessero alcun senso; ora, questo atteggiamento, come si può intuire, portava fatalmente a ritenere che fosse ozioso, ed in definitiva inutile, indagare queste manifestazioni dal punto di vista clinico e del loro contenuto, oppure approfondirle sul piano formale, strutturale e psicopatologico; Kraepelin fu il principale artefice del superamento di questo pregiudizio, e per tale ragione può a buon diritto essere considerato il vero fondatore della Psicopatologia.

    Esiste però un altro pregiudizio, molto più tenace e più difficile da scalzare, dal quale la Psichiatria, ancora oggi, non è riuscita a liberarsi: quello di tipo medico.

    In realtà Kraepelin fu molto influenzato, almeno in una prima fase della sua attività, da una visione non strettamente medica delle cosiddette malattie mentali, ed in particolare dalle idee evoluzionistiche di Darwin: queste lo indussero in un primo momento ad ipotizzare che i sintomi e le sindromi psichiatriche, nel loro carattere misterioso ed inesplicabile, non fossero dei disturbi di tipo medico, bensì dei residui di fasi antropologiche ancestrali, filogeneticamente significative di tappe fondamentali dello sviluppo della nostra specie; tuttavia, quasi subito lo stesso Kraepelin, e dopo di lui la quasi totalità degli psicopatologi, mise bruscamente da parte quest’ordine di idee così innovativo e si attestò, definitivamente, su ipotesi di tipo medico: queste infatti, come si può immaginare, erano molto più facili da inserire nel panorama metodologico già consolidato, ed anche nel sistema di potere della clinica medica generale; esse inoltre, almeno all’apparenza, si presentavano nettamente più operative sul piano pratico e terapeutico.

    Il predominio che da allora ha assunto la concezione medica della follia è stato così assoluto che i pochissimi autori, quali ad es. Silvano Arieti, Tim Crow o Julian Jaynes, i quali nel corso del tempo hanno cercato di fare più o meno timidamente eccezione a questa tendenza non hanno ottenuto, con le loro ipotesi alternative, altro risultato che quello di ricoprirsi di discredito agli occhi del mondo scientifico ed accademico della loro epoca; solo recentissimamente, con grande cautela e muovendosi nella scia di analoghe tendenze della medicina generale (vedi, in proposito, il discorso di Nesse e Williams sulla medicina darwiniana), le ipotesi evoluzionistiche si stanno riaffacciando, in particolare con Mc Guire, ed in Italia con Troisi, nel pensiero psichiatrico.

    Del resto neppure la più eterodossa ed originale delle correnti di pensiero psicopatologico, la Psicoanalisi, ha fatto eccezione a questa tendenza medica della Psicopatologia: Freud, pur avendo esordito, dal punto di vista teorico, più come antropologo che come psichiatra (si veda l’arditissima teorizzazione dell’Edipo, e quella, ad essa strettamente collegata, contenuta in Totem e tabù), ha dovuto rapidamente ripiegare su posizioni di tipo medico; di ciò sono una testimonianza inequivocabile le attuali tendenze psicoanalitiche, tutte incentrate sull’ontogenesi dell’uomo più che sulla sua filogenesi, ossia sull’indagine di un mondo interiore inteso come teatro di un gioco dinamico di elementi psichici a carattere simbolico, fisiologici o patologici, che sono sempre espressione dello sviluppo individuale; sia i cosiddetti fantasmi, sia i residui dell’attaccamento, sia le pulsioni, dunque, agli occhi degli psicoanalisti sono apparsi sempre più come dei risultati di vicissitudini dello sviluppo individuale, quindi del modo in cui ciascun soggetto, concretamente, è cresciuto e si è sviluppato nel proprio particolare ambiente familiare, educativo ed esperienziale, a partire dalla sua dotazione congenita; e tale sviluppo, ove abbia comportato una qualche sofferenza, è sempre stato inquadrato in senso patologico e tendenzialmente medico, a prescindere dal fatto che le sue determinanti ed i suoi fattori di distorsione possano essere stati di ordine prevalentemente congenito oppure ambientale. In definitiva, in Psicoanalisi ogni ricerca ed ogni curiosità circa l’origine filogenetica delle pulsioni, dei pattern dell’attaccamento e dello stesso mondo simbolico che può essere alla base della sofferenza psichica (insomma, circa la storia della specie), sono da gran tempo venute meno: l’interesse precipuo della Psicoanalisi, ormai, sembra irreversibilmente rivolto allo sviluppo dell’individuo ed alla sua distorsione nel senso della malattia.

