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Dialogo con il Führer: Giorni d'estate a Berchtesgaden
Dialogo con il Führer: Giorni d'estate a Berchtesgaden
Dialogo con il Führer: Giorni d'estate a Berchtesgaden
E-book727 pagine10 ore

Dialogo con il Führer: Giorni d'estate a Berchtesgaden

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Info su questo ebook

Conversazione tra uno psichiatra italiano e il Führer, al Berghof, la residenza estiva di Berchtesgaden, in Baviera, del Cancelliere della Grande Germania. Una riflessione lucida sul dittatore tedesco di origine austriaca, sul nazismo e sui grandi temi del Novecento fondata su documenti originali e su testi classici e moderni dei più grandi studiosi del “fenomeno” Hitler.
Un’analisi spregiudicata della personalità più titanica e gigantesca della storia mondiale.
Il più grande figlio di Germania, il più grande demagogo di tutti i tempi, l’uomo che si innalzava sugli altri come un genio, questo pensarono e dissero di lui i suoi contemporanei. L’uomo più amato e più odiato in vita e in morte, considerato il salvatore d’Europa o la reincarnazione del Demonio, del lupo Fenrir. L’uomo senza emozioni e senza sentimenti, la non-persona che divora il tempo e lo spazio, oppure l’uomo che si immola alla causa sublime della salvezza d’Europa.
L’uomo estremo e rovinoso, l’uomo radicale e apocalittico, l’uomo folle eppure razionale nella sua sconfinata volontà di distruzione, come mai si era visto nella storia universale. Nessun uomo mai ebbe come lui, fino all’ultimo istante della sua vita, un dominio così totale su tutti i suoi sottoposti, su tutto il suo popolo. Non ci fu mai una vera resistenza contro Adolf Hitler.
Per distruggere quest’uomo si è reso necessario quello che i nazisti chiamarono un “osceno concubinato” tra Paesi lontani una galassia tra di loro per visioni del mondo e abitudini di vita.
Con un tono profondamente nichilista che dominava l’intero mondo della sua immaginazione, e che emergeva da un retaggio culturale e morale primitivo, congiuntamente con i sogni messianici di salvezza, con un’azione politica barbarica, quest’uomo provocò uno shock devastante al mondo.
Un confronto originale sui grandi temi del passato e dell’epoca moderna, sul capitalismo e sul comunismo, sulla fine delle grandi ideologie, sulle religioni, sul razzismo, sulle grandi emigrazioni, sui genocidi e sugli stermini di massa, sulla guerra.
Il “fenomeno” Hitler visto da una prospettiva letteraria, attraverso la sua drammatizzazione, con dialoghi, monologhi, soliloqui, cori, riflessioni storiche e filosofiche.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2019
ISBN9788899301613
Dialogo con il Führer: Giorni d'estate a Berchtesgaden

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    Anteprima del libro

    Dialogo con il Führer - Francesco Bellanti

    450-451)

    PROLOGO

    Torna all’indice

    - Chi sei?

    - Mi chiamo Carlo Bendani, e sono uno psichiatra. Uno psichiatra italiano appassionato di storia. Ho fatto anche studi classici.

    - Ah… Ho capito. Sei uno dei soliti strizzacervelli che passano di qui e chiedono perfino all’aria perché ero pazzo.

    - ?

    - No, non temere. Sì, sono io, Adolf Hitler. Vengono qui, tutti, psicologi, psichiatri, psicoanalisti… Fanno due domande a qualche centenario rimbambito, leggono una vecchia stampa del comune, e se ne tornano a casa con la solita verità: Hitler era pazzo. Il nazionalsocialismo è stato un incidente della storia, la storia può riprendere il suo cammino verso il progresso.

    - No, non è propriamente questa una mia idea, anzi… Ho letto tutto ciò che c’era da leggere sul nazionalsocialismo, ho preso in esame opere storiche, letterarie, film, documenti, testimonianze di contemporanei, rapporti segreti e così via. Poi, in ultimo, ho voluto conoscere i luoghi dove Hitler ha vissuto. E da mesi sto visitando tutti i luoghi dove ha vissuto Hitler…

    - Ma il tuo obiettivo è un’opera sulla mente psicopatica di Hitler, vero? La deriva della storia…

    - No, Hitler è, deve essere dentro la storia.

    - Vi conosco tutti, voi psicologi e compagnia varia. Se volete la verità, perché non fate un’analisi psicologica, psichiatrica se non psicoanalitica, perché ormai defunti, di tutti i miei avversari, Roosevelt, Churchill, Stalin, e anche di qualche tuo connazionale, come il Duce? Amico mio, non solo Hitler, tutta la storia universale dovrebbe essere analizzata dalla psichiatria. Forse che pensi pure tu che Adolf Hitler sia il Demonio uscito dall’inferno?

    - Assolutamente no!

    - Oh, sicuro, lo spero. Certo che l’Hitler-Demonio è più affascinante. Ah, quanta letteratura! Dante, Milton, Goethe…

    -Beh, un cattolico potrebbe pure pensare che il Diavolo esiste e si insinua nei percorsi insicuri della storia. Però, parlando da psichiatra, si deve riconoscere che è un difetto dire che tutto ciò che si discosta dalla cosiddetta normalità è follia.

    - Già. Comunque, se stai facendo tutti questi viaggi, se vuoi conoscere direttamente luoghi, persone… sì, forse sei un po’ più serio degli altri. Sì, ti darò una mano.

    - No, non andare via. Io sono veramente Adolf Hitler. E quella donna lì, la vedi? Sì, quella seduta su una poltrona del salotto che guarda verso di noi. È Eva Hitler nata Braun, mia moglie.

    - Mah, veramente, credo che sia tutta una finzione, una cosa teatrale per trattenere i turisti. Per fare pubblicità a questi posti. Perché uno da Berchtesgaden arriva qui con le ossa rotte, con tutte queste curve. Poi, per chi, come me, soffre di vertigini… Però, finché dura sto al gioco. Ma non credo che durerà molto.

    - Durerà, durerà. Non è un gioco. Non guardare più nella vallata, non vedi più uomini, sono formiche che velocemente si dileguano. Vieni. Entriamo nel Berghof.

    - Ti chiamerò Karl. Non mi piacciono i nomi stranieri, nemmeno quelli italiani, con tutto il rispetto. E tu mi chiamerai semplicemente Adolf.

    - Come vuoi… Adolf.

    - Brava, Eva. Così si fa: gli ospiti si accolgono con un largo sorriso.

    - Bene. Allora, stai scrivendo un libro su di me e sul nazionalsocialismo, e sei venuto qui, in Germania e in Austria, per ispirarti, per dare, diciamo così, l’ultima mano. Devi essere già stato a Braunau, a Linz, a Berlino, a Monaco, immagino. Stavi tornando in Italia e sei voluto passare di qui.

    - Mah! Sarò un ingenuo, ma prima di concludere questo libro… beh, sì, volevo respirare l’aria dei luoghi dove è nato… dove sei nato, dove hai vissuto tu, Adolf.

    - No, non sei un ingenuo. Ma l’aria da sola non ti sarebbe servita se non avessi incontrato me. Era destino che tu dovessi incontrare me Karl. Ti aiuterò io a trovare la verità. Non ti andrebbe di fare una bella chiacchierata?

    - Certamente. Sarebbe un onore per me conversare con il Führer della Grande Germania.

    - So quello che stai pensando, ma ti posso assicurare che io sono veramente il Führer, Adolf Hitler. Ti ospiterò qui per qualche giorno, ma stabilirò io le regole di questo nostro incontro. Sai, le abitudini di più di ottant’anni di permanenza qui…

    - Va bene… Adolf. Scusa, ma all’inizio fa un po’ impressione dare del tu a Adolf Hitler. Così almeno vedrò fino a che punto dura il gioco. E poi, verità o no, mi farà senz’altro bene questo posto meraviglioso in mezzo alle Alpi. È un posto incantevole, tra Austria, Germania, nel bel mezzo delle Alpi. Vicino Salisburgo, Linz. Il paese dove sei nato tu, Braunau. Aria pulita, prati, boschi, laghetti, un panorama incantevole.

