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Un lungo ritorno
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E-book320 pagine4 ore

Un lungo ritorno

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Info su questo ebook

In una Roma cinica, in cui si muovono personaggi che nulla o quasi hanno da perdere, il commissario Elisa Guidi dovrà ritrovare Erica, stando attenta a che la nuova indagine non le presenti un conto troppo salato.
di Laura Bassutti e Loriana Lucciarini
Sullo sfondo di una Roma cinica, che volta le spalle a chi è sconfitto, si muovono personaggi che nulla o quasi hanno da perdere, il cui presente è fatto d’ombra e sofferenza, rimpianti e delusioni e dove sopravvivere a ogni costo diventa l’unica scelta possibile. Per Milena la paura è una gabbia che diventa una condanna; per Angela il presente ha l’urgenza di riscrivere parole non dette. Per Erica la fuga è l’unica salvezza. Yuri, invece, illumina il buio di speranza; Thanusha cerca riscatto nelle promesse di un futuro a colori. Paola ha la forza di chi non molla e Julian occhi di lupo.
Il commissario Elisa Guidi dovrà muoversi tra le paludi degli invisibili per ritrovare Erica, stando attenta a che la nuova indagine non le presenti un conto troppo salato.
LinguaItaliano
Data di uscita12 feb 2020
ISBN9788833284125
Un lungo ritorno

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    Anteprima del libro

    Un lungo ritorno - Loriana Lucciarini

    dall’abisso.

    Giorno 1

    Erica (sera)

    Cammino rapida in questa fredda sera di dicembre. Dal mare arriva un’aria umida che mi penetra fin nelle ossa. Per strada ci sono poche persone. Cerveteri è già deserta: la gente è in casa davanti alla TV.

    È tardi, ma non ho fretta di rientrare.

    Ho bisogno di aria e di silenzio.

    Ripenso a mia madre su quel letto d’ospedale, ancora una volta massacrata da quello schifoso. Ho tentato di convincerla a denunciarlo, ma non ci sono riuscita. Anche i tentativi di zia Angela non hanno avuto esito.

    «È inutile, diventerebbe ancora più cattivo», ha detto la mamma, irremovibile.

    Tuttavia, fra le lacrime, mi ha promesso che appena verrà dimessa tutto cambierà. Questa volta mi è sembrato che parlasse sul serio e la zia ci ha proposto di andare a vivere con lei.

    «Potremo dividere le spese», ha commentato con un sorriso, e da come le brillavano gli occhi ho capito che diceva sul serio.

    È una brava donna, zia Angela. È diversa dalla mamma, forse perché è più giovane, più smaliziata e più forte, o forse appare tale perché non ha dovuto subire tutto quello che ha sopportato mia madre: chiunque diventerebbe succube, dopo una vita passata così.

    In questi giorni d’ospedale, dopo che mamma è stata ricoverata per una brutta caduta dalle scale, la zia non si è mai allontanata dal suo letto; hanno parlato tanto e dice che l’ha convinta a mollare quel bastardo di mio padre una volta per tutte. Inizio a credere anch’io in questa piccola speranza di cambiamento; forse proprio per questo stasera mi è più difficile tornare fra quelle quattro mura che odio e che mi opprimono ogni giorno di più.

    Quando mia madre verrà dimessa, ci hanno detto che dovrà continuare le terapie a casa e il recupero sarà lento: stavolta l’ha proprio conciata per le feste. Io, però, devo convivere con la sua assenza e, peggio ancora, con la presenza di quel maledetto dentro casa.

    Basta solo lasciar passare il tempo, mi dico.

    Vivere come in animazione sospesa per il prossimo mese è la mia unica alternativa, perché io non ho il potere di cambiare le cose. Ed è proprio questo il problema: questa sensazione di impotenza mi fa star male, mi corrode dentro, mi rende cattiva e intrattabile. Non sono una bella persona, lo so che tutti mi odiano. Anche a scuola, i compagni mi evitano, oppure mi prendono in giro pensando che non me ne accorga.