    Uno degli scopi di questo libro, dunque, sarà quello di sottolineare come l’abbandono sostanziale, da parte della Psicopatologia, di una via autenticamente antropologica di approccio alle cosiddette malattie mentali (ossia tale da partire da una visione dell’uomo e della sua storia che fosse, oltre che integrata ed umanistica, anche antropologica in senso scientifico ed evoluzionistico del termine\) abbia costituito un’enorme perdita ed impoverimento, sia per la Psicopatologia stessa che per la Psichiatria: infatti un tale abbandono ha lasciato totalmente libero il campo della ricerca sulle cosiddette malattie mentali a forme di riduzionismo esasperato e male indirizzato, di tipo essenzialmente biochimico, genetico e farmacologico, le quali sono assolutamente inadeguate a rendere conto da sole della natura e dell’entità della sofferenza mentale come fatto che investe la natura umana nella sua totalità, ed a partire dai suoi stessi fondamenti.

    Questa perdita e questo impoverimento, secondo il nostro punto di vista, sono avvenuti per un motivo assai semplice: l’approccio antropologico, a differenza di quello medico, ove venga abbracciato sul serio, pone l’osservatore di fronte alla necessità di contemplare la natura normale e quella patologica delle manifestazioni psichiche dell’uomo con uno sguardo davvero integrato ed unitario; un tale sguardo, però, conduce spesso a risultati sorprendenti e sgraditi, poiché evidenzia fatalmente, in forma diretta e talora spietata, aspetti sommamente inquietanti, oltre che delle cosiddette malattie mentali, della stessa natura umana; e si tratta di aspetti rispetto ai quali la nostra cultura tende, da sempre, a ritrarsi spaventata.

    Inizieremo ora il nostro excursus sulla storia della Psicopatologia da una breve disamina dei termini che hanno designato la cosiddetta malattia mentale nel corso dei secoli.

    Dal punto di vista etimologico, i termini che designano quella che oggi chiamiamo malattia mentale sono molteplici e di vario significato; essi rispecchiano da un lato aspetti diversi della malattia, dall’altro una sua diversa concezione ideologica; ciò a seconda dell’epoca del loro conio, e di quella in cui il loro uso si generalizzò.

    Ad es:

    a) follia, dal latino folis, significa vescica vuota, otre pieno d’aria. Il termine si riferisce presumibilmente all’inattendibilità dei contenuti del delirio, e soprattutto alla fatuità ed anaffettività che spesso si riscontrano in buona parte dei deliranti; ma forse si riferisce anche alla forte diminuzione di significatività magico-religiosa che della follia si registrò in epoca romana, ed al suo conseguente divenire oggetto di un’attenzione molto più disincantata, laica e meno timorosa rispetto a quella propria delle età più arcaiche. Il folle, infatti, dal diritto romano fu inquadrato per la prima volta chiaramente come irresponsabile e non punibile, alla pari di un minore; ma con ciò, esso fu radicalmente desacralizzato; perciò il mondo romano fu forse il primo a cogliere chiaramente le caratteristiche della fatuità, dell’anaffettività e dell’inconsistenza del malato di mente, e ad anteporle a quelle, che vedremo fra poco, della sofferenza e del carattere inquietante, ovvero contagioso.