    - E inoltre probabilmente scoprirai qualche piccola verità in più su di me e sul nazionalsocialismo, sulla Germania e sul mondo di allora. E su quello di oggi. Bene, ora ti dirò quali sono le poche regole che dovrai rispettare in questa chiacchierata.

    - Uhm… Forse mi prendi in giro, ma va bene così, per cominciare. Allora, le regole.

    - Tu scegli gli argomenti ma decido io quando terminare. Sai, l’età, la stanchezza, la noia. Gli incontri avverranno dappertutto, qui sulla terrazza, o in salotto; ma anche qui intorno, nei boschi, o giù a Berchtesgaden, sul lago: l’aria pura di questo posto ci farà bene. Decideremo insieme l’ora e il tempo, anche se io preferisco dal pomeriggio fino a notte inoltrata… Fino a quando non ci stancheremo. Ceneremo insieme, io, tu ed Eva. Colazione e pranzo individuali. Prepara Eva, è brava, ama la cucina italiana. Insomma, pomeriggio Germania, sera Italia. D’altra parte, è noto, la cucina italiana mi è sempre piaciuta. Una concessione tedesca solo alle cinque del pomeriggio: caffè e torta, alla tedesca. Nessuna domanda privata è permessa. E poi: non penserai mica di farmi distendere su un lettino e di misurarmi il cranio con dei ferri?

    - No! Questo mai!

    - Comprendo le tue perplessità, ma nessuno vedrà me ed Eva: noi siamo puri spiriti, anche se tu ci vedrai come se fossimo in carne ed ossa. Devi solo fare attenzione, quando si avvicinano persone, a non parlarmi: la gente vedrebbe te parlare da solo e penserebbero che sei un pazzo.

    - Già. In effetti, solo questo manca, Hitler sano e lo psichiatra pazzo…

    - Eva non parlerà, se sarà presente, nelle nostre conversazioni. Lei è mia moglie, non la mia testimone.

    - Dove mi sistemerò… Adolf?

    - Ti darò due camere, danno sul soggiorno. Una camera da letto e una cucina, dove farai colazione e pranzerai da solo. In cucina c’è tutto ciò che ti occorre. E poi, sei libero di muoverti come vuoi; quando non sono previste conversazioni, puoi andare a fare una passeggiata fra i boschi, perderti fra la folla dei turisti a Berchtesgaden, andare a mangiare al ristorante. Dopo le cinque del pomeriggio, i turisti vanno via tutti e noi restiamo soli, possiamo parlare ancora più tranquillamente.

    - Ma tanto i turisti non ti vedono, Adolf.

    - No. Ed è questo il bello: vedere e non essere visti. Per anni e anni io ed Eva abbiamo sentito i discorsi della gente, e abbiamo potuto capire anche così come è cambiato il mondo.

    - E come è cambiato il mondo, Adolf?

    - Male, Karl. In questi giorni te lo dirò. Non ci disturberà nessuno, almeno quassù. Il Berghof sarà chiuso in alcuni giorni. I tecnici devono migliorare il sistema di allarme antiterrorismo. Non mi lasciano in pace, dopo più di settant’anni.

    - Eh sì, Adolf: il mondo è veramente cambiato male. Come avete trascorso tutto questo tempo, Adolf?

    - Io ed Eva un po’ ci siamo annoiati. Io personalmente non sto bene lontano dal clamore della storia, non ci vuole un genio a immaginarlo. Diciamo che guardo il mondo dall’alto. Ho letto molto, un po’ di tutto. Ho imparato le lingue, le più importanti.

    - Infatti, sto notando che parli quasi perfettamente l’italiano. Si nota solo un leggero accento austriaco. Naturale.

    - Lo leggo anche bene, l’italiano. Hai scritto parecchio su di me, vero Karl?

    - Sì. Più di 200 pagine, Adolf. 260, credo.

    - Accipicchia! Sicuramente le hai in quella borsa. Dammi questi fogli: darò un’occhiata questa notte.

    - Va bene, Adolf. Eccoti le pagine. Ma sono ancora degli appunti. Sono quarantacinque capitoli, come l’anno della tua fine. Solo un caso, però. Più qualche appendice. Sono ansioso di sapere quel che ne pensi.

    - Certamente, certamente. Te lo dirò conversando con te. A proposito, Karl: come chiameremo questa chiacchierata?

    - Non saprei, Adolf. Chiacch

    ierata con Hitler suona male, sembra cosa da cortile. Intervista con la storia? Banale. Più che un’intervista, immagino una libera conversazione.

    - Sì, conversazione. Mi piace questo termine. Conversazione, dialogo. Dialogo con il Führer. Ti va?

    - Certamente, Adolf. Rende bene in italiano.

    - E anche in tedesco. Gespräch mit dem Führer, Dialog mit dem Führer. Forte. Troppo forte. Sì, Dialogo con il Führer. E, visto che siamo in estate, Giorni d’estate a Berchtesgaden.

    PARTE PRIMA

    IL MIO SOGNO

    percepisco sentore di carname, di preda

    innumerevole, e gusto il sapore di morte

    che viene da tutte le cose viventi...

    Così dicendo fiutò con voluttà quell’odore

    mortale del mutamento sulla terra.

    John Milton, Paradise Lost, I, 267 ss.

    CAPITOLO I

    Torna all’indice

    Oh, mamma!

    (Adolf Hitler, di buon mattino, da solo, sulla terrazza del Berghof parla e piange mentre guarda oltre il Watzmann)

    In verità l’anima mia è calma e tranquilla.

    Come un bimbo divezzato sul seno di sua madre,

    così è tranquilla in me l’anima mia.

    Salmi,131:2

    Oh, mamma! Quanto amore mi hai dato, mammina cara!

    Klara Pölzl, il tuo nome si leva alto sui secoli, tu, madre del più grande dei tedeschi! È il 20 aprile del 1889, sei ancora giovane, mammina, hai appena ventotto anni, ma hai già seppellito tre figli. Oh, no, questo no! Questo ha la scorza dura, spingi, spingi forte, stringi le lenzuola, il dolore altissimo sembra lenirsi, sì. Allarga le cosce, sei sul letto sola, tuo marito Alois è all’osteria, come sempre, a ubriacarsi. Sei pallida, hai il ventre gonfio, soffri, oh che dolore, mamma! Ancora un piccolo sforzo, mammina, sta per nascere il più grande dei tedeschi.

    Ecco, sta per vedere la luce. Allarga le cosce, aiuta la levatrice, sì, hai il volto sudato, molto sudato, urli di dolore, ma ce l’hai fatta, spingi, l’ultimo respiro, l’acqua calda è pronta. Io sento la tua forza, si rompono le acque, finalmente vedo la luce, piango, riposo su un panno bianco, io, Adolf Hitler, il più grande dei tedeschi. Il mondo mi aspetta, io sono il niente, io sono il vuoto, ed io mi riempirò di mondo.

    Tu, giovane e bella, tu coi tuoi profondi occhi azzurri, tu mi benedici, illumini il mio corpicino indifeso, innocente, lordato di acque e di sangue, delle tue urla animali. Tu subito ti sei aggrappata a me e io mi sono aggrappato a te: cercavamo entrambi un sogno, lo abbiamo trovato. Tu già lo sai: la mia mente si nutre di sogni immensi, di spazi immani e di edifici straordinari, la mia mente si nutre già della possente storia.

    Con mia madre Klara accanto, io fui un bambino felice. Lei era l’unica donna che mi accarezzava quando quel violento di mio padre mi riempiva di bastonate. Io mi imposi una rigida disciplina interiore per sopportare le bastonate di mio padre. Mio padre mi picchiava e io non piangevo, così mio padre si arrabbiava ancora di più. Mia madre non riusciva a spiegarsi come facessi. Io ho solamente temuto mio padre, non l’ho mai amato. Io ho amato solo mia madre.

