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L'ABC del gioco
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E-book288 pagine3 ore

L'ABC del gioco

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Info su questo ebook

Rachele e Damiano non si conoscono, ma si ritrovano a dover seguire le regole di un gioco perverso, dopo essere stati rapiti e rinchiusi in una camera sotterranea, allestita come una lussuosa camera di un hotel a cinque stelle. Ma i risvolti del forzato soggiorno sono tutt’alto che stellati: tre uomini GLI ABC, così denominati dalle vittime, mettono in scena un percorso efferato e manipolativo. Cosa accade tra quelle mura? I ragazzi si salveranno o soccomberanno al gioco?


Noemi Lazzarin è nata a Novara nel 1991. Fin dal liceo classico, è attratta dalla scrittura anche se non vi si dedica seriamente fino a molti anni dopo, quando la nascita prematura di suo figlio la costringe a trovare un metodo per superare un periodo psicologicamente difficile.  Con un passato tormentato alle spalle e un presente sereno, Noemi ha trovato nella narrazione il giusto mezzo per sfogare la sua creatività.
 
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2023
ISBN9788830679115
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    Anteprima del libro

    L'ABC del gioco - Noemi Lazzarin

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il professore Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London Canino e le vite dei santi.

    Una Vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i quattro volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    La vita umana, nel suo insieme, non è che un gioco, il gioco della pazzia.

    Erasmo da Rotterdam

    Fase 1

    CONOSCENZA

    Si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco, che in un anno di conversazione.

    Platone

    RACHELE

    Giorno 1

    Fa caldo. Il sole di mezzogiorno scotta insolitamente in questa giornata di maggio, mentre aspetto che un taxi si degni di portarmi in stazione. C’è movimento oggi. Davanti all’hotel, siamo almeno una trentina di persone. C’è chi arriva e chi parte, come me.

    Vedo in lontananza un grande taxi bianco che si avvicina. Trascino la valigia e mi sbraccio sul ciglio della strada. Finalmente, il taxi si ferma. Per un attimo, vedo il mio riflesso sul finestrino scuro: occhi verdi e capelli ramati. Poi, il tassista apre la portiera e scende. È un ometto piccolo e basso, ma ben piazzato, che prende la mia valigia senza troppe cerimonie e la butta in fretta nel bagagliaio.

    «Salga!», mi ordina brusco ed io mi affretto ad ubbidire nella speranza di trovare il sollievo dell’aria condizionata all’interno dell’abitacolo.

    Mi accascio sul sedile posteriore con un sospiro, sorridendo. La gente scortese non mi turba, soprattutto quando si tratta di persone di passaggio, come questo tassista: cavoli suoi se vuole affrontare le sue giornate col broncio.

    Mi guardo intorno e mi blocco. Ci deve essere un errore. Seduto accanto a me, c’è già un altro passeggero. Sto valutando se chiedere spiegazioni quando questi, sorridendomi, tira fuori una pistola e me la punta dritto in mezzo agli occhi. Cazzo. L’ho visto fare tante volte nei film, ma lì non ero io la vittima. Sono una statua di pietra. Di colpo, il caldo che ho patito finora sparisce, sostituito da un gelo pungente che mi arriva fino alle ossa.

    «Adesso stai zitta e dammi la borsa, da brava su» mi obbliga nel tono tranquillo di chi sa che non verrà mai contraddetto.

    Consegno la borsa, sperando che i due tizi adesso mi lascino andare, ma l’autista si immette proprio in questo momento in strada, nel bel mezzo del traffico. Penso di aprire la portiera e rotolare fuori, pregando di non essere investita, ma il rapitore con la pistola parla di nuovo: «Ora dammi i polsi, da brava su!».

    Cerco di valutare varie possibilità nell’arco di qualche frazione di secondo, ma capisco subito che non posso fare niente, assolutamente niente, se non collaborare e sperare in un veloce lieto fine. Allungo i polsi, tremando visibilmente. Guardo bene il mio rapitore, che mi sta mettendo le manette con una mano sola, mentre con l’altra continua a tenermi sotto tiro con la pistola. È grosso, di quei tipi con la mascella quadrata e i bicipiti gonfi, uno di quelli che ti aspetti di trovare come buttafuori in discoteca. Ha i capelli molto corti, biondissimi, tanto che si intravede il cuoio capelluto sottostante. Una cicatrice bianca gli sfregia il volto, scendendo da una narice a tagliargli le labbra. Spero che qualsiasi cosa gliel’abbia procurata sia stato molto doloroso. Decido di soprannominarlo Colosso. Cerco di memorizzare ogni dettaglio del suo viso, il naso dritto, gli occhi color ghiaccio, in caso avessi la fortuna di poter fornire un identikit alla polizia. Di colpo, però, vedo nero.