    b) pazzia, dal greco pathos, significa invece, appunto, sensibilità, sofferenza: il termine, dunque, indica in primo luogo l’estrema permeabilità e labilità dei confini fra il sé ed il mondo che è propria dei malati di mente, cioè la forte carenza delle loro strutture di filtraggio rispetto alle sollecitazioni esterne, allo stress e ad ogni sorta di stimolazione ambientale negativa che giunga loro; ma questa ipersensibilità e questa permeabilità, come sappiamo, è ciò che rende gli stessi malati di mente dei veri e propri contenitori delle relazioni umane più negative, aggressive o predatorie, e li fa quindi divenire, oltre che dei soggetti estremamente sofferenti, anche una sorta di sentinella collettiva, ossia di indovini o di profeti impropri di tutto ciò che di negativo li circonda; ora, questo è appunto il ruolo che fu assunto, in epoche molto antiche, da quegli autentici condensatori della negatività collettiva che furono i profeti: essi dunque, molto probabilmente, non furono nient’altro che dei misconosciuti malati di mente, sia pure di tipo assai più strutturato della media, o quanto meno di ciò che siamo abituati a vedere nella nostra pratica professionale (si veda, ad es., in proposito, il mito omerico di Cassandra che riportiamo alla fine del capitolo quarto, da cui risultano le particolarissime caratteristiche psicologiche di questa figura, sempre incompresa e tutto sommato reietta, sia dalla famiglia che dalla collettività a lei circostante, e per molti versi corrispondente al profilo del malato di mente attuale). Perciò, già dall’etimologia del termine pazzia vediamo come nel mondo greco si avesse del folle una concezione più drammatica, ed insieme più nobile e sacrale, rispetto a quella che si ebbe nel già più disincantato e laico mondo romano.

    c) matto, dal greco maìnomai, significa attivismo a-finalistico, agitarsi a vuoto, lottare impropriamente; sembra però che l’origine più antica del termine sia sanscrita, e che indichi il pensiero, prima ancora che il comportamento; il termine, che malgrado l’origine colta ha da sempre una grande diffusione popolare, indica dunque disfunzionalità, mancanza di una vera progettualità mentale e di pensiero, ma fa anche riferimento alla vistosa reattività motoria dei malati di mente, nonché alla rilevanza in essi delle manifestazioni comportamentali, spesso anche di carattere violento, le quali tentano presumibilmente di compensare con la loro ipertrofia a-finalistica questa carenza di base circa la progettualità ed il pensiero.

    d) alienazione, infine, è un termine più colto che deriva dall’aggettivo latino alienus, il cui significato è straniero, estraneo; la follia, infatti, da un certo momento in poi (già nell’antichità classica, ed in particolare, come abbiamo visto, nel diritto romano) divenne estranea alla cultura, ossia incomprensibile ed irraggiungibile per via empatica, anche se studiabile sul piano razionale; ancora fino a poco tempo fa, del resto, gli psichiatri erano denominati alienisti. La follia, peraltro, era stata percepita come aliena già fin dai primordi della cultura umana, ma in un senso completamente diverso, cioè come intrigante, però anche inquietante e perfino contagiosa per la sensibilità morale collettiva, dunque minacciosa, da combattere o da fuggire (o meglio ancora, da relegare lontano dai luoghi della convivenza civile): nelle scritture ebraiche ad es., e precisamente in Zaccaria, si trova un’interdizione a profetare (quindi, implicitamente, a seguire i programmi deliranti provenienti dalle indicazioni contenute nei fenomeni allucinatori), rivolta a chiunque non fosse abilitato a farlo (i sacerdoti), ed accompagnata dalla terribile ingiunzione, indirizzata in primo luogo ai genitori dei soggetti allucinati e profetanti, di uccidere senz’altro questi loro figli devianti, a pena di gravissime ritorsioni su loro stessi. Oggi invece, come ci ha ben spiegato la fenomenologia (vedi il bellissimo Alterità e alienità di Cargnello), l’addolcimento dei costumi che ci separa dall’antichità ha fatto sì che alla percezione di alienità si sia a poco a poco sostituita quella dell’alterità, ossia il potere finalmente considerare il diverso come un altro e non, necessariamente, come uno straniero o un alieno.

    Il termine alienazione, in un senso molto diverso, conobbe una discreta fortuna nell’Ottocento, sull’onda del pensiero hegeliano e marxista: esso indicò la separazione violenta del soggetto da sé stesso operata dal processo storico; più recentemente (negli anni 50 del Novecento), il termine è tornato in voga con l’esistenzialismo, ed ha preso ad indicare l’estraneità dell’essere del soggetto rispetto al mondo dell’esistenza (ed a sé stesso), quindi il senso di depersonalizzazione e di disgusto che ogni soggetto esperisce per le cose: queste, infatti, in prima istanza gli appaiono appartenere al mondo dell’esistere anziché a quello dell’essere, quindi del tutto prive di senso.