    Alla scuola elementare di Fischlham, presso Lambach, prendevo buoni voti ed ero felice. Seguivo anche lezioni di canto in un convento vicino e divenni voce bianca. Feci anche il chierichetto. In una camera piccola e bassa, povera, cominciai a forgiare progetti e a sognare il futuro, mentre mia madre ai fornelli preparava piatti deliziosi.

    Mio padre, invece, era un tiranno iracondo, violento, dispotico, alcolizzato, attaccato al vino e alla birra. Fumava pipe di porcellana e si ubriacava nelle osterie, e in una osteria un giorno morì per un’emorragia polmonare. A dieci, dodici anni, dovevo sempre andare, la sera tardi, in una bettola fumosa e puzzolente, mi accostavo al tavolo dov’era seduto mio padre che mi guardava con gli occhi stralunati e lo scuotevo. Dopo un quarto d’ora o mezz’ora, con grande vergogna, lo portavo a casa.

    Questo mi ha dato mio padre, solo vergogna.

    L’unica cosa buona che ha fatto mio padre Alois è stata quella di cambiare, nel 1876, tredici anni prima che nascessi, il proprio cognome da Schicklgruber in Hitler: non si passa alla storia con un cognome come quello. Mio padre Alois non aveva amici e ci sottoponeva a continui spostamenti, soprattutto per potersi occupare meglio dei suoi alveari. Erano la sua passione. Quante volte mia madre gli ha estratto dalla vecchia pelle i pungiglioni delle api! Poi, squassava mia madre con le cosce aperte una o due volte con le sue rudi, tozze anche, scaraventava dentro di lei il suo seme, e andava all’osteria. Solamente questo faceva mio padre. Facevo questo anche perché era un uomo infelice, insoddisfatto, senza radici e perciò senza patria. Comprava continuamente poderi e cercava di fare l’impresario agricolo, ma falliva sempre miseramente.

    Quando lui era lontano per lavoro, noi tutti eravamo felici.

    Mio padre era uno spilorcio, un nullafacente, un violento, un ubriacone, un bifolco. Io dovevo studiare e diventare, come lui, un impiegato statale. Non poteva tollerare che io rifiutassi quello che aveva dato senso a tutta la sua vita. Non aveva mai incontrato i miei sogni: lui aveva dato solo il seme in un ordinario atto sessuale al crepuscolo di un giorno qualunque, solo mia madre decise che quel seme diventasse un sogno.

    Con questo padre autoritario, forgiato nel suo carattere dispotico alla dura lotta per affermarsi, non avevo stimoli sufficienti per studiare. Il risultato fu un impegno senza diligenza nello studio che portò al mio fallimento scolastico nelle scuole superiori della Realschule di Linz.

    Mio padre era un uomo torbido e oscuro, solo una donna dalle forze sovrumane come mia madre poteva sopportarlo, e questo segnò la mia vita, a tal punto che in seguito io associai sempre il nome di mia madre a quello della Germania.

    Oh, mamma, mammina cara, ferita nella tua più profonda umanità, nel desiderio di maternità! Scandivi il tempo mettendo al mondo e seppellendo figli, ma consegnasti vivo al mondo il più grande dei figli di Germania, Adolf Hitler!

    Spesso mi chiedevo, soprattutto nel periodo della mia prima infanzia, perché mia madre aveva sposato un uomo senza qualità e più vecchio di lei come mio padre Alois. Mio padre era un uomo che amava avere relazioni di qua e di là con donne più giovani, tranne che con una certa Anna, che aveva sposato per interesse e che aveva quattordici anni più di lui: lui trentasei e lei cinquanta.

    Un bel giorno, mia madre venne a casa di mio padre per accudire la moglie di mio padre malata. Mia madre aveva ventitré anni meno di mio padre Alois ed era sua cugina di secondo grado, anche se, per via dell’età, lo chiamava zio. In quel tempo mio padre ebbe una relazione con una Fanni, più giovane di lui di ventiquattro anni, e questo determinò la separazione da sua moglie Anna. Fanni, temendo la sua concorrenza, volle che la mia adorata futura madre, Klara Pölzl, tornasse nel suo paese di Spital. Ma dopo due figli, Fanni si ammalò gravemente e mio padre richiamò a Braunau mia madre Klara.

    Con lei cominciò ad avere una relazione mentre Fanni era ancora viva ma destinata a morire. Quando Fanni morì, nel 1884, a ventitré anni, mia madre Klara era incinta. Poiché erano cugini, fu necessaria una dispensa ufficiale della Chiesa per potersi sposare.

    Mia madre sposò mio padre perché lui con il suo lavoro le assicurava sicurezza materiale, e anche un po’ di quella stima sociale che un impiegato doganale poteva garantire allora in un piccolo paese dell’Austria. Io nacqui dall’amore di mia madre, che accettò offese e umiliazioni, una vita ritirata di cattolica credente e praticante, e di donna dedita a badare alla casa e ad accudire i figli.

    Nacqui in tempo di Pasqua, il 20 aprile 1889, era il Sabato Santo. Risorse Gesù Cristo il giorno dopo e il lunedì successivo io fui battezzato col nome che cambiò la storia del mondo: Adolf!

    Braunau am Inn allora era un piccolo paese di confine, che ora era tedesco ora austriaco. La mia nascita fu un destino, il destino di dovere unire l’Austria e la Germania. A Passau, terra tedesca, dove per un certo tempo fu trasferito mio padre, imparai il dialetto della Bassa Baviera, le cui cadenze conservai più di quelle viennesi o alto- austriache.

    Mia madre era cattolica di stretta osservanza, non usava preservativi e tecniche contraccettive e perciò diede al mondo altri due figli, ma di essi sopravvisse solo l’unica mia sorella, Paula, di sette anni più giovane. Sì, forse anche per questo mi coccolava e mi viziava: temeva che potesse morire – come gli altri – anche il più grande figlio di Germania. Anche se non trascurava gli altri, soprattutto i figliastri, Alois e Angela, che vivevano sotto lo stesso tetto.

    Oh, mammina mia cara! Come mi piaceva quando mi stringevi al petto! Fu un tempo felice. La mia infanzia fu felice, mi piacevano i giochi di guerra, i boschi e i prati, l’aria libera. Il mio mondo era ancora un posto sicuro, in ordine. Mi dava molta libertà mia madre, io ero un bambino capriccioso e ribelle. Morto mio fratello Edmund, ero rimasto solo io. E lei era troppo impegnata a casa, dopo la morte di mio padre.

    Mia madre era indulgente perché aveva compreso che il mio destino era oltre la scuola, dove ero sonnolento e pigro. D’altra parte, mi stancava anche la spola che facevo a piedi tra Leonding e Linz, ma non era vero, come mi descrisse il maestro di allora, che io ero scontroso, dispotico, prepotente e iracondo. Non ero affatto diligente, né avevo il piacere del lavoro, questo sì, ma ero abile nelle materie scientifiche e nel disegno; e soprattutto meditavo su un destino che ancora era nebuloso.

    Mia madre, tuttavia, volle farmi studiare perché era convinta che l’istruzione serve sempre a qualcosa. Mi iscrisse a Steyr, ma i risultati furono ancora disastrosi. Quante sofferenze ti ho procurato, mammina! Dopo che da Leonding ci trasferimmo in un appartamento di Linz, finsi una malattia polmonare per non dover più frequentare la Realschule e così mia madre fu convinta da un medico che ella non doveva più prendere in considerazione l’ipotesi che potessi fare l’impiegato in un ufficio.

    Questo era il mio costante terrore, diventare impiegato o funzionario doganale come mio padre. Io, che poi avrei fatto sfracelli di dogane e confini!