    I professori, invece, mi considerano una nullità, forse perché lo sono davvero; d’altronde non ho mai pensato di valere qualcosa. E comunque, nessuno sa niente del nostro inferno domestico, perché ho giurato a mia madre di non parlarne, con nessuno.

    In parte ho mantenuto la promessa. Solo Sonia sa quello che succede in questa merda di famiglia, solo in lei ho trovato un’amica fidata con cui parlare e questo allevia un po’ le mie pene; tuttavia non è facile e adesso mi sembra che neanche lei mi basti più.

    Ogni giorno che passa provo sempre più schifo nei confronti della vita, ma ho promesso alla mamma di resistere per lei. Non posso farla preoccupare e non posso abbandonarla, però quanto costano, ‘ste cazzo di promesse!

    Arrivo davanti al mio palazzo, salgo lentamente i tre gradini che portano all’androne, poi svolto a destra e ne salgo altri cinque. Sono di fronte alla porta di casa. Mi tremano le mani dall’incazzatura e dal rancore. A fatica riesco a inserire la chiave nella toppa. Apro la porta e vengo investita da una agghiacciante sensazione di ineluttabilità. Sospiro e mi faccio coraggio. Pochi giorni e tutto passerà, mi rincuoro.

    Il silenzio è un muro che mi opprime. Dall’odore di alcool che aleggia nell’aria, so che lo stronzo è in casa e ha bevuto anche questa sera, il maledetto. Ovviamente non si è degnato di passare a trovare mia madre all’ospedale, impegnato com’era a tracannare grappa di pessima qualità in quella bettola che frequenta. Concludere questa giornata avendo a che fare con il suo umore nero sarà ancora più difficile. Cerco di non fare rumore, ma lui mi intercetta davanti alla porta della cucina.

    «Dove sei stata finora?» urla.

    Il suo sguardo è vitreo.

    «Ero in ospedale, dalla mamma», rispondo in tono piatto, attenta a non scatenare la sua rabbia.

    «Non c’è niente per cena!» mi rimprovera, indispettito.

    «Adesso preparo qualcosa», lo rassicuro, entrando in cucina.

    «Io ho fame ora!» ringhia, furente.

    «Cinque minuti ed è pronto», ribadisco, afferrando in fretta il grembiule e una padella.

    «Brutta bastarda, mi prendi per il culo?» inveisce lui, venendomi vicino e sovrastandomi con la sua altezza.

    «Ho detto che è pronto tra cinque minut…»

    Non riesco a terminare la frase: un suo violento ceffone mi fa perdere l’equilibrio. Sbatto con violenza la testa contro il muro e perdo lucidità. Lui è sopra di me e continua a schiaffeggiarmi. Non riesco a difendermi né a reagire; d’altronde è una lotta impari: lui un colosso, io uno scricciolo di quaranta chili.

    Improvvisamente si slaccia la cinta e si abbassa i pantaloni. In quel momento capisco che esiste un punto di non ritorno, superato il quale, inevitabilmente, le cose cambiano.

    «Sei una puttana come tua madre! Vediamo se scopi meglio di lei! Vieni qui…» dice, afferrandomi con brutalità e cercando di strapparmi di dosso i leggins.

    Cerco di divincolarmi e scalcio. Gli assesto un colpo che lo fa indietreggiare. Afferro la padella dal pavimento e lo colpisco con tutta la forza che ho. Mentre cade, stordito, il suo sguardo è incredulo. Lo colpisco di nuovo: una, due, cento volte. Mi fermo solo quando mi accorgo che non reagisce più.

    È a terra, con la bocca aperta piena di sangue, inerte.

    L’ho ammazzato? Non voglio sapere la risposta, non mi avvicino.