    Colosso mi ha incappucciata.

    DAMIANO

    I polsi mi fanno dannatamente male. Sembrano legati stretti.

    Sto ancora dormendo? Sto sognando?

    Apro gli occhi. Sono rannicchiato in un grande letto dalle coperte blu. Le mie mani sono legate con corde robuste. Devo essermi agitato molto nel sonno; le corde mi hanno scavato solchi profondi nella carne. Cerco di tirarmi su, ma un uomo alto e magro corre verso di me, bloccandomi. Ho la vista appannata e non mi sembra di conoscerlo.

    Come diavolo sono finito qui?

    L’ultimo ricordo che ho è che ero nella mia tenda in campeggio, sfinito da una giornata di trekking con gli amici. Ero solo perché non avevo voglia di andare con loro in città a bere in un pub da quattro soldi… Io non bevo, non fumo, non mi drogo.

    Cosa diavolo ci faccio qui?

    L’uomo si mette di fronte a me, tira fuori una pistola e me la punta al petto.

    «Non ti muovere, non servirebbe a niente» esclama con voce squillante «tra poco finirà del tutto l’effetto del cloroformio, quindi tornerai abbastanza lucido da capire in che brutta situazione ti sei cacciato».

    Cloroformio? L’immagine di un’ombra che mi spruzza uno spray dall’odore strano sulla faccia mi invade la mente all’improvviso, ma quando cerco di ricordare di più, l’immagine mi sfugge via tanto velocemente quanto è arrivata.

    Fisso la pistola, completamente paralizzato dal terrore.

    Come può anche solo pensare che io cerchi di scappare?

    Anche volendo, i miei muscoli non risponderebbero ai comandi. Me ne sto seduto come un imbecille sul bordo del letto e non riesco a fare altro se non fissare l’uomo che mi sta tenendo in ostaggio, cercando di ignorare i giramenti di testa. Mentre la nebbia scompare piano piano dai miei occhi, noto che l’uomo sembra piuttosto giovane, sulla quarantina al massimo. Ha i capelli nerissimi rasati ai lati, ritti a spazzola sopra. Sembra smilzo, ma in realtà è un fascio di nervi. Lo si vede dal braccio in tensione che regge la pistola. Non è uno che scherza, questo è sicuro. Ha gli occhi lucidi traboccanti di eccitazione, tipico di uno psicopatico.

    «Che cazzo mi guardi, eh?» ruggisce di colpo, avvicinando la faccia alla mia.

    Gli occhi sono azzurri. Forse sarebbe pure un bell’uomo se non fosse un viscido bastardo.

    «Pensi che riuscirai a cavartela e raccontare tutto alla polizia?», incalza.

    Non rispondo.

    L’uomo si allontana, sempre tenendomi sotto tiro. Mi guarda dritto in faccia, come per studiarmi.

    «Illuso», sibila.

    Questa parola mi terrorizza quasi più della pistola. Non mi dà scampo. Vuol dire che l’uomo sa benissimo che non posso uscire da questa situazione. Sono in trappola. Cerco una via di fuga. Con la coda dell’occhio intravedo due porte, una dietro al pazzo, l’altra alla mia sinistra, ma non oso guardare meglio.

    «Stai buono solo un altro po’, eh?» continua, la voce di nuovo squillante di eccitazione.

    Io mi ostino a non rispondere e, paradossalmente, sembra la tattica giusta per ottenere più informazioni perché l’uomo spiega: «Dobbiamo aspettare delle persone. Tra poco saranno qui, così potrai conoscere la tua compagna di gioco».

    RACHELE

    Odio il buio. L’ho sempre odiato, fin da bambina. Fin da quando giocavo a nascondino con mio cugino Max e finivo sempre per nascondermi in cantina. Sapevo benissimo che, una volta là, avrei avuto paura dell’oscurità, ma ci andavo lo stesso pur di vincere. Così passavo quelle che sembravano ore ad aspettare che mi trovasse, anzi che mi salvasse, dalla mia idea masochistica di nascondermi al buio. Odio il buio. E Colosso mi ha ficcato un sacco in testa. Mi sento vulnerabile. Potrebbero farmi qualsiasi cosa ed io non avrei modo di capirlo in anticipo. Non posso vedere nulla. Cerco di dominare l’ansia che mi attanaglia le viscere. Il tassista piccoletto sta guidando come uno spericolato. Sicuramente, siamo usciti dal traffico della città perché sta andando veloce. Sbando a ogni curva, non riuscendo a reggermi con le mani legate. Per ben due volte, finisco addirittura addosso a Colosso, che mi ributta violentemente al mio posto. Non so dove stiamo andando. Sembra un viaggio infinito.

