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Il cerchietto di velluto
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E-book145 pagine1 ora

Il cerchietto di velluto

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Info su questo ebook

Le famiglie sono come scatole nere chiuse dentro la memoria. Sono il vaso di Pandora che mai avremmo voluto scoperchiare, enigmi impossibili da decifrare. Solo le persone molto coraggiose e molto innamorate della vita sono in grado di lasciare che uno spiraglio di luce le attraversi. «Quando è nato, Riccardo era cieco. Quando è nato Riccardo, i ricordi dolorosi della mia infanzia sono riemersi. La sua cecità mi ha aiutato a vedere la mia vita come non l’avevo mai vista prima, una vita storta che correva parallela a una vita giusta». Viviana ripercorre le tappe dolorose della sua infanzia, il rapporto travagliato con la famiglia, i traumi rimossi, i fallimenti amorosi e la perdita del più grande amore della sua vita. Lo fa senza pietismo, senza cercare conforto ma per restituire a se stessa, alle sue figlie e a tutte le vittime di violenza la verità di un passato scomodo che non può essere dimenticato.
LinguaItaliano
Data di uscita21 giu 2023
ISBN9791222420059
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    Il cerchietto di velluto - Viviana Chillemi

    Chillemi_Il-cerchietto-di-velluto_Copertina-ebook.jpg

    Viviana Chillemi

    Il cerchietto di velluto

    IL CERCHIETTO DI VELLUTO

    Viviana Chillemi

    Prima edizione giugno 2023

    ©Viviana Chillemi 2023

    EDITING E PROGETTO EDITORIALE A CURA DI

    Ghostwriter®

    P.za 4 Novembre, 5

    00062 Bracciano, Roma

    ghostwriter.it

    info@ghostwriter.it

    FOTO DI COPERTINA

    ©Marco Ragaini

    IMMAGINI INTERNE

    Riccardo (pagina seguente), a cura dell’Autrice.

    Askha (16-17, 144-145); Olga Rai (26-27, 124-125); Simple line (38-39, 112-113, 134-135); Molly (48-49); Viktoryia (62); Sahs94 (74-75); Valenty (86-87); Chekman (98-99); Наталья Дьячкова (158-159).

    ~

    A Riccardo, che mi ha insegnato il valore della vita.

    Alle donne che hanno subito violenza,

    a quelle che subiscono ancora.

    Alla verità.

    Prefazione

    Il lavoro che svolgo mi dà la possibilità di conoscere le storie delle persone e di offrire loro un’opportunità di riscriverle a partire dal loro presente. Quanto più il passato contiene dolore e sofferenza tanto più è necessario amore, dedizione, pazienza per curare le ferite ancora aperte, invisibili agli occhi della maggior parte della gente e spesso sconosciute anche a chi ne soffre gli effetti devastanti.

    Vite che mostrano sofferenze dentro relazioni disfunzionali ricorrenti, nascondono spesso segreti taciuti dentro le mura domestiche, le stesse che avrebbero dovuto offrire protezione dagli orrori della vita.

    Vorrei che la storia di Viviana fosse finta, ma troppo vere sono le sofferenze che ancora oggi prova per poterne avere il minimo dubbio: troppo vivo il sangue che zampilla, troppe ancora le ferite non guarite nonostante le cure che già date.

    La memoria, per contenere tutto ciò che viene vissuto, a volte deve formare delle pieghe dentro cui nascondere ciò che risulta inaccettabile alla coscienza. Così è accaduto che, per molto tempo, Viviana abbia conservato ricordi indecifrabili a se stessa e inesprimibili al mondo, nel tentativo di proteggere un equilibrio necessario a poter condurre un’esistenza apparentemente normale. Questo estremo tentativo di proteggere se stessa dalla realtà vissuta non ha ottenuto l’effetto di evitare la sofferenza, ma solo di diluirla dentro comportamenti difficili da comprendere e vicissitudini di ordinaria infelicità.

    Da quando Viviana ha recuperato i suoi ricordi nascosti, rimossi dalla coscienza perché troppo dolorosi, non ha più smesso di volere una vita felice e serena. La strada per imparare a stare bene è spesso lastricata dalla difficoltà a lasciare le vecchie abitudini mentali e a considerarsi meritevoli di ciò che si desidera e di cui si ha bisogno, che molto spesso è solo amore, amore incondizionato.

    L’amore è l’ingrediente necessario alla vita, in grado di far superare le difficoltà, di guarire le ferite, di fortificare e rendere invincibili. Viviana ha imparato l’amore quando è diventata madre, grazie ai suoi figli che hanno tirato fuori la sua innata capacità di amare e le sue incapacità acquisite nell’esprimerlo. La maternità ha consentito che si creasse la condizione ottimale per ricordare tutto ciò che era stato rimosso: andando alla ricerca di un modello genitoriale da imitare sono comparse tutte le crepe, le brutture, le falle che quello a cui era stata esposta Viviana conteneva in sé. Tanto è stato (e continua a essere) il coraggio che Viviana ha mostrato (e mostra) di avere nell’affrontare le sue paure, che da bambina erano i suoi mostri e i suoi fantasmi, sotto la cui maschera si celava il volto dei suoi aguzzini.

    In Viviana c’è condensata la storia di un’eroina, come tante, sopravvissuta all’orrore, alla confusione generata da un amore malato, alla sovrapposizione di scene vissute nell’ombra di un mondo cieco e sordo ai suoi segnali di richiesta di aiuto.