    Con il cuore che batte all’impazzata, vado nella mia camera e infilo nello zaino un po’ di cose a caso, poi entro nella stanza da letto dei miei e apro il cassetto dove mio padre tiene i contanti. Mi metto in tasca tutto ciò che trovo.

    Percorro a tutta velocità il corridoio; mentre passo davanti alla cucina sento un gorgoglio impastato e irregolare: respira! Nel terrore di ritrovarmelo di fronte, in meno di un secondo sono in strada.

    Corro, corro. Corro fino a che le gambe si fanno di legno, fino a che la testa gira e il terrore mi spezza il respiro. Scossa da tremori violenti, mi fermo tra due camion parcheggiati. Non so cosa fare, né dove andare; so solo che ho tanta paura e voglio scappare lontano da tutto questo schifo.

    Prendo il cellulare e chiamo la mia amica Sonia, ma attacco prima che il telefono inizi a squillare.

    Ragiona, Erica! mi intimo, ispirando a fondo nel tentativo di ripulire i pensieri.

    Se il bastardo è ancora vivo, mi verrà a cercare. Lo stronzo sa che potrei trovare rifugio solo da lei o da zia Angela. Rischio di mettere nei guai anche loro.

    No, devo andare in un posto lontano, dove lui non possa trovarmi. Devo mettere me stessa al sicuro senza che le persone che mi vogliono bene si ritrovino nei casini.

    D’istinto, vado in stazione e salto sul primo treno in partenza. Non ho biglietto né destinazione e, soprattutto, non ho alcuna idea di ciò che mi riserverà il futuro.

    Ho però una certezza: via da qui!

    Giorno 2

    Erica (tarda mattina)

    Scendo dal treno e mi perdo nella folla che, concitata, si accalca sulla banchina in un vociare confuso. Cammino lungo i binari della stazione. Tengo gli occhi bassi e, zigzagando tra gli altri passeggeri, cerco di evitare trolley e comitive. Attraverso il grande atrio e svolto a destra, in via Marsala. Sono di nuovo a Roma.

    Le strade intorno alla stazione pullulano di persone cariche di zaini e valigie d’ogni sorta, che s’affannano per raggiungere in tempo il proprio treno; io non ho fretta, anche perché non so cosa fare. Ci ho pensato a lungo durante questa notte in cui ho viaggiato da Roma a Bologna e ritorno.

    Vorrei tornare a casa, ma sono terrorizzata dall’idea di rivedere quello schifoso.

    Appena arrivata a Bologna, ho provato a chiamare mia madre da una delle rare cabine telefoniche, ma aveva il cellulare staccato. Allora ho pensato di contattare zia Angela. Forse lei mi avrebbe detto di tornare a Cerveteri, di andare a casa sua, ma avevo e ho una paura fottuta; non sono in grado di liberarmi dell’angoscia che ho addosso.

    Ora il mio cellulare è scarico, ma non m’importa; almeno per oggi, nessuno potrà rintracciarmi. Lo butto nello zaino ed entro in una pizzeria-kebab. Mangio qualcosa poi faccio un giro, dirigendomi verso piazza della Repubblica. Roma è bella e, nonostante il freddo, c’è il sole.

    Ho bisogno di un po’ di leggerezza e di allontanare i pensieri, che mi sento incollati addosso come pece liquida. Prendo la metropolitana e scendo alla fermata Colosseo. Seguo i turisti, per lo più russi e giapponesi, nel loro classico percorso: Colosseo, Fori Imperiali, Mercati Traianei e mi godo lo spettacolo dei siti archeologici della Roma imperiale. Per un po’ riesco a illudermi d’essere una di loro, poi gli ultimi avvenimenti riaffiorano all’improvviso in tutta la loro violenza e mi sento mancare il fiato.