    In conclusione, nelle culture più arcaiche e pre-classiche il folle era stato considerato come un soggetto da trattare con molta attenzione perché percepito come misteriosamente contagioso e pericoloso, anche se, forse per lo stesso motivo, esso poteva tornare utile alla ritualità collettiva come sentinella, quasi sistema di allarme di fronte a pericoli di origine occulta; perciò egli veniva protetto da tabù che imponevano di rispettarlo come sacro, ma allo stesso tempo di non toccarlo, ossia di tenerlo lontano (ad es. dal gruppo, dal villaggio, ecc.) perché contagioso; oppure, egli veniva coinvolto in rituali religiosi che prescrivevano al collettivo di utilizzarlo senza scrupoli per purificarsi (ad es. sacrificandolo); il folle quindi, in un modo o nell’altro, era sempre considerato, dalle culture arcaiche, assai coinvolgente per tutti.

    In epoca romana però, come già accennato, si iniziò a considerarlo più estraneo, quindi assai meno utilizzabile in senso rituale; perciò egli ridivenne intoccabile, ma in un senso completamente diverso da quello del tabù religioso e della repulsione, ossia dal punto di vista giuridico: fu infatti considerato irresponsabile, quindi equiparato ai minori, e perciò reso non punibile (ancora oggi può capitare di sentire denominare un malato di mente, nel linguaggio giuridico o poliziesco, come minore).

    Anche se avvisaglie di questo mutamento capitale effettuato dal diritto romano erano contenute già nella medicina greca di età classica, fu proprio nel mondo romano che sul piano giuridico penale e civile il folle, per la prima volta, cominciò ad essere protetto dalle conseguenze dei suoi atti.

    Nella sostanza però, con questo garantismo, il malato di mente fu messo da parte rispetto all’insieme della ritualità di gruppo, e cessò a poco a poco di parlare all’immaginario collettivo: da pazzo, ovvero luogo e contenitore del pathos, nonché condensatore della sofferenza individuale e collettiva, egli a poco a poco divenne folle, folis, recipiente vuoto e privo di senso, e sulla percezione dei suoi aspetti violenti, profetici ed inquietanti, prevalse nettamente quella della sua inadeguatezza, vuotezza, fatuità (percezione, quest’ultima, che tutto sommato prevale tuttora).

    In sintesi, mentre nelle culture più antiche e più primitive il folle fu avvertito come sacro (ossia impuro,) e quindi considerato maledetto e contagioso ma anche empaticamente vicino alla sensibilità comune, nelle culture più progredite e moderne esso divenne a poco a poco, sul piano emotivo, più lontano, privo di senso, quasi sterilizzato, quindi non più manipolabile né punibile; però, per questo stesso motivo, esso fatalmente si desacralizzò, almeno presso le classi colte (mentre, a livello popolare, conserva ancora oggi quasi tutti i suoi connotati inquietanti).

    Per tutti questi motivi il folle perdette a poco a poco, insieme con la paura che in precedenza infondeva agli altri (e che imponeva o il suo sterminio o la sua emarginazione), ogni vera importanza ed utilità sociale, sia pure nei termini di luogo di scarico delle angosce persecutorie collettive, ovvero di capro espiatorio.

    Questo processo di desacralizzazione del folle, però, fu sempre un fatto del tutto contingente, storico-culturale, quindi reversibile: nelle culture cristiano-medioevali immediatamente successive a quella romana, ad es., il malato di mente tornò di nuovo, per qualche tempo, ad essere un soggetto percepito come inquietante e pericoloso, e riprese perciò ad essere parzialmente trattato come un capro espiatorio; il cristianesimo, riportando in parte in auge l’atteggiamento fobico che era stato proprio della cultura ebraica (e che abbiamo visto clamorosamente operante nella sopracitata ingiunzione di Zaccaria), reputò che almeno alcuni casi di follia (ad es. alcune sindromi isteriche femminili, caratterizzate talora da atteggiamenti provocatori sul piano sessuale o religioso), fossero prove di colpevolezza di fronte a Dio, e addirittura indizi di possessione demoniaca, come tali passibili di punizione e di procedure di espiazione o purificazione simili a quelle cui venivano sottoposti gli eretici; tutto ciò giunse talora, nel caso dei malati di mente, all’estremo della tortura e del rogo.

