I morti siete voi
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Anteprima del libro
I morti siete voi - Luca Cangianti
Acqua Santa
L’esplosione provocò una ventata d’aria infuocata. Il tenente fu sbalzato in avanti e cadde a terra sbattendo il volto su una pietra. Sotto lo zigomo sinistro una ferita cominciò a sanguinare. Mentre strisciava verso un magazzino a pochi metri di distanza, avvertì una pioggia di detriti. Si rifugiò sotto una sezione di un grande tubo di acciaio. Gli sembrava massiccio e capace di proteggerlo nel caso l’intera costruzione fosse venuta giù. Un bagliore colorò di giallo il ponte levatoio, il muro alla Carnot, gli alloggi, gli automezzi, i pini e le colline intorno alla Caserma dell’Acqua Santa. Il tenente ansimava, tossiva, aveva la sensazione che tutti gli organi dentro il torace e il ventre stessero bruciando. La bocca era impastata di terra, sputò più volte ed ebbe anche un conato di vomito. Avvertì un rumore provenire dal sottosuolo: sembrava generato da una turbina impazzita che aumentava progressivamente i giri. Una seconda esplosione fece tremare la terra. Seguì il silenzio.
Nella semioscurità del suo rifugio cominciò a tastarsi il corpo per capire se avesse altre ferite oltre a quella del volto che aveva tamponato con un fazzoletto. Le gambe stavano bene, il torace e l’addome anche, la scapola destra invece era intorpidita e se provava a muovere il braccio provava dolore. Portò la mano sinistra dietro la spalla: la divisa era lacerata. Si guardò la mano sporca di sangue ed ebbe nuovamente un senso di vertigine. Dall’esterno del magazzino giungevano i lamenti e le urla dei feriti, ma anche suoni striduli che non riusciva a identificare. Aspettò ancora alcuni minuti e uscì dal rifugio di metallo. Arrivò agli stipiti del magazzino e fu accecato dal sole di luglio.
A una decina di metri giaceva immobile un aviere nella sua divisa grigio-azzurra. Accucciati sul suo corpo tre commilitoni emettevano versi indecifrabili, come degli schiocchi palatali ripetuti a breve distanza. L’uomo si spostò alla destra del deposito per vedere cosa stessero facendo. Uno dei tre si voltò di scatto emettendo un ringhio ferino. Stringeva nella mano un pezzo di carne, aveva la bocca imbrattata di sangue e la pelle ricoperta di squame. I suoi occhi erano due buchi neri che sprofondavano in un abisso insondabile. Il tenente si diede alla fuga, barcollando e inciampando. Altre creature simili inseguivano i militari della caserma, li atterravano e ne dilaniavano le carni a morsi. Da dietro un muretto un soldato con un fucile 91 sparava su uno di quei mostri che avanzava con la divisa della milizia fascista. I proiettili entravano nel torace senza arrestarlo. A tre metri di distanza la creatura spiccò un salto e fu addosso al militare che emise un grido soffocato. Il tenente notò molte altre camicie nere che fuggivano disordinatamente. Raggiunse il viale alberato che portava all’uscita della caserma. Uno degli edifici principali era distrutto, il portale d’entrata non era presidiato. Il sole era alto e il clima afoso. Imboccò via Appia Pignatelli in direzione di Roma. Una colonna di fumo nero saliva dalla città, un’altra meno densa dall’aeroporto di Ciampino.
Aveva perso molto sangue, ma il suo volto legnoso era composto e non lasciava trasparire il dolore che pur doveva provare. Quando udì il rumore di un veicolo si mise in mezzo alla strada e si accasciò a terra. All’uomo che gli apparve sfocato davanti agli occhi, prima di svenire disse: «Tenente Ferrari Vittorio, 1° Reggimento Granatieri di Sardegna, 3° battaglione, 9a compagnia».
Villa Mirafiori
«Per i servizi segreti, gruppi sovversivi internazionali pronti a far degenerare la protesta». Andrea declamò il titolo tenendo il Corriere della Sera
con entrambe le mani. «Guerriglia al G8 con armi non convenzionali. Genova, l’allarme degli 007: trappole antiuomo, aerei telecomandati e palloncini con sangue infetto».
Durante la mattinata aveva piovuto, ma adesso tra le nubi filtravano alcuni raggi di sole che illuminavano i pini ancora gocciolanti di Villa Mirafiori. L’edificio era una residenza nobiliare ottocentesca immersa in una vegetazione esotica. Al suo interno erano stati collocati i corsi di laurea in Filosofia e Lingue Straniere dell’Università di Roma La Sapienza
. La sensazione di chi vi entrava per la prima volta provenendo dal traffico urbano era di trovarsi in un giardino incantato: se un elfo fosse saltato fuori da un cespuglio nessuno si sarebbe stupito più di tanto.