    Cala la sera e la città si illumina. Per le vie si vedono sempre meno persone e quelle poche hanno fretta di tornare alle loro case. Le ore sono trascorse in un’estenuante attesa e ora mi si prospetta una notte piena d’angoscia. Ritorno verso la stazione e mi affaccio nella hall di una piccola pensione in via Marghera. Per quanto misero e malandato sia questo alberghetto, scopro che il suo costo è esorbitante per le mie tasche, ma non ho altro posto dove andare e decido di fermarmi qui.

    Il concierge, un uomo sulla cinquantina dai modi burberi, senza guardarmi in faccia mi chiede i documenti, che io fingo di non trovare. Mi limito ad allungare le banconote sul bancone e lui le afferra svelto, senza farmi altre domande. Prende una chiave e mi dice il piano.

    Salgo lungo una scala stretta, dai muri sporchi, entro nella camera e mi chiudo la porta alle spalle. Il copriletto ha colori tetri e nell’aria c’è odore di muffa. Vado in bagno e mi butto sotto il getto di acqua tiepida della doccia scrostata, poi crollo sul letto, tra le lenzuola dure che sanno di candeggina. Accolgo il silenzio, annullo i pensieri e riesco a sprofondare in un sonno cupo, senza sogni.

    Per questa notte ho placato i miei demoni.

    Giorno 3

    Elisa (tarda mattina)

    Mi stringo nel giaccone per proteggermi dall’umidità. Forse dovrei rientrare, accendere il fuoco nel caminetto del salotto, prendere un libro e godermi la tranquillità e il silenzio della mia casa. Osservo il giardino: i pini mediterranei, la siepe di alloro, le aiuole curate… per quanto tempo ho desiderato una casa come questa, accogliente e solida.

    Il pensiero di Riccardo, di quello che avrebbe potuto esserci fra noi ma non è stato, si impadronisce della mia mente a tradimento, cancellando la sensazione di benessere. Inutile tentare di allontanarlo; inutile tentare di dominare la rabbia che ancora provo, per la sua vigliaccheria e, soprattutto, per la mia stupidità, che mi ha impedito di comprendere che razza di uomo avessi accanto. Sono passati otto mesi da quando mi ha detto che da quasi un anno aveva una relazione con Giovanna, un’amica comune, e che lei aspettava un bambino, il loro bambino, che sarebbe nato a fine estate.

    Lo avevo ascoltato incredula, quasi incapace di dare un senso a quelle parole pronunciate in tono piatto, monotono, senza guardarmi negli occhi. In quella situazione non c’era molto che potessi dire o fare: non mi restava che accettare, comportarmi da persona adulta e farmi da parte.

    Non intendevo fare scenate, né dare voce all’umiliazione e alla sofferenza che si erano impadronite di me. Mi imposi così di assistere con distante freddezza alla fine della nostra storia, senza versare una lacrima né dire qualcosa di più di qualche banale frase di addio a Riccardo, prima di sparire per sempre dalla sua vita.

    All’improvviso mi ritrovai a recitare il ruolo patetico della protagonista di un vecchio e scontato feuilleton. Ascoltavo parole rincuoranti da parte amici e conoscenti; impassibile, vedevo i loro sorrisi di circostanza e intuivo in alcuni di loro un’intima soddisfazione per quella melodrammatica vicenda, sulla quale avrebbero espresso giudizi velenosi appena avessi voltate le spalle. Ostentavo una calma e una sicurezza che in realtà non provavo e dentro di me ribollivo d’ira.

    Durante lunghe e noiose serate, analizzavo minuziosamente gli anni trascorsi con Riccardo: erano stati belli, eppure mai facili. Riflettevo sul mio comportamento e mi colpevolizzavo per non essermi resa conto di nulla. D’altra parte, mi ero ritrovata di fronte a una situazione complessa dal punto di vista professionale, con possibili conseguenze negative. Di sicuro non avevo dedicato molto tempo a Riccardo, convinta che la nostra fosse una storia serena ed equilibrata, che avrebbe resistito a una piccola trascuratezza.