    Solo poco fa ero felicissima di tornare a casa dai miei genitori. Il viaggio di lavoro era andato bene, era una bella giornata e già immaginavo il mio nipotino Mathias, di cinque anni, correre verso di me sul prato con una manina sugli occhi per schermarli dal sole, impaziente di abbracciarmi come se fossi stata via mesi invece di pochi giorni.

    Adesso non è più una bella giornata. Sono finita in una di quelle orrende notizie che danno al telegiornale. E non so nemmeno quanto sarà terribile la mia storia. Non oso immaginare cosa vogliono fare di me questi due. Per la prima volta, mi viene in mente che potrebbero anche uccidermi. Non voglio morire. E soprattutto, non voglio essere ammazzata in qualche modo atroce per poi essere occultata da qualche parte, seppellendo con me anche la possibilità che si sappia mai che fine ho fatto. Mi sta salendo il panico. Adesso ho paura. Sul serio. Voglio uscire da questa storia. Voglio respirare. Questo cappuccio non mi fa respirare! Voglio respirare!

    «Siamo quasi arrivati», dice il piccoletto a Colosso.

    Questa interruzione al flusso dei miei pensieri mi dà una scossa: non posso permettermi di cedere al panico. Solo se sarò lucida avrò la possibilità di cavarmela. Forse. Mi ricordo come si respiri. Cerco di svuotare la mente. Ce la posso fare. Ce la devo fare.

    La macchina inizia a muoversi a scossoni. Forse siamo in campagna. Sono distrutta. Ogni volta che prendiamo una buca, la vibrazione mi riverbera violentemente lungo la schiena. Voglio solo scendere da questa maledetta auto e capire cosa mi aspetta, per quanto terribile possa essere.

    Finalmente, ci fermiamo. Sento il piccoletto e Colosso che scendono. Subito dopo, la mia portiera viene spalancata. Un muro di aria calda mi investe, mentre qualcuno mi tira il braccio per farmi scendere.

    «Adesso scendi, da brava su».

    È Colosso. Inizia a darmi sui nervi ogni volta che dice: Da brava su. Improvvisamente, immagino di tirargli un pugno dritto in faccia e quasi faccio una risatina al pensiero. Sono veramente nervosa se mi viene da ridere in una situazione come questa.

    Cerco il terreno con i piedi e provo ad alzarmi senza inciampare. Il viaggio in macchina mi ha indolenzita e, complice la paura, sento che le gambe potrebbero tradirmi e cedere da un momento all’altro. Il terreno ghiaioso non aiuta il mio equilibrio, né i tacchi che stamattina ho stupidamente deciso di indossare. Forse i due tizi intuiscono le mie difficoltà perché mi prendono a braccetto, uno da una parte e l’altro dall’altra. Magari pensano che, nonostante le scarpe e il cappuccio, possa provare a scappare. Facciamo qualche passo tranquillo. I due non sembrano avere fretta, il che mi fa capire che non hanno paura di essere visti. Siamo sicuramente in un posto isolato, lontano da sguardi indiscreti. Cazzo. Se mi hanno portata in un posto isolato, nessuno potrà vedermi o aiutarmi.

    Ci fermiamo. Sento qualcuno aprire una porta. Entriamo. Ora che cammino su un pavimento liscio, sono più stabile sulle gambe. Presto iniziamo a scendere delle scale. Rischio di cadere ad ogni gradino, ma i due non me lo permettono. Quando la scala finisce, imbocchiamo quello che sembra essere un corridoio, dal modo in cui sento risuonare il rumore dei nostri passi sulle pareti. Scendiamo di nuovo. Un altro corridoio. Qualcuno bussa a una porta. Forse siamo arrivati.

    «Entrate!».

    La voce di un terzo uomo mi fa sprofondare nella disperazione. Sono TRE. Non posso resistere a tre uomini, armati per di più. Appena entriamo, sembrano portarmi in un punto preciso.

    «Stai ferma qui» mi dice il piccoletto.

    Il rumore secco della porta che si chiude alle mie spalle mi fa sobbalzare. Sono in trappola. Mi piazzo ben salda sulle gambe. Non voglio cadere subito se iniziano a colpirmi. E, anche se probabilmente non fa nessuna differenza, voglio mostrarmi sicura di me. Decido che, qualunque cosa vogliano farmi, non gli darò la soddisfazione di togliermi la dignità.

    «Benvenuti» inizia a parlare quello che ci ha appena dato il permesso di entrare.