Era l’ora di pranzo: gli studenti affollavano il bar, ritiravano lo scontrino alla cassa, presidiata dal proprietario con la cornetta del telefono perennemente incollata all’orecchio, e portavano fuori cappuccini, birre Peroni e panini imbottiti per consumarli seduti intorno alla fontana di San Francesco.
Valeria avvertiva l’umido della panchina bagnata passarle attraverso i jeans: «E poi? Quali altri flagelli prevede il programma dell’apocalisse?» chiese accarezzando i capelli neri che Andrea portava legati con un elastico dietro la nuca.
«Proprio dalla Germania già a febbraio era giunta la segnalazione che Osama Bin Laden, il king maker del terrorismo islamico, avrebbe iniziato a finanziare naziskin in tutt’Europa affinché essi potessero portare a compimento attentati e azioni violente nel nostro paese durante il G8. Le informazioni giunte da Berlino avevano messo in evidenza, già tre mesi fa, quindi, che sullo spontaneismo dei contestatori della globalizzazione si è ormai inserito (con importanti finanziamenti) chi potrebbe volere una platea globale per qualche atto clamoroso».
«Stanno seminando il terrore» commentò la ragazza guardando i pesci rossi che nuotavano lentamente sotto gli zampilli dell’acqua.
«A tutto questo si è aggiunto il fatto che negli ultimi tempi dall’estero sono arrivate informative molto circostanziate sull’intenzione dei contestatori di utilizzare armi non convenzionali
che sarebbero state già preparate e stoccate in alcuni depositi in Nord Europa. Con questo aggettivo gli addetti ai lavori indicano una serie di armi a basso costo
che possono avere pesanti conseguenze in termini di sicurezza. Secondo il controspionaggio tedesco esse vanno dalle trappole antiuomo
, alle armi non letali
che però sono in grado di mettere ko le forze dell’ordine (ad esempio paralizzando temporaneamente gli agenti in servizio), ai mezzi tecnici necessari per portare attacchi alle strutture informatiche del vertice, o per creare tempeste magnetiche contro gli apparati elettronici. Infine, fa parte di questa categoria di armi, l’uso di piccoli aerei telecomandati in grado di trasportare agenti chimici o biologici oppure – si legge in un rapporto dei nostri servizi – l’impiego di palloncini contenenti sangue infetto con il virus dell’Aids».
«Sono solo otto palloni gonfiati che si arrogano il diritto di decidere le sorti del pianeta al posto dei sei miliardi di esseri umani che lo abitano. Se la voce della gente comune arriverà a Genova non potranno far altro che ascoltarla. Ecco perché mettono in giro tutte queste bugie».
«Ma sì, non saranno certo le veline dei servizi segreti a metterci paura. Credo che gli enormi ingranaggi della Storia abbiamo prodotto un fatidico clic. Noi riusciremo dove hanno fallito i nostri genitori negli anni Settanta: abbattere l’Impero!»
Era il 20 maggio del 2001 e ormai mancavano due mesi al vertice degli otto leader dei paesi più ricchi del mondo. Anche Valeria avvertiva che qualcosa d’importante stava per accadere. Non era sicura tuttavia che si trattasse di portare a compimento un ideale del secolo scorso, quanto piuttosto di fare emergere un nuovo modo di vivere insieme. Qualcosa di più pratico, insomma. Si passò una mano tra i boccoli castani per ravvivarli. Poi guardò negli occhi Andrea e lo abbracciò lasciando che il giornale si accartocciasse tra i loro corpi. Dal cielo cominciò a cadere una leggera pioggia primaverile.
La Garbatella
Sarebbe dovuto rimanere più giorni all’ospedale militare del Celio, ma il dottore gli disse che la brutta ferita alla spalla si stava rimarginando molto velocemente. Dell’incidente aveva ricordi sfocati ai quali non sapeva dar senso. Anzi più che ricordi gli sembravano pure e semplici allucinazioni.
«Succede, quando si finisce sotto i bombardamenti. Dovete esser contento di non averci rimesso la pelle, caro tenente».