    Invece mi sbagliavo e lui aveva iniziato una relazione con un’altra, importante al punto da decidere di fare un figlio insieme a lei. Incapace di dirmelo subito e di farmi capire che per noi non c’era più nulla da fare, aveva atteso fino all’ultimo minuto, provocandomi una delusione intensa per quella sua viltà del tutto inaspettata.

    La voglia di fuggire, di allontanarmi da Milano, dai problemi sul lavoro, dai ricordi e dalla quotidianità si impadronì di me, fino a diventare un imperativo categorico. Chiesi quindi il trasferimento e accettai la prima sede che mi venne offerta – la piccola Cerveteri – nonostante i colleghi me lo sconsigliassero.

    La suoneria del cellulare mi fa sobbalzare.

    «Commissario, buongiorno. Sono Magni. Mi scusi tanto, so che oggi è il suo giorno libero, ma dovrebbe venire qui in commissariato.»

    «Che cosa succede?»

    «Pare che una minore sia scomparsa da casa. La zia è qui e vorrebbe parlare con lei.»

    «Vengo subito.»

    ***

    Entro nel mio ufficio e trovo ad attendermi una donna sulla trentina, bruna e minuta. Appena mi vede si alza dalla poltroncina su cui l’hanno fatta accomodare. Il viso è piuttosto grazioso, dai lineamenti regolari. Negli occhi scuri e intensi, che mi osservano attentamente, noto grande preoccupazione.

    «Buongiorno, sono il commissario Guidi.»

    «Mi chiamo Angela Ambretti. Ho chiesto di parlarle perché…» si interrompe e rimane in silenzio, cercando le parole giuste per continuare.

    Mi siedo e le faccio cenno di fare altrettanto.

    «L’agente Magni mi ha accennato al fatto che si tratterebbe di una questione riguardante una minore. Una scomparsa, presumibilmente.»

    Angela sospira, chiude un attimo gli occhi, poi a voce bassa, con un tono in cui avverto ansia e inquietudine, risponde: «Non so se sia davvero così, commissario, ma sono preoccupata per mia nipote Erica. Ha sedici anni e vive qui, a Cerveteri, con i genitori. La madre, mia sorella Milena, si trova all’ospedale per… perché ha avuto un incidente: è scivolata sulle scale di casa e si è procurata diverse lesioni.»

    La voce si incrina e i suoi occhi sfuggono i miei. È nervosa e incerta, come se non sapesse fino a che punto può essere sincera. Mi dico che è probabile che la sorella sia stata aggredita dal marito e che per paura non voglia denunciarlo. Si tratta di un copione che mi è fin troppo noto. Nonostante questo, ogni volta l’impotenza e la frustrazione mi provocano una dolorosa fitta di rabbia. Rimango in silenzio, per dare ad Angela il tempo di riprendersi e riordinare i suoi pensieri.

    «Milena dovrà restare in ospedale per un periodo piuttosto lungo: si trova in uno stato nervoso delicato e i medici sono molto preoccupati per lei. Mia nipote va a trovarla quasi ogni pomeriggio, ma dall’altro ieri non si fa viva. Ho chiamato a casa e mio cognato Renato mi ha detto che Erica ha un po’ di influenza e quindi non può uscire. Gli ho chiesto di passarmela, ma ha risposto che non se la sente di alzarsi. Ho provato al cellulare di Erica, che però risulta non raggiungibile. L’ultima volta che ci siamo viste in ospedale, le avevo chiesto di farmi uno squillo appena arrivata a casa, ma non si è fatta viva. Inoltre stava bene…»

    «Lei quindi non crede a suo cognato?»

    Scuote il capo: «Non so, quanto dice sembra strano. Ho anche tentato di fare visita a mia nipote, ma nessuno mi apre.»

    «Ci sono problemi in famiglia?» domando, anche se già immagino la risposta.

    «Lui è un uomo difficile.»

    Non aggiunge altro e io non insisto, o almeno, non ancora.