    Dopo una vacanza salutare presso alcuni parenti nella campagna di Spital, nel Waldviertel, nel 1905 tornammo a Linz. Io avevo aspirazioni artistiche, volevo fare il pittore, e questo mia madre lo sapeva da tempo. Erano, sì, aspirazioni vaghe, ma sicure. Il mondo del lavoro pratico non faceva per me.

    Oh, mammina cara, come eri indulgente, come eri comprensiva con me!

    Tutti ti dicevano di cacciarmi di casa, di buttarmi sulla strada per cercarmi un lavoro, ed invece tu mi mandavi per settimane e settimane a Vienna per farmi visitare musei e seguire rappresentazioni teatrali. Tu mi compravi strumenti musicali, e mi facevi impartire lezioni di piano, nel tempo in cui volevo fare il musicista. Solo tu mi hai amato, Klara Pölzl!

    Ma la mia vera inclinazione era la pittura, era il disegno.

    In quel tempo felice della mia infanzia, andavo a letto tardi, facevo lunghe dormite, fantasticavo di fare di Linz un’opera d’arte, vivevo come in un sogno. Mia madre mi permise di iscrivermi al Circolo della cultura popolare e al Circolo degli artisti di Linz. Io andavo nei concerti, a teatro. In quel tempo mi innamorai di Wagner e incontrai l’unico amico di quegli anni, August Gustl Kubizek, figlio di un materassaio di Linz, che voleva fare il musicista. Mia mamma trovò tanto conforto nell’amicizia di questo mio amico, un ragazzo come me capace di ascoltare una donna di quarantacinque anni con tanti pensieri. Fu l’unico amico di sempre. Quando poi mi diedi alla politica, questo tempo fu decisivo nel farmi maturare l’idea che anche la politica dovesse essere intesa e fatta come un’opera d’arte.

    Mia madre mi sosteneva in tutto, ma desiderava anche ubbidienza, sperava che mi togliessi da una vita oziosa e pigra e mi cercassi un lavoro sicuro.

    Poi, un triste giorno di gennaio del 1907, mia mamma scoprì di avere un tumore al seno. Fu operata a Linz, ma era una malattia senza speranza. Nel maggio di quell’anno ci trasferimmo a Urfahr, nell’altra sponda del Danubio, perché mamma incontrava molta difficoltà a salire e scendere le scale nel nostro appartamento al terzo piano di Linz. Nonostante fosse seriamente malata, mamma teneva in ordine la casa, e badava ai figli. Finalmente, convinsi mia madre a lasciarmi andare a Vienna per intraprendere lo studio dell’arte all’Accademia di Belle Arti. Superai la prima ma non la seconda prova di ammissione: fui respinto con la motivazione che avevo scarso talento nel disegno.

    Fu il periodo più brutto della mia vita, mia madre stava morendo e io mi sentivo un fallito. Non davo notizie di me alla mia famiglia, e questo aggravò la salute di mia madre. Poi, a ottobre, tornai a casa, perché ormai mia madre era allettata, le rimaneva poco da vivere, ed era anche più amareggiata perché stavo sperperando la mia quota di eredità senza frutto a Vienna.

    Io devo riconoscere che l’ebreo dottor Bloch fece di tutto, con trattamento a base di iodoformio, per lenire i dolori di mia madre e per curare il tumore secondo le conoscenze dell’epoca. Allora si era convinti che lo iodoformio potesse fermare le metastasi e, con garze, corrodere i focolai della malattia. Fu un calvario vedere mamma che si lamentava, tormentata – nonostante la morfina - da atroci dolori, prima con piagnucolii e con sospiri repressi, poi con grida sempre più forti.

    Fu tutto inutile, e il 21 dicembre del 1907, Klara Pölzl in Hitler, ad appena quarantasette anni, si spense.

    Comprai la bara più cara e organizzai un funerale degno, e la mattina del 23 dicembre la seppellii, secondo le sue ultime volontà, nel cimitero di Leonding, accanto a mio padre. Ad appena diciotto anni, io ero già orfano di padre e di madre.

    Dal giorno della sepoltura della mamma, per lungo tempo non ho più pianto. Solo due volte ho pianto nella mia vita: alla notizia della sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale e per la morte di mia madre. Non avevo mai provato un dolore così atroce, perché non avevo amato una persona così intensamente come mia madre. Il sindaco di Leonding voleva adottare me e mia sorella Paula, voleva anche offrirmi un lavoro di apprendista, ma io dovevo andare verso il mio destino, Vienna.

    E ci andai a Vienna.

    Qui trascorsi cinque anni difficili ma belli, sofferti, tormentati ma intensi. Soprattutto nei primi anni. Vivevo col mio amico Kubizek, potevo disporre del sussidio per gli orfani e della mia parte di eredità. Mia zia Hanni mi prestava molti soldi, vendevo anche disegni e acquerelli nelle locande. Così potevo permettermi molte serate all’Opera e l’affitto di uno spazioso appartamento di tre vani. Dormivo fino a giorno inoltrato, e la sera il buon Kubizek ascoltava paziente i miei monologhi, frutto di letture intense benché talvolta disordinate.

    All’esame per entrare all’Accademia mi bocciarono per la seconda volta. A causa degli studi incompleti, non potevo nemmeno iscrivermi in Architettura. Fu per me una tragedia. Me la svignai di nascosto e tagliai i ponti con tutti, parenti e amici, anche con Kubizek. Finiti l’eredità e l’assegno degli orfani, vissi solo coi proventi della vendita dei miei disegni. Il risultato fu che dovetti accontentarmi di alberghi per poveri o di asili per i senzatetto. Ero un cane randagio senza casa e senza patria, solo e disperato, finché arrivò inaspettata l’occasione della mia vita, la Prima guerra mondiale. Ma, era un presentimento, nel 1913 ero già a Monaco.

    Ma, prima di Monaco, forse dovrei parlarti meglio della mia vita a Vienna. Un altro giorno, però: ora sono stanco.

    Sì, è meglio, Adolf. Ti sei commosso, parlando di tua madre. Succede sempre così, con tutte le madri. Forse è l’unica donna che hai veramente amato, sei morto con una sua foto nel petto. Ho la sensazione che rimarrà l’unica persona positiva di questa nostra conversazione. Sicuramente hai avuto troppo pudore, Adolf, per recitare qualche bella poesia dedicata alla madre, a tua madre. La dedico io una poesia alla madre, a tua madre, a tutte le madri, la più bella che sia stata mai scritta sulla madre. È di Rainer Maria Rilke. Dal Libro delle immagini.

    Annunciazione

    (Le parole dell’Angelo)

    Tu non sei più vicina a Dio

    di noi; siamo lontani

    tutti. Ma tu hai stupende

    benedette le mani.

    Nascono chiare a te dal manto,

    luminoso contorno:

    Io sono la rugiada, il giorno,

    ma tu, tu sei la pianta.

    Sono stanco ora, la strada è lunga,

    perdonami, ho scordato

    quello che il Grande alto sul sole

    e sul trono gemmato

    manda a te, meditante

    (mi ha vinto la vertigine).

    Vedi: io sono l’origine,

    ma tu, tu sei la pianta.

    Ho steso ora le ali, sono

    nella casa modesta

    immenso; quasi manca lo spazio

    alla mia grande veste.

    Pur non mai fosti tanto sola,

    vedi: appena mi senti;

    nel bosco io sono un mite vento,

    ma tu, tu sei la pianta.

    Gli angeli tutti sono presi

    da un nuovo turbamento:

    certo non fu mai così intenso

    e vago il desiderio.

    Forse qualcosa ora s’annunzia

    che in sogno tu comprendi.

    Salute a te, l’anima vede:

    ora sei pronta e attendi.

    Tu sei la grande, eccelsa porta,

    verranno ad aprirti presto.

    Tu che il mio canto intendi sola:

    in te si perde la mia parola

    come nella foresta.

    Sono venuto a compiere

    la visione santa.

    Dio mi guarda, mi abbacina...

    Ma tu, tu sei la pianta.