Il medico informò Vittorio che quando era stato portato al Celio, cinquecento aerei americani avevano appena finito di riversare alcune migliaia di bombe e spezzoni incendiari sugli scali ferroviari di via Salaria e di San Lorenzo, sugli aeroporti di Centocelle e di Ciampino. Negli ospedali erano arrivati diecimila feriti e i morti si contavano a migliaia. Il papa si era recato in automobile a pregare tra le macerie, mentre Mussolini era in Veneto a parlare con Hitler delle famose armi segrete che avrebbero capovolto le sorti del conflitto. Nei giorni in cui l’Italia entrò in guerra i giornali parlarono perfino di un misterioso raggio della morte
collaudato dallo scienziato Guglielmo Marconi negli ultimi anni di vita. Ma ora, dopo tre anni di fame e di sconfitte militari, i romani si erano convinti che tutte queste storie fossero solo smargiassate della propaganda fascista. Con i bombardamenti del 19 luglio 1943, inoltre, capirono che perfino la Città Eterna poteva essere attaccata: gli Alleati se ne infischiavano delle antichità classiche, dell’arte barocca e di San Pietro. Ciò nonostante la popolazione non malediceva le Fortezze Volanti che oscuravano i cieli, ma chi aveva provocato il loro arrivo. «Meglio gli americani sulla capoccia che Mussolini tra i coglioni!» riassumeva una scritta anonima tracciata con la vernice bianca su un muro sbrecciato del quartiere Prenestino.
«Considerato il vostro stato e l’affollamento dell’ospedale, se avete parenti in città potete passare il resto della convalescenza a casa».
«Sono di Genova, non conosco nessuno qui» rispose Vittorio.
Poi richiamò il medico che con il camice sbottonato e l’aria accaldata si stava allontanando. Gli disse che a pensarci bene lui aveva un fratello a Roma. Il dottore alzò un sopracciglio, ma dopo qualche istante annuì con il capo. Aveva ben altro a cui pensare.
Il 25 luglio, con gli abiti civili di buon taglio che un sergente ligure del suo plotone gli aveva recuperato alla caserma del 1° Reggimento, il tenente si allontanò dall’ospedale militare in direzione del Colosseo e arrivò all’Arco di Costantino. Il monumento, come molti altri, era coperto dalle impalcature di legno che lo avrebbero dovuto proteggere dai bombardamenti. Percorse via dei Trionfi costeggiando i Fori fino a un edificio bianco in stile razionalista che ospitava il Ministero dell’Africa Italiana. Dopo mezz’ora di cammino giunse a Porta San Paolo, dove gente di tutte le età andava e veniva come se fosse una normale domenica. Lì chiese informazioni a un passante e proseguì lungo i palazzi color crema in direzione di un ponte ferroviario contrassegnato da una grande pubblicità della Radiomarelli. Svoltò a sinistra per una via che saliva parallela ai binari della Stazione Ostiense: la città aveva ormai cambiato aspetto diventando un vasto territorio industriale e periferico. Sulla destra, oltre la ferrovia Roma-Lido, il tenente vedeva in lontananza i Mercati Generali, le ciminiere di alcune fabbriche allineate e un gazometro che sembrava il gemello futurista del Colosseo. Sulla sinistra altri opifici, alcune casupole, molti orti e un grande edificio con una ciminiera. In fondo, dopo un ampio spazio desolato, adagiata su un gruppo di colline sorgeva una cittadina scrostata dal color porpora. Ma era sempre Roma, o almeno una sua propaggine estrema.
«Voi chi sareste?» fece sospettoso il portiere del lotto 14.
«Sono il fratello di Ferrari Pietro».
«Ah, non sapevo che ce ne avesse uno. È meglio che vi c’accompagni io, che sennò chissà dove finite. Se non siete della Garbatella, tra i lotti vi ci perdete di sicuro».
Seguendo l’uomo, dopo pochi passi Vittorio fu colpito da una pallonata proprio sulla ferita dello zigomo sinistro. Imprecò sottovoce e si mise una mano sul volto. Una decina di bambini con le facce sporche giocavano scalzi calciando una palla di stoffa.
«Scusa!» gridò il colpevole.
«Tra i lotti non si può giocare a pallone!» ringhiò il portiere cercando d’impadronirsi del mucchio di stracci cuciti insieme. I bambini furono più veloci nel mettere la palla in salvo e attesero che i due adulti si fossero allontanati.
Vittorio salì delle scale tra filari di biancheria consunta stesa ad asciugare e giunse in uno spiazzo dove si affacciavano tre casette in stile rurale. Un uomo in canottiera poco più giovane di lui aveva appena inserito la chiave nel portone di un edificio a due piani con pezzi d’intonaco mancante che lasciavano intravedere i mattoni.
«Signor Pietro!» chiamò il portiere.
L’uomo si girò, aveva una ruga trasversale sulla fronte.
«Questo signore mi ha detto che è vostro fratello…»
«Che ti sei fatto sotto l’occhio?» chiese Pietro dissimulando la sorpresa.
«Non è niente».