    «Erica va ancora a scuola o lavora?»

    «Frequenta l’istituto alberghiero a Ladispoli.»

    Chiamo il viceispettore Negri e gli dico di controllare se Erica Divra stia frequentando le lezioni.

    «Se non è a scuola, dovremo verificare se effettivamente sua nipote è a casa ammalata», spiego ad Angela. «Magari non è successo niente di preoccupante.»

    Lei mi guarda, poco convinta.

    «Cosa mi può dire dell’ambiente sociale di Erica, della sua famiglia?»

    «Il padre è albanese, commissario. Venne qui molti anni fa, mia sorella si innamorò di lui e si sposarono quasi subito, perché lui aveva bisogno di avere il permesso di soggiorno. Erica è la loro unica figlia.»

    «Suo cognato lavora?»

    «Fa il manovale, ma in questo periodo, con la crisi edilizia, non riesce a trovare un lavoro stabile. Giusto qualcosa qui e là. Attualmente mi pare che non abbia niente.»

    Il ritorno di Negri la interrompe.

    «Erica Divra non si presenta a scuola da due giorni, commissario. Ho appena parlato con una delle sue insegnanti.»

    Angela impallidisce e si copre il volto con le mani.

    «Le è successo qualcosa, Dio mio…»

    «Perché lo crede?» le domando in tono duro.

    «Mio cognato beve e a volte si comporta in un modo… non so come mia sorella possa sopportare… Fino a oggi non sono mai intervenuta, per paura. Una ragazzina come Erica, così sensibile e sola, in un ambiente simile… Forse non dovrei nemmeno essere qui, commissario. Mia sorella non ha mai fatto nulla e magari non vorrebbe che io dicessi…»

    Lascia la frase in sospeso, lo sguardo perso nel vuoto. Impaurita e in preda all’ansia, è incapace di affrontare i propri timori. A me, comunque, il quadro è sufficientemente chiaro.

    «Mi dia l’indirizzo di casa di sua nipote. Lei rimanga pure qui, i colleghi la aiuteranno a fare la denuncia. La terrò informata.»

    ***

    Negri e io raggiungiamo la macchina. Il vice si mette alla guida.

    «Sa dove abita Erica?» gli domando.

    «Sì. È un quartiere che hanno costruito anni fa, con un piano di edilizia popolare. Ci sono stati un sacco di scandali: tangenti, materiali scadenti. Le solite cose, insomma.»

    Certo, le solite cose. Probabilmente anche la situazione di Erica Divra e di sua madre rientra nella categoria delle solite cose proprie di un certo ambiente e che nessuno vuole affrontare. Salvo poi parlarne con finto stupore nel caso accada qualcosa di irreparabile.

    «Cosa crede sia successo alla ragazza?»

    «Non lo so, Aldo. Forse si è allontanata da casa o forse il padre non le permette di uscire.»

    «Forse perché ‘sto stronzo di uomo non vuole che lei racconti quello che combina, o magari l’ha massacrata di botte come ha fatto con la madre. Io ‘sta gente…» Negri fa un gesto rabbioso con la mano.

    Nel frattempo abbiamo raggiunto il quartiere dove vive la famiglia Divra. Osservo i condomini grigi, uno uguale all’altro, l’asfalto dissestato, i negozi dall’aspetto trascurato. In giro non c’è quasi nessuno, salvo alcuni ragazzi che chiacchierano davanti a un bar.

    «È lì», dice Negri indicandomi uno dei palazzi.

    Parcheggia e ci avviamo.

    Suono il campanello. Dopo qualche istante mi risponde una voce roca e impastata: «Chi è?»

    «Siamo della polizia, avremmo bisogno di parlare con Erica.»

    Il silenzio si protrae per qualche attimo, poi sento gracchiare nel citofono: «Erica ha la febbre, non può vedere nessuno.» Il tono non ammette repliche.