    CAPITOLO II

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    Il silenzio è amore

    (Adolf Hitler, di buon mattino, da solo, sulla terrazza del Berghof con voce femminile parla e piange mentre guarda oltre il Watzmann)

    Il bambino chiama la mamma e domanda:

    Da dove sono venuto? Dove mi hai raccolto?.

    La mamma ascolta, piange e sorride

    mentre stringe al petto il suo bambino:

    Eri un desiderio dentro al cuore.

    RABINDRANATH TAGORE

    Oh, Adolf, quanto amore mi hai dato! L’ho meritato? Non so. Forse sì, perché io ti ho dato tutto. Ho resistito, ti ho fatto nascere nella Settimana Santa, il sabato di Pasqua del 20 aprile 1889, a Braunau am Inn, questo paesino austro- tedesco, un destino. Potevi nascere una settimana prima o una settimana dopo, ho resistito…

    Che bel cognome che hai avuto, Hitler! Tuo padre Alois fece in tempo a cambiare il cognome della madre che portava, Schicklgruber, in Hitler, da Johann Georg Hiedler, il padre naturale. Non si passa alla storia con un nome così, Schicklgruber!

    Tuo padre Alois voleva chiamarti Francesco Giuseppe. Io mi sono imposta… Oh, che buffo, Francesco Giuseppe Hitler! Karl Joseph Hitler, e forse ti saresti fatto crescere i baffoni come l’imperatore! Ti avrebbero preso in giro. Non saresti mai diventato cancelliere di Germania. No, meglio così. La perfezione: Adolf Hitler. Nome e cognome brevi, due sillabe, quattro sillabe potenti a sigillare un grande destino. Come Iulius Caesar, Carlo Magno.

    La prima foto, Adolf. Come sei bello! Avevi undici mesi, Adolf, era il 9 marzo 1890, il fotografo si chiamava Helmut Helle. Ho fatto di tutto perché venissi bene, sapevo che dovevi diventare grande, e questa foto sarebbe apparsa su tutti i giornali.

    Solo questo potevo fare, amore mio: io, umile, ignorante contadina, farmi inseminare da uno come tuo padre per dare alla luce il figlio più grande di Germania.

    Eri un bambino viziato, io e zia Hanni ti proteggevamo. Mi toccavi il pancino, Adolf, avevi cinque anni, stava per nascere tuo fratello Edmund: eri geloso, non lo volevi, e hai avuto il primo disordine intestinale. Tu mi osservavi, Adolf, ti accorgevi che il mio ventre era di nuovo grosso, e il tuo invece era sempre in subbuglio. Ti chiedevi perché io avessi il ventre sempre grosso.

    Era tuo padre, Adolf, noi eravamo cattolici, dovevamo mettere al mondo figli. Oh, mio adorato! Io amavo tutti i miei figli, ma solo per te tremavo, sapevo che saresti andato per il mondo a compiere una grande missione.

    No, non avere timore, amore mio, il tempo è solo tuo.

    Adolf respiro mio, tu non farai il funzionario doganale come tuo padre, o un alto funzionario, non temere, tu sei destinato a qualcosa di grande.

    Oh, la brillante carriera di alto funzionario, l’amministrazione imperiale di Karl Josef! Il tempo è solo tuo, solo questo ti dicevo.

    Meglio prete e cantare a tutte le messe, dicevi a tuo padre.

    Vieni, Adolf, vieni fra le braccia di mamma che ti riscaldo. Fa freddo, il fiume è gelato, è morto il toro da monta di papà, non può più fecondare le vacche dei contadini. Meglio così, almeno non lo prendono più in giro a papi, facendogli credere che la monta non è andata bene – si presentano con vacche diverse, poverino, ormai è screditato.

    Anche gli alberi da frutto sono gelati, i venticinque alveari non produrranno miele. Mamma, mammina cara, ma se siamo tedeschi perché non siamo nel Reich? Se continua così parleremo ceco, ungherese, sloveno, italiano, ruteno, croato, romeno, serbo, slovacco, chissà che lingua parleremo!

    Oh, quante parole, quante domande!

    Papi è triste, Adolf, gli mancano le api, non invecchia in pace, questa terra è bella ma povera. Ti hanno punto le vespe, vero Adolf? Uno sciame, e ti sei buttato nel fiume. Oh, bambino caro, figlio mio, e tuo papà non ti crede, non ci sono sciami di vespe a luglio, ti dice. E ti dà botte.

    Vieni fra le mie braccia, amore. Oh, papà ti picchia, tu hai rubato le scarpe al tuo compagno, non è vero, lo so. Oh, come ti bruciano le natiche, figliolo, oh, le corregge di cuoio fanno male!

    Che fai Adolf, vendi i disegni delle parti intime di tua sorella Angela e ti compri i libri? Eh, birichino… Quante cose vuoi fare - vuoi fare il fattore, l’abate, il pellerossa, il pittore… No, papi ti vuole funzionario, ispettore capo delle dogane, ma tu non farai nemmeno questo…

    Oh, Adolf, sto morendo, figlio mio. Perdonami, non volevo, come farai senza di me? Ho appena 47 anni, non potevo immaginarlo, questo cancro al seno, sarcoma pectoris, che brutta parola.

    Oh, Adolf mio, povero orfano, ora rimani solo. Come sei caro! Hai scelto il miglior chirurgo, il migliore ospedale, il miglior trattamento medico…

    Quanto ti ho amato, Adolf, e anche tu mi hai amato tanto! A me lo hai detto, non hai fatto come con Stefanie, che amavi tanto ma non glielo dicevi per paura di essere rifiutato.

    Tua mamma non ti rifiuta, vero Adolf?

    Amerai mai un’altra donna, Adolf? Che bambino timido che sei, Adolf… Non ti dichiari a Stefanie, tu dici che è il vero amore, che è una magia, che è un fenomeno naturale, che lei si aspetta una sola cosa, che tu la preghi di diventare tua moglie.

    Non sai ballare: è questo che ti frena?

    Amerai mai una donna, Adolf? No, no, tu ami solo la Germania, tu hai un grande destino, tu sposerai solo la Germania.

    Hai visto che mi stancavo a salire tre piani e mi hai portata in un appartamento al primo piano, a Urfahr.

    Perché non torni da Vienna, Adolf? Ah, tu non torni dalla tua mamma perché ti vergogni di dirmi che non sei stato ammesso all’Accademia. Lo so che non hai superato l’esame: che ne sarà di te?

    Hanno ucciso i tuoi sogni, Adolf. Non fai più nulla, non disegni, non canti Wagner, non leggi più. Solo il silenzio, ma il silenzio che ti lega a tua madre è amore.

    Poi sei tornato e mi sei rimasto accanto fino alla fine.

    Hai approvato la teoria del dottor Eduard Bloch, ma è stato tutto inutile. Una terapia costosa, lo iodoformio. Quanto dolore! Iodoformio e morfina. Ma sempre tanto dolore.

    C’è stato qualche miglioramento, ma poi il male ha vinto.

    Oh, Adolf. Guarda la mia pelle, è gialla, la mia bocca ha il gusto del piombo, ho sete, ho freddo… Riscaldami, Adolf, sì, tu mi riscaldi. Ecco, sposti il mio letto nella cucina, tu dormi sul divano sotto la finestra, ma serve a poco. Solo il tuo amore mi riscalda.

    Sto male, Adolf. Tu ti inginocchi al mio capezzale e io sono freddissima. Rimettiti a letto, Adi, è tutto inutile. No, non chiamare zia Hanni, Paula, stai con me.

    Tu hai fatto di tutto per salvarmi, Adolf.

    Ecco, mi sto addormentando, non ti vedo più, no, non piangere, adoro il silenzio. È notte, che ore sono… ah, le 2.15. Una buona ora per morire.