«Dov’è successo? Al fronte?»
«Dalla Croazia sono tornato sano. Qui invece hanno bombardato una caserma dove ero stato inviato a ritirare dei documenti. Ho fatto un bel volo. Mi hanno concesso una licenza. Ho telefonato a casa e ho chiesto il tuo indirizzo a Giovanna. Ma sono passato solo per…»
«Le avevo detto di non darlo a nessuno… ma la nostra sorellina ha fatto bene! Vieni, lo sai che sei diventato zio?»
Pietro congedò il portiere ringraziandolo e fece cenno a Vittorio di entrare. Quando gli fu vicino lo abbracciò e lo strinse forte a sé. Il tenente provò una fitta alla ferita sulla scapola. S’irrigidì sforzandosi di resistere al dolore. Avrebbe voluto abbracciare Pietro, ma non riuscì a muoversi prima che il fratello si ritraesse imbarazzato.
Maria vide che lo sconosciuto aveva gli stessi occhi verdi del marito. Rimase perplessa per un istante, ma quando Pietro rivelò l’identità dell’uomo andò allegramente ad abbracciare il cognato. Il tenente questa volta emise un gemito spiegando che aveva trenta punti di sutura sotto la scapola destra.
La donna aveva venticinque anni, come Pietro, capelli neri e un sorriso che irradiava energia. Indossava un vestito senza maniche, scolorito, ma ben stirato. Sua sorella Gloria, invece, aveva appena compiuto diciassette anni: il viso minuto, il seno praticamente assente e i capelli raccolti sulla nuca la facevano apparire ancora più giovane. Era scalza e indossava dei pantaloni corti da uomo che contrastavano con la camicetta bianca ricavata cucendo insieme fazzoletti ricamati, cioè l’unica stoffa non sottoposta a razionamento. Si alzò dal copriletto steso sul pavimento dove giocava con un bambino e una bambina più piccola che riusciva solo a gattonare.
«Sembri un soldato americano» disse dando la mano a Vittorio con un sorriso timido.
«E invece sono un granatiere italiano in convalescenza».
«Gloria, tu l’hai mai visto un americano?» fece Maria dalla cucina.
«Nei film, prima della guerra».
«E sono belli gli americani?» provocò Pietro.
«Beh, sì» fece imbarazzata, «ma mai come i sovietici!»
«E quelli dove li hai visti?»
«Se li è sognati di notte!» rise Maria.
All’ora di cena scesero i genitori della donna che abitavano al piano superiore. Furono contenti di conoscere il fratello di Pietro e per l’occasione decisero di mettere in tavola un fiasco di vino bianco. Mangiarono tutti insieme una panzanella fatta con i pomodori e il basilico dell’orto di guerra, cipolle, sale e perfino un po’ d’olio, che alla borsa nera costava cento lire al litro, praticamente tre giorni di paga di un operaio. Purtroppo di aceto non ce n’era e il pane era quello della tessera annonaria: quadrato, nero, fatto di segale, ceci, granoturco, foglie di gelso, sciroppo di olmo… e segatura.
I genitori di Maria andarono a letto presto lasciando i più giovani ancora intorno al tavolo a bere un ultimo bicchiere.
«Gli americani adesso sono a Palermo» fece Pietro rivolto al fratello, «quanto ci metteranno per arrivare fino a qui?»
«Dipende» rispose laconico Vittorio.
«Speriamo che si sbrighino» aggiunse Maria per colmare il vuoto improvviso di conversazione. «La povera gente non ne può più del fascismo e della guerra».
«Già, adesso il fascismo non gli piace più, ma solo perché piovono bombe sulla testa. Altrimenti stavano ancora tutti a piazza Venezia» disse Vittorio.
«Il popolo è stato ingannato da una banda di ladri!» esplose Pietro.
«Può darsi, ma non sono sicuro dell’innocenza di chi è stato ingannato. Dovevi vedere nei Balcani il tuo popolo come rubava, ammazzava e stuprava. E ti assicuro che non c’era bisogno di nessuno che lo ingannasse per spingerlo a fare quello che faceva. E le vittime al posto suo si sarebbero comportate ugualmente da carnefici. Non credo che esistano buoni e cattivi, oppressi innocenti e oppressori malvagi».
«Ma come puoi mettere tutti sullo stesso piano! Hitler e la Germania nazista vogliono ridurre il mondo intero in schiavitù, in Unione Sovietica il popolo è padrone delle fabbriche e dei campi, tutti hanno un lavoro, un tetto e un piatto di minestra…»
«Tutti i ragazzi possono studiare» aggiunse Gloria, «e le donne hanno gli stessi diritti e doveri degli uomini.