    Mentre sto pensando a quale dei vicini suonare, sicura che Divra non abbia la minima intenzione di aprirmi, dal portone escono due ragazze sudamericane, che chiacchierano ad alta voce.

    Ci infiliamo rapidi nell’ingresso del condominio e, senza attendere l’ascensore, saliamo al primo piano. La porta dell’appartamento di Erica è quella centrale sul pianerottolo; il vice si attacca al campanello e dopo qualche minuto un uomo sulla cinquantina, alto e massiccio, con la carnagione scura e i capelli grigi, compare sulla porta.

    «Cosa volete?» dice, mentre i suoi occhi, acquosi e spenti, passano nervosi da me a Negri. «Vi ho detto che Erica sta male.»

    «Dobbiamo parlare con sua figlia.»

    «Perché?»

    «Ci lascia passare o no?»

    «Non avete diritto di…»

    «Lascia perdere i diritti», sbotta Aldo, allontanando l’uomo dalla porta con uno spintone.

    Una volta nell’appartamento, do una rapida occhiata a cucina e salottino: sono vuoti, quindi mi dirigo verso la zona notte.

    Incurante degli strepiti del padrone di casa, entro nella camera da letto principale, in un bagno e infine in quella che deve essere la camera di Erica: una stanza piccola, con il letto addossato alla parete e alcuni poster e disegni appesi ai muri. Della ragazza non c’è traccia: il letto è intatto. Apro l’armadio: pochi abiti, qualche paio di scarpe.

    «Io vi denuncio, vi mando nei casini…» urla Divra.

    Mi volto; l’uomo si trova dietro di me, con Negri al suo fianco.

    «Dove si trova sua figlia?»

    Nessuna risposta.

    «Cosa è successo? Dov’è Erica?» ripeto.

    Divra serra le labbra.

    Scambio un’occhiata con Negri, che capisce al volo le mie intenzioni.

    «Per il momento vieni in commissariato con noi. Ci faremo una bella chiacchierata, vedrai», gli dice. Lo afferra per un braccio e, tenendolo saldamente, lo spinge verso la porta.

    Do un ultimo sguardo a quella casa triste e spenta, poi li seguo.

    Cos’è successo a Erica? Cosa ha fatto Divra a sua figlia?

    Ci sono molte risposte per queste domande, tutte plausibili, anche se vorrei che nessuna corrispondesse alla realtà.

    Un dolore lancinante, che conosco bene, mi attraversa l’anima. Mi tormenta, una volta ancora, in tutta la sua intensità.

    «Elisa, che succede? Non si sente bene?» la voce di Aldo, che mi sembra talmente lontana da risultare quasi irreale, mi riscuote.

    «Grazie, tutto a posto. Andiamo.»

    Lui sta per replicare qualcosa, ma cambia idea. In silenzio, raggiungiamo la nostra auto.

    ***

    Faccio accompagnare Divra nella stanza degli interrogatori.

    Negri e io restiamo in silenzio mentre lui, seduto di fronte a noi, è visibilmente nervoso; si agita sulla sedia e getta occhiate intorno a sé, come se i muri spogli gli potessero offrire una via d’uscita.

    «Allora, si può sapere che cosa volete da me? Io non ho fatto niente. Erica…» esita un istante, alla ricerca delle parole capaci di convincerci a lasciarlo andare. «Erica è uscita dopo che abbiamo avuto una discussione. Combina solo casini, torna a casa tardi, se ne sta fuori non so con chi.»

    Negri e io non diciamo niente e Divra continua: «Non è mica facile gestire una ragazza al giorno d’oggi, con sua madre che non sta bene e non è presente.»

    «Fammi capire: tu e tua figlia avreste discusso di non si sa cosa e lei se ne sarebbe andata via di casa incazzata?»

    Annuisce e aggiunge sarcastico: «Perché, lei non ha mai litigato con suo padre?»

    Praticamente ogni giorno, avrei voglia di rispondergli, ma mio padre non

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