    Che bel funerale, Adolf! Mi hai fatto mettere l’abito più bello, quello della domenica, bianco e blu, mi hai fatto truccare il viso e le mani, ero così pallida, amore. Per due giorni mi hanno visitata tuti gli amici e i parenti, mi hai fatto seppellire con papi come era mio desiderio, hai acquistato la bara più preziosa foderata in mollettone. E tu che facevi disegni, schizzi, per immortalarmi e il Leichenwagen coi cavalli, e la processione, il bel corteo, zia Hanni, Paula, Leo Raubal, August Kubizek e sua madre, i Mayrhofer di Leonding, Magdalena Hanisch, Angela, altri, e tu davanti a tutti con cilindro, cappotto e abito nero, sembravi un nobile, sei un nobile, Adolf. Infine, la bella messa funebre nella Pfarrkirche, poi tutti nelle vetture, si fermano lungo il muro del Friedhof e tu che rimani in silenzio da solo davanti a me e tutto alle nove e mezza del 23 dicembre 1907 ha pace. C’è silenzio, c’è amore.

    Il silenzio tra madre e figlio è amore.

    CAPITOLO III

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    Eva Braun

    (Terrazza del Berghof. Passeggiando e sedendo sotto un ombrellone, mangiando torta di mele con panna e sorseggiando caffè tedesco, e infine guardando ogni tanto giù nella vallata verso Berchtesgaden, il Watzmann e il lago Königssee)

    Il loro amore, il loro odio e la loro invidia,

    tutto è ormai finito, non avranno più alcuna parte

    in tutto ciò che accade sotto il sole.

    Ecclesiaste, 9:6

    Presenza

    Tutto è annuncio di te!

    Appare il sole radioso,

    e tu dietro a lui, spero.

    Esci fuori in giardino

    e sei rosa fra le rose,

    e sei giglio fra i gigli.

    Quando nel ballo ti muovi

    si muovono le stelle,

    insieme e intorno a te.

    Notte! E così sarebbe notte!

    Tu superi lo splendore soave

    e seducente della luna.

    Seducente e soave sei tu, e fiori,

    luna e stelle a te s’inchinano, o sole!

    Sole, sii anche per me artefice

    di giorni radiosi!

    Questa è vita, è eternità.

    - Che c’è, Adolf? Bella questa poesia! Di chi è?

    - Goethe. Wolfgang Goethe.

    - Ah, non la conoscevo. Eppure, io amo Goethe. Le affinità elettive, il Viaggio in Italia. Faust. Nel Viaggio in Italia ho visto motivazioni psicologiche profonde. Insomma, Goethe che cerca l’immortalità anche…

    - Uhm… Ogni giorno dedico una poesia a Eva. È l’unico modo per ringraziarla per tutto l’amore che mi ha dato.

    - Bello. E visto che stai leggendo Goethe, forse una lettura approfondita del Faust – il bene e il male, il dramma dell’anima moderna – potrebbe aiutarti, Adolf, a comprendere il senso della tua esistenza. Ma parliamo di Eva, e del Berghof, dove lei con te ha trascorso il periodo più bello della sua vita. Questo Berghof, sull’Obersalzberg, una zona alpina bavarese al di sopra di Berchtesgaden, nel 1800 faceva parte del comune indipendente di Salzberg, chiamato così per le miniere di sale. Era un piccolo villaggio di montagna con cascine e baite sparse nei dintorni, una località turistica poco frequentata. Insomma, niente faceva immaginare che sarebbe diventato così famoso, grazie a te, Adolf. Un posto di potere e una gabbia dorata per un’amante speciale.

    - Una donna intraprendente, Mauritia Mayer detta Moritz, aprì una pensione a Berchtesgaden, e questa terra diventò una splendida località turistica, frequentata da scrittori e da musicisti come Brahms e Schumann. Mi fece conoscere questo posto Dietrich Eckart, e io me ne innamorai subito.

    - Eckart! Il drogato, alcolizzato, razzista Eckart! Certo, gli sei riconoscente, ti ha introdotto negli anni Venti nell’alta società bavarese e ti ha fatto conoscere questo splendido posto che, a parte il nazismo, devo riconoscerlo, anche se io sono uomo di mare e non di montagna, è davvero bello. Ma forse tu lo hai scelto perché vicino all’Austria, nel caso le autorità bavaresi ti ricercassero per attività politica sovversiva. O no? Forse hai subito amato questo posto perché vicino all’Austria e alla Germania, le tue due patrie.

    Addentò una grossa fetta di torta al cioccolato e si versò nella bianca tazza di porcellana quattro dita di caffè bollente. Mangiò voracemente la fetta di torta, sorseggiò il caffè. Poi chiuse gli occhi e tacque per qualche minuto. Si destò, come da un lungo sonno. Si aggiustò il doppiopetto grigio, infine continuò.

    - Vedi, Karl, io ho sempre avuto una sola patria, la Germania. Io sono nato in un paese che era un anno austriaco e un anno bavarese, io ho sempre considerato l’Austria un territorio tedesco del sud. Detto questo, il posto mi è caro perché, dopo i nove mesi di carcere per il putsch di Monaco, nella solitudine della Kampfhäusl a Berchtesgaden completai il Mein Kampf.

    - E con questo bel libro cominciò anche il tuo benessere, Adolf, se potevi permettervi di avere una villa nell’Obersalzberg, un grande appartamento di tredici stanze in affitto a Monaco, una Mercedes, un segretario, Hess, una governante e un autista personale. Un best- seller, che arriverà a sei milioni di copie nel 1940. Certo, vendere e leggere non è la stessa cosa. Ma di questo, magari, parleremo dopo. Adesso mi piacerebbe parlare di una donna che ha vissuto tanto tempo fra queste montagne, la donna più importante per te dopo tua madre, visto che l’hai sposata: Eva Braun.

    - Oh, Eva! Sì, la donna più importante dopo mia madre, ma veramente l’unica mia sposa in tutta la mia vita è stata la Germania. Però, con Eva fu un tempo felice.

    - Ho i miei dubbi che sia stato un tempo veramente felice, Adolf. Non era una condizione da invidiare quella di Eva Braun. Aspirante suicida, sospettosa dopo il suicidio di tua nipote Geli Raubal, gelosa, perché viveva in uno stato di inferiorità. Non poteva partecipare a tutto ciò che di ufficiale si teneva nella Cancelleria e neanche qui, pranzi, cene, ricevimenti di gala, prime teatrali, inaugurazioni. Le donne del partito e dello Stato erano altre: Magda Goebbels, la moglie di Göring, Emmy, e la regista del regime, Leni Riefensthal, belle e famose in tutto il mondo. O la fascista inglese Unity Valkyrie Mitford…

    - Figliolo, tutte queste donne insieme non hanno ricevuto l’affetto che ho dato a Eva. Ma la ragione di Stato impone certi comportamenti. Eva non era mia moglie ufficiale…

    - Vorrei capire perché quasi tutte le donne che si avvicinavano a te tentavano poi di suicidarsi, o si uccidevano, come tua nipote Geli, Inge Ley, o l’attrice cinematografica Renate Mueller. Forse pretendevano troppo, volevano sposarti, sposare il potere. Non è cambiato nulla, Adolf: anche oggi le donne amano il potere. Tu non eri certo bellissimo, ma avevi un grande potere. O forse dovevi avere qualche fluido malefico, Adolf. Tu, il lupo Fenrir che viene ad annunciare la fine del mondo.

    - Lascia perdere i lupi e i fluidi, mein Freund. Troppo folklore sulla mia vita. La mia sposa era la Germania, e questo lo sapevano anche le donne. Come è noto anche a te, solo una donna io avrei sposato, dopo il 1930 naturalmente, quando rimase vedova: Winifred Wagner. Ma lei rappresentava suo suocero, lei era la Germania.

    - Forse il matrimonio non si fece perché, secondo il testamento del marito Siegfried, se lei si fosse sposata sarebbe stata diseredata e privata della direzione del Festival di Bayreuth… Ma torniamo a Eva. Forse lo scoppio della guerra fu la fortuna di Eva. La vita scorreva più calma e tranquilla. Quella che Eva aveva sognato: passeggiate nei boschi, tè nel pomeriggio, il film dopo cena, scambi di doni, tutti davanti al camino a sentire i monologhi dell’amato Adolf. Una bella, pacifica, vita piccolo borghese.

    - Però poi dovetti allontanarmi. Dovevo andare spesso a Berlino e nei quartier generali, e lei rimase di nuovo sola.

    Bruscamente, tacque. Mi osservò, strinse gli occhi, come per guardare più attentamente. Improvvisamente, mi sentii indifeso. Abbottonai la giacca. Lui si toccò la cravatta scura Regimental.

    - Eva era una donna semplice, non infantile e superficiale, come l’hanno descritta, – dissi - si accontentava di poco. Eppure, si annoiava, anche se si dedicava allo sci, al nuoto, alla fotografia, ai filmini privati. Ordinava scarpe a Firenze e borsette a Parigi, accessori costosi da toilette, addestrava cani per vantarsene con te. Le mogli dei gerarchi nazisti la disprezzavano. La sua era una vita vuota e senza senso. Una vita senza amore. Che cosa ti costava darle un po’ di amore, Führer? A lei, l’unica donna che forse ti ha veramente amato, che ha voluto morire con te?

    - Herr Doktor, te l’ho detto. Io potevo amare, io ho amato, solo la Germania e mia madre. L’unica, vera donna della mia vita. Sono morto con la sua foto nel petto. Però ho voluto anche esprimere la mia estrema gratitudine ad Eva, e l’ho sposata.

    – Sposa di un giorno.

    - Sposa di un giorno, ma sposa del più grande tedesco mai passato sulla terra. Sposa di un giorno ma compagna di una vita. L’ho sposata anche perché lei voleva condividere un grande destino. E giustamente voleva passare alla storia. No, il mio non era amore, io ho amato solo una donna, mia madre. Poi ho amato solo la Germania. Eva, oh, bellezza tedesca, bionda occhi azzurri!

    - Non l’hai amata perché non potevi, Adolf. Eri, e così sei passato alla storia, un uomo senza sentimenti. Un uomo paranoico ossessionato dall’igiene, e che, appunto per questo, non era capace di avere un rapporto sessuale normale. Un uomo che poteva raggiungere l’orgasmo anche solamente guardando Eva mentre si alzava la gonna. Un uomo che poteva di rado avere rapporti solo mettendo dei tovaglioli puliti nelle mutande per proteggersi. Un uomo privo di sentimenti.

    - Vacci piano, strizzacervelli. Sciocchezze, non mi interessa nemmeno sapere dove le hai lette. Era nei patti, mi pare, non scendere nel privato. Altrimenti ci salutiamo. Non farti vincere da queste bagatelle pruriginose e senza senso. Comunque, intendo rassicurare la storia: Adolf Hitler era una persona normale in questo campo. E, come ti dimostrerò, non era affatto privo di sentimenti. Solamente, io non ero uno schiavo del sesso come lo era, per esempio, Mussolini. Lo facevo solo per pure esigenze biologiche, visto che non potevo farlo per amore. Avevo nella testa argomenti più prosaici ma più importanti, prima di tutto la grandezza della Germania. Avevo la mente piena di altre cose. Eravamo poi entrambi estremamente riservati per esternare al mondo la natura dei nostri amplessi. Per questo Eva, nelle lettere o nelle confidenze con sorelle o amiche, non ne parlava mai. Era molto riservata.

    - Sì, molto riservata, direi, Adolf. Era stata tenuta nascosta fino alla fine. Tranne il vertice nazista, nessuno la conosceva. Chi era veramente Eva Braun?

    - Eva era una compagna discreta, cattolica, di sani principi. Non era incolta, come l’hanno descritta: era colta, figlia di insegnanti e di devoti religiosi. Compagna, non amante. Anzi, moglie ormai per l’eternità. Donna sognante, donna di sogni che sogna il principe azzurro, ed ha incontrato me, il più grande dei principi, il più grande dei tedeschi.

    - Eh, sì. Amava il cinema, i romanzi rosa. La conoscesti nel 1929 dal tuo fotografo ufficiale, Heinrich Hoffmann. Era commessa, apprendista fotografa.

    - Tutto avrei immaginato, tranne che un’amicizia galante si trasformasse in tanto sodalizio d’affetti sinceri. Era poco più che una bambina, aveva appena 17 anni. Mi attrassero subito le sue gambe, il suo corpo, il suo viso.

    - Mentre tu gli sei apparso subito strano, Adolf, con quei buffi baffetti, un impermeabile chiaro di stile inglese e un grande cappello di feltro. Eppure, io ho sempre creduto che tra voi ci fosse almeno un po’ d’amore. Lei, ne sono convinto, nonostante al principio fosse stata probabilmente abbacinata dal potere, ti amò. Tu, invece, non avevi tempo per amare, cercavi solo sesso, e forse nemmeno quello, con le altre amanti. Gli uomini molto intelligenti, hai detto una volta, devono prendersi una donna primitiva e stupida. Lei invece ha tentato di suicidarsi più volte perché ti amava.

    - Mein lieber Freund, te lo ripeto: io avevo sposato la Germania. Non avevo tempo per nessuna donna, e quel poco che avevo lo condividevo con lei. Non aveva motivo di essere gelosa. Lei odiava la politica e non si era mai iscritta al partito. Le ho dato tutte le risorse di cui disponevo, aveva case, agi, benessere, faceva viaggi. Lei voleva solo me, ma Adolf Hitler era solo della Germania.

    - Ti vergognavi di presentarla in pubblico. Fu sempre una compagna segreta. Per i pochi che sapevano, era la tua segretaria. Lei ti amava, a tal punto che comprava medicinali per bloccare il ciclo mestruale quando sapeva del tuo arrivo al Berghof.

    - Berghof, Monaco, Obersalzberg, Berchtesgaden, Nido dell’aquila: in ogni luogo lei era comunque la regina, nei viaggi conduceva vita da gran signora. Non mi vergognavo, ma il Cancelliere della Grande Germania non poteva presentarsi ai capi di Stato con un’amante. Sì, col tempo mi amò, ma io potevo darle solo quel tipo di amore.

    Come se avesse risvegliato un tempo mai dimenticato fatto di luce, aria, colori, suoni, accarezzò il divano fiorato rosa, prese il bastoncino, coprì il capo col cappello a falde larghe, e velocemente si alzò e riprese a camminare sulla terrazza. Si fermò davanti al parapetto. Lo vidi osservare in silenzio i boschi verdi, le montagne, la serena bellissima vallata di Berchtesgaden. Chissà a che cosa pensava. Mi piacque credere che ricordasse le passeggiate con Eva sul Königssee blu sotto le montagne grigioverdi baciate qua e là da rade nuvole bianche. Il Königssee appariva chiaro e bello come un fiordo norvegese. L’acqua blu era uno specchio dove chiari si riflettevano i costoni delle montagne. Ora, si vedevano le cupole marrone sulle pareti bianche della chiesa di San Bartolomeo. Gli alberghi, le barche, la piazzetta, la gente. Poi, tornò a sedere di nuovo sul divano, dopo avere posato il cappello e il bastoncino su una sedia. Insistetti.

    - Era una presenza marginale, la usavi come un soprammobile. Era anche imbarazzante. Quando c’erano ospiti importanti, la mandavi in camera sua a mangiare da sola come una bambina in castigo. Quando giunse al Berghof Galeazzo Ciano, e ti domandò chi fosse la giovane fotografa che stava filmando la scena del suo arrivo, tu mandasti immediatamente un domestico da lei e la obbligasti a chiudere la finestra e a non uscire dal suo appartamento.

    - Era, te lo ripeto, la ragion di Stato, Sizilianer. Nessuna donna europea poteva partecipare ad incontri di governo, anche se era la moglie del Cancelliere della Grande Germania. Immaginiamo poi la sua compagna.

    - E naturalmente, non ti passò mai per la testa di mettere al mondo un figlio.