    Ancora successivamente, con il grande processo di internamento dei soggetti invisi alla società descritto da Michel Foucault, ed avviatosi in Europa occidentale a partire dal Cinquecento (età della nascita della civiltà capitalistica moderna e degli stati nazionali, che Foucault denominava come classica), il folle cessò di nuovo di essere visto come indemoniato e ricominciò, esattamente come in epoca romana, ad essere percepito come non responsabile dei propri atti; egli però allo stesso tempo, curiosamente, tornò ad essere considerato contagioso e pericoloso, anche se su un altro piano, solamente oggettivo e sociale; perciò il suo trattamento non migliorò di molto rispetto all’epoca cristiana e medioevale: se nei reclusori inaugurati agli albori della civiltà capitalistica esso gli consentì di sopravvivere al rogo, non gli evitò di essere trattato esattamente come un appestato (le pestilenze, a quel tempo per l’appunto imperversavano).

    In definitiva, con il sorgere del capitalismo il folle fu allontanato fisicamente dalla collettività ed internato in asili, ossia in strutture nelle quali confluivano tutte le categorie di persone socialmente sgradite come i criminali, i libertini, le prostitute ed i devianti di ogni tipo; e se questo internamento di massa avvenne unicamente per ragioni pratiche e di ordine sociale, non fu certo meno duro di quello che si era accompagnato, in precedenza, alle persecuzioni religiose.

    Infine sul finire del Settecento, durante la rivoluzione francese, Pinel ed Esquirol presero a considerare la follia come una malattia in senso stretto, alla stregua delle malattie del corpo, in analogia con la filosofia di Cartesio, la quale più di un secolo prima aveva considerato la mente una cosa, alla stregua del corpo.

    La filosofia di Cartesio (René Descartes), in linea generale, considerava la realtà materiale ed il pensiero come entità parallele ed indipendenti, il cui collegamento poteva però essere istituito tramite una sola di esse: il pensiero, fondamento ontologico di tutte le cose (Cogito, ergo sum).

    Quando Cartesio, però, dovette applicare questo collegamento generale fra il pensiero e la realtà materiale al rapporto fra mente e corpo, si rese conto del fatto che la mente doveva pur avere un qualche legame anche oggettivo con il corpo, dato che con ogni evidenza ne dipendeva, e senza di esso non riusciva a funzionare, e neppure a sopravvivere; però egli diede al problema una soluzione assai riduttiva ed opinabile, poiché postulò che anima e corpo fossero collegati anatomicamente fra loro attraverso la ghiandola pineale; ora, questa spiegazione del problema filosofico del dualismo pensiero-realtà materiale, con ogni evidenza non spiegava nulla, in quanto si limitava ad istituire un legame estrinseco fra le due polarità del dualismo stesso (legame che, per di più, era letteralmente inventato, e senza alcuna base o evidenza anatomica); ma proprio con il carattere artificioso e forzato di tale soluzione al problema del rapporto fra mente e corpo, Cartesio ribadì implicitamente di concepire pensiero e realtà materiale come separati da un dualismo ontologico molto netto ed insanabile; questo dualismo fu molto importante sul piano pratico, perché rappresentò un colpo mortale alle visioni olistiche della scienza e della medicina fino ad allora imperanti, e consentì il definitivo affermarsi di quella mentalità spassionata ed oggettivante che era necessaria alla pratica scientifica di tipo sperimentale inaugurata a Galileo Galilei; esso, però, sul piano filosofico rappresentava una soluzione molto debole, la quale, come si sa, verrà superata solo da Immanuel Kant, con i concetti di sintesi a priori e di trascendentale.

    Il dualismo cartesiano pensiero-realtà materiale, corpo-mente, però, malgrado la sua debolezza filosofica di base, sul piano ideologico o di visione del mondo implicava che i suoi due termini potessero essere posti esattamente sullo stesso piano, ossia sottratti in ugual misura ad ogni visione mistica o metafisica; ora, fu precisamente questa la novità più rivoluzionaria di Cartesio: quella

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