    È una voce stranamente squillante per appartenere a un uomo, come se provenisse da un bambino eccitato con il corpo di un adulto.

    Perché ha detto benvenuti?

    È un modo assurdo di rivolgersi a qualcuno che hai appena sequestrato.

    E perché il plurale? Non sono sola?

    La voce riprende: «Siete stati portati qui perché siete i prescelti per il nostro gioco: un uomo e una donna».

    Non oso fiatare.

    Gioco? Che razza di gioco?

    Per un attimo, provo addirittura un leggero sollievo: forse si è trattato solo di un brutto scherzo. Il ricordo delle pistole, però, torna a farmi rabbuiare.

    Almeno ci sarà qualcun altro a giocare con me, a quanto pare. Questa parola, fino a stamattina associata all’infanzia e al mio nipotino, adesso mi fa venire i brividi.

    «Tempo fa, io e i miei colleghi abbiamo concepito un esperimento basato sulla psiche umana» riprende il tizio eccitato. «Cosa succede se si rinchiudono insieme due perfetti sconosciuti e si gioca con loro? Cosa faranno? Come evolverà il loro rapporto? Si innamoreranno, uniti indissolubilmente dalle difficoltà, oppure si odieranno perché crederanno l’altro responsabile delle proprie sofferenze? Si aiuteranno o ognuno penserà a se stesso? E soprattutto, noi possiamo influenzare le loro scelte e i loro sentimenti?».

    Le domande rimangono sospese nell’aria in attesa di una risposta. A prescindere da cosa vuol dire giocare con noi, ho la certezza di essere finita nelle mani di un gruppo di psicopatici. Forse, l’esperimento era anche partito con buone intenzioni. Forse, i miei rapitori sono professionisti rispettabili e insospettabili.

    Quel che è certo è che il loro interesse comune a un certo punto è diventato un delirio di gruppo, sfociato nel rapimento di due persone. Sono davvero terrorizzata. Non avrei mai pensato di essere usata come una cavia da laboratorio.

    Cosa vogliono farci?

    Non credo si tratti di qualcosa di innocente.

    «Adesso conoscerete il vostro compagno di gioco e poi vi spiegheremo le regole. Solo voi potrete dare una soluzione ai nostri interrogativi» conclude quello che ormai penso sia il capo, sempre più eccitato. Finalmente qualcuno mi sfila il cappuccio dalla testa.

    Davanti a me c’è un ragazzo di media statura, dal fisico asciutto e dal viso dolce, che mi guarda disorientato con i suoi occhi azzurro ghiaccio. Ha i capelli corvini spettinati, lunghi fino alle spalle, e la bocca sottile leggermente aperta per lo stupore.

    Anch’io mi accorgo di avere la bocca semiaperta. Mi schiarisco la gola e cerco di rilassare il viso. Raccolgo un po’ di coraggio e guardo il tizio che ci ha appena spiegato perché siamo stati rapiti. Ha proprio la faccia da pazzo e, come avevo immaginato, sembra veramente un bambino eccitato che ha appena ricevuto due meravigliosi regali di Natale. È molto alto ma, a differenza degli altri due, smilzo. Ha corti capelli neri a spazzola e un sorriso perfetto di denti bianchi e drittissimi.

    Colosso sta di fianco al ragazzo, Basso (ho deciso di chiamare così l’autista piccoletto) è di fianco a me.

    «Buongiorno signorina!», mi saluta con tono viscido quello alto, guardando gli altri due con l’espressione soddisfatta di chi apprezza la merce che gli è stata portata.

    Mi si gela di nuovo il sangue.

    «Cosa significa tutto questo?».

    Mi giro sorpresa. A parlare è stato il mio compagno di gioco. Questo sì che è uno con le palle. Persino Alto (il capo), Basso e Colosso sembrano turbati da tanta audacia.

    «Insomma, che cazzata è questa?» continua il ragazzo, il viso alterato e incredulo, nonostante la sua voce tradisca la paura. Mi indica: «Cosa ci fa lei qui? Ha tutta la vita davanti, lasciatela andare!».

    Apprezzo la galanteria. Nonostante lui stesso non possa avere più di una trentina d’anni, ha cercato di far liberare me invece che lui. È un buon segno: sembra che non dovrò far coppia con un villano.

    «Che c’è? Non ti piace la tipa che abbiamo scelto per te?» gli ringhia in faccia Colosso, strattonandolo per un braccio. «Eh? Non ti piace?».

    «Non è questo il punto…» inizia a rispondere il ragazzo indignato.

    «Allora sta’ zitto!» sbraita Colosso, mollandogli il braccio

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