    - Mai. Sarebbe stata un’eredità troppo pesante essere figli di Adolf Hitler. Io non volevo figli. I discendenti di un genio incontrano grandi difficoltà nella vita. E poi avrei tradito la Germania.

    - Sì, posso capire, Adolf. Per Eva, era una vita fuori dal mondo, pranzi e cene galanti, le visite del Führer e le persone importanti. Ma in fondo era la noia, che Eva al Berghof fotografava a colori e così sembrava più bella. Poi, però, il mondo ritorna in bianco e nero.

    - Eva faceva la gran signora al Berghof. La storia si sbaglia, Herr Doktor. Sedeva sempre al mio fianco, a tavola, vestiva con raffinata eleganza, intratteneva gli ospiti con disinvoltura. Era bella, distinta, aveva bellissime gambe, tutti la ammiravano. Certo, non poteva prendere parte alle riunioni di guerra, ma per il resto era lei la padrona di casa. Faceva molti viaggi, amava molto il tuo Paese, ed io volevo che andasse solo in Italia, del resto. Era pericoloso frequentare i Paesi conquistati. Per lei la guerra era solo un noioso fastidio.

    - Tutto era noia ed Eva si annoiava. Le cameriere dissero che non c’era sesso tra te ed Eva. Che per tutto il giorno i vostri letti rimanevano ordinati.

    - Ma non di notte. In effetti, devo riconoscere che i miei rapporti con lei non erano molto frequenti. Io avevo la testa piena di altre cose, te l’ho detto, col tempo ho imparato a perdere interesse per il sesso. Sì, la noia: era un problema serio per Eva, che, in fondo, lo riconosco, al Berghof si annoiava, nonostante i film americani e i festini, e il brodo di tartaruga. E lo champagne. Certo, io non ero il tipo da scambiare baci ed effusioni in pubblico, o da tenere per mano la fidanzata. Eva, in pubblico, non era moglie o compagna, e durante il tè del pomeriggio potevo solo donarle qualche sguardo affettuoso. Ma ci sono amori che si consumano soprattutto nei silenzi. E sono quelli dei grandi.

    - Questo è anche vero, Adolf. Insomma, bella vita ma noiosa al Berghof. Porcellane, cristalli, argenti. Belle donne, cameriere, musica, cinema, arte, arazzi, quadri, buon cibo – carne e pesce di qualità, oche arrosto, vini, champagne, gelati, frutta - mentre fuori si faceva la fame. La storia non esisteva.

    - Ah, la storia! Herr Doktor! Eva si annoiava di più quando andava a Monaco o in Italia. Lì, sì, era oppressa dalla solitudine. Al Berghof era la regina, perché tutti sapevano della nostra relazione. La storia! La storia giunse nel 1942, da quel momento il Berghof non fu più lo stesso. Viveri razionati per i collaboratori, tristezza, il presentimento della fine.

    - La storia, Führer… Al Berghof, almeno fino al 1942, l’ebbrezza e l’euforia per la vittoria erano un sentimento comune. Nessuno credeva che si potesse perdere la guerra. Che gli ebrei fossero perseguitati lo sapevano tutti, anche al Berghof, ma nessuno sapeva nulla dei campi di concentramento e delle camere a gas, dei forni crematori. E si acutizzano i tuoi acciacchi.

    - Sì, è vero. Comincio a frequentare con più frequenza medici e infermieri.

    - Ma la tua vera infermiera era lei, Adolf. Soffrivi di nausea, conati di vomito, tachicardia, crampi addominali, cefalea, distrofia muscolare, gastrite, riduzione visiva, meteorismo. Alla fine, poi, anche il morbo di Parkinson. Insomma, ne avevi un bel po’, di acciacchi. E anche la flatulenza… Beh, lo dico senza intenzioni offensive: in fondo, anche l’imperatore romano Claudio ci soffriva.

    - Adesso non esageriamo, Italiener. E risparmiati queste facili ironie. Tuttavia, è vero, io avevo qualche acciacco, e mi chiedevo spesso perché avessi tutti questi acciacchi. Io ero un salutista, un vegetariano, non bevevo, non fumavo… Eva era tutto. Io avevo fiducia solo in lei. Lei provvedeva a questa o a quella medicina, a questa o a quella iniezione. Se le mie condizioni di salute migliorarono, questo lo dovetti a lei, non ai miei generali che spesso mi tradivano, o agli indovini e maghi, e astrologi, che mi predicevano sempre disgrazie. Io facevo quasi tutto quello che desiderava lei. Acconsentii alla sua richiesta che le donne tedesche continuassero a truccarsi durante la guerra, o che fosse trasmessa per i soldati al fronte la canzone Lili Marleen, che pure io consideravo triste e disfattista, anche immorale, annullando due ordini di Goebbels.

    – Hai fatto bene, Führer. È una canzone pacifista, scritta da un soldato tedesco nella Prima guerra mondiale, dedicata a una prostituta, una nostalgica invocazione alla pace cantata da tutti i popoli e da tutti gli eserciti del mondo.

    - Ah, dimenticavo. Il fumo. Se fossi rimasto al potere, avrei fatto scrivere in tutti i pacchetti di sigarette la scritta: Attenzione! Il fumo uccide! Beh, almeno in questo sono stato ascoltato.

    - Torniamo ad Eva. L’importanza di Eva al Berghof crebbe con il precipitare degli eventi, il crollo ad Est, la defezione dell’Italia.

    - Sì. Anche Goebbels lo notò. Cominciò a comprendere l’importanza di Eva. Scrisse nei suoi diari che era una donna straordinariamente colta, lucida e matura nel giudicare le questioni artistiche. Era diventata una moglie normale di un marito che voleva apparire normale ma non ci riusciva. Era una donna matura, i presagi di declino e di morte li avvertiva anche lei, sapeva che la guerra sarebbe stata perduta. Fece anche testamento nel ’43. Ma era sempre pronta a morire con l’uomo che il destino le aveva assegnato.

    - Eva nel marzo del 1945 ti raggiunge nel bunker per esserti accanto fino alla fine, e, a trentatré anni, come signora Hitler, un’esistenza breve e insignificante, col sacrificio supremo della morte, riscatta sé stessa ed entra prepotentemente nella storia. Dopo sedici anni di umiliazioni, Eva raggiunge il suo scopo. Parlami di questo matrimonio.

    Adolf Hitler sospirò. Versò ancora un po’ di caffè sulla sua tazza e bevve. Posò la tazza, appoggiò il capo sul divano, chiuse gli occhi. Poi, con voce mossa da un filo di emozione, parlò.

    - Il matrimonio fu celebrato la notte del 29 aprile, questo è noto. Eva era raggiante, eccitata, meravigliosa. Indossava un elegante abito nero, con gonna ampia, collo alto. Un abito molto sexy. Aveva un braccialetto d’oro, un orologio con brillanti, un ciondolo di topazi, una spilla di brillanti nei capelli. Aveva appena trentatré anni, ma sembrava una gran signora di classe.

    - Diciamo che si era sposata per entrare nella storia da gran signora.

    - Sì, non si entra nella storia come amante di Adolf Hitler, ma come moglie di Adolf Hitler.

    - L’ultimo giorno di Adolf Hitler. Da sposato.

    - Certo non fu come tutti gli altri. Ma sono deliranti tutte le dicerie su orge e droga consumate nelle ultime ore. Che io continuassi a prendere pillole di cocaina per lenire i crampi allo stomaco e le tanto famigerate, umane, flatulenze, è vero. Di solito prendevo anfetamine, ma quel giorno se le era portate il mio medico personale. Che curassi la mia persona, compresi i baffi, è altrettanto vero, non capisco perché uno debba morire sporco e disordinato. Anche Eva voleva morire bene. Col veleno, per non passare alla storia col volto sfigurato da una pallottola. Truccata e con un abito nero con rose bianche al collo, quello che piaceva a me. Volle che le sue foto non

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