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La Verità Sotto La Maschera
La Verità Sotto La Maschera
La Verità Sotto La Maschera
E-book865 pagine11 ore

La Verità Sotto La Maschera

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Info su questo ebook

Risvegliatosi tra le macerie arse dal fuoco della propria casa, scampato alla morte, il Cacciatore scopre di aver perduto i propri ricordi. Ogni memoria di sé è scomparsa, trafugata dall'essere che ha tentato di ucciderlo. Il nekur, la Figura Nera, un negromante dotato di incredibili poteri, tali da permettergli di vincere la morte. Affiancato da Marcus, maestro incantatore dell'Accademia, e da Arishor, guerriero sacro appartenente alla razza dei draik, creature per metà uomo e per metà drago il cui regno si stende al di là delle montagne, il Cacciatore parte alla ricerca dello stregone. Seguendo le sue tracce, sparse per tutto il Leglen in una scia di devastazione, recupererà frammenti del passato perduto, che tuttavia non leniranno il suo tormento, non diraderanno la sua confusione, ma lo precipiteranno, sempre più, in un abisso di odio e dolore. Una caccia sofferta, disperata. Una strada che lo condurrà alla comprensione dell'orrore, del male. Una strada alla cui fine scoprirà la verità sotto la maschera.
LinguaItaliano
Data di uscita19 gen 2016
ISBN9788867824755
La Verità Sotto La Maschera

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    Anteprima del libro

    La Verità Sotto La Maschera - Ermes Lamparelli

    Ermes Lamparelli

    La Verità Sotto La Maschera

    EDITRICE GDS

    Ermes Lamparelli La Verità Sotto La Maschera ©EDITRICE GDS

    EDITRICE GDS

    di Iolanda Massa

    Via G. Matteotti, 23

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    tel. 02 9094203

    e-mail: edizionigds@hotmail.it ; iolanda1976@hotmail.it

    Collana ©AKTORIS

    Illustrazione in copertina di ©Michele Giorgi

    Tutti i diritti riservati.

    L’opera è frutto dell’ingegno dell’autore. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi realmente esistenti e/o esistiti è puramente casuale.

    Madre, poiché fosti tu a mostrarmi la strada, questo è per te.

    Prologo - Dal Buio E Dal Silenzio

    1

    Buio. Silenzio. Nessuna immagine, nessun suono.

    Gradualmente delle forme emergono dall’oscurità avvinghiata al mio sguardo, rumori indecifrabili giungono alle mie orecchie, da molto lontano.

    Apro gli occhi. Mi sembra di nascere per una seconda volta.

    Sono disteso a terra, sfumature cremisi, traballanti, bagnano il soffitto sopra di me.

    Mi fa male la testa. Una nota penetrante preme sulle mie orecchie, impedendomi di dare un ordine ai miei pensieri. Ho caldo, ma non è il calore prodotto dalla luce del sole a toccare il mio corpo.

    No, ne sono sicuro.

    L’insopportabile lamento che vessa il mio udito svanisce, infine, lasciando posto al rumore di qualcosa che crepita, come di carta stropicciata. È costante, vicino, sempre più vicino.

    Quando realizzo cosa mi sta succedendo, ormai, è troppo tardi.

    Una porzione del tetto si sgretola, e precipita. Giù, su di me.

    Cerco di arretrare strisciando, ma non vado abbastanza lontano, e le travi ridotte in pezzi cadono sulle mie gambe. Qualcosa penetra nella carne del mio polpaccio destro. Fa male, ma non troppo.

    Sono incastrato, provo a liberarmi dalla pesante stretta del soffitto appena franatomi addosso, senza alcun risultato. Con uno scatto del busto mi sollevo, mettendomi a sedere.

    Mi guardo attorno rapidamente. Sono in una sorta di baracca. A destra, nell’angolo, giacciono i resti di un grosso baule. Non mi preoccupo di studiarne il contenuto, appena visibile tra i frammenti lignei. Non è importante