    Oggi Viviana ha il coraggio di presentarsi al mondo con tutti i suoi ricordi, con tutte le sue difficoltà, con tutti i suoi sbagli, con tutte le sue sofferenze, con tutte le sue fragilità, consapevole di aver fatto ciò che era nelle sue possibilità per sopravvivere, e consapevole di esserci riuscita.

    Adesso è pronta per passare dalla sopravvivenza alla vita, il passaggio ha bisogno di tempo. La guarigione parte da dentro mentre le cure agiscono da fuori. Una piantina per crescere ha bisogno di cure ma è lei che, spinta dalla forza della Vita, decide di nascere.

    Buona Vita Viviana!

    Giusy Ciatto

    Psicologa e psicoterapeuta, specializzata in psicoterapia sistemico-relazionale, consulente per il benessere bio-psico-sociale. Esercita la professione presso lo Studio Professionale Integrato Sistemico Relazionale. Si avvale dell’uso sincronico di linguaggio verbale e non verbale, e dell’Arte e dello psicodramma come strumento terapeutico. È socia fondatrice dell’Associazione Onlus Al tuo fianco Centro Antiviolenza.

    Introduzione

    La realtà non mi impressiona.

    Io credo solo nell’ebrezza, nell’estasi,

    e quando la vita ordinaria mi incatena, scappo,

    in un modo o nell’altro.

    Nessun muro mi può bloccare.

    - Ana

    ï

    s Nin -

    Da piccola trascorrevo i pomeriggi dopo scuola a casa di mia cugina. Le chiedevo sempre di giocare con le bambole. Arrivavo da lei trascinando una carrozzina piena di bambolotti paffutelli e principessine con lunghi capelli biondi e vestitini colorati. Avevo molte bambole che tenevo con cura. Ma non volevo mai far finta di essere la loro mamma. Preferivo giocare a fare la zia.

    «Ma perché non vuoi fare mai la mamma?» chiedeva mia cugina.

    Dal suo punto di vista non era logico che fosse una zia a cambiare pannolini e dare la pappa alle sue bambine.

    «Facciamo un altro gioco, allora!» provava a suggerire.

    «No!» rispondevo con forza.

    La spuntavo sempre.

    A un certo punto della mia infanzia però smisi di portare con me i miei giocattoli. Le bambole preferivo tenerle dentro alle loro scatole. Anche i giochi mi piaceva lasciarli all’interno delle loro confezioni. Da mia cugina ci andavo lo stesso. Ma giocavo solo con le sue cose. A lei andava bene così. Mi assecondava sempre non solo perché era la più piccola tra noi due, ma anche perché ci teneva a me e alla mia compagnia.

    Quando rimasi incinta per la prima volta volevo che fosse un maschio. Non avevo dubbi sul diventare madre. Ero super felice. La gravidanza non mi spaventava anche se avevo appena diciott’anni e dovevo ancora fare la maturità. Le mie paure erano altre. Non volevo affrontare mio padre. L’idea di confessargli che il bambino che portavo in grembo era di un ragazzo che detestava mi terrorizzava. Aveva fatto di tutto per allontanarlo da me. Era gelosissimo. Nonostante fossero molti anni che oramai stavamo insieme, papà non si era abituato all’idea che non fossi più solo la sua bambina. Non si abituò mai.

    Mio padre era un uomo autoritario, ma il mio ragazzo sapeva tenergli testa. Fu sua l’idea di fuggire via insieme. Era convinto che non mi avrebbero mai permesso di avere il bambino.

    «Se rimaniamo qui, a me mi ammazzano e a te ti fanno abortire» aveva detto per convincermi ad andarmene via insieme a lui, il più lontano possibile da casa.

    Immaginai l’ira di mio padre e di tutta la mia famiglia. Ero già scappata una volta e non era andata bene. Mi convinsi a farlo lo stesso.

    La mattina della fuga preparai lo zaino per andare a scuola ma senza infilarci libri e quaderni. Presi alla rinfusa tutto ciò che in quel momento mi era sembrato utile; mutande pulite, calzini, un maglione pesante, soldi. Il mio ragazzo mi aspettava con la macchina poco distante da scuola. Scesi dal pullman e, invece di voltare per l’istituto, proseguii dritto evitando di guardarmi attorno, i capelli ben nascosti all’interno del cappuccio della felpa. Ero completamente vestita di nero e mi muovevo per la strada fingendo di essere un’ombra. Strinsi i pugni dentro alle tasche.

    Trattenni il fiato. Immaginai di essere invisibile.

    Entrai in macchina con i muscoli tesi. Il mio ragazzo ingranò la marcia e partì senza dire una parola.

    Il primo tratto di strada fu il più difficile da percorrere. Più erano i chilometri che macinavamo, lasciandoci alle spalle le montagne del mio paese, più la tensione per la fuga aumentava, portandosi dietro anche una pesante sensazione di stordimento. Mi sentivo sempre strana ad allontanarmi da casa.

    «Che hai?» chiese il mio ragazzo quando oramai avevamo raggiunto la litoranea e da lì, verso nord, stavamo percorrendo la strada per Messina.

    Scossi la testa senza dire una parola, continuando a guardare fuori dal finestrino, tentando a poco a poco di tornare a respirare perché fino a quel momento non mi era sembrato di farlo. La tensione per la fuga, l’ansia di un addio che temevo fosse sotto gli occhi di qualcuno nascosto e pronto a saltarci addosso all’improvviso mi abbandonarono solo quando arrivammo in città e ci fermammo a mangiare un panino sulla spiaggia. Allora mi sentii più libera. Come se fossi riuscita ad allentare un laccio stretto di una scarpa e potessi finalmente muovere le dita.

    Terminai il mio panino e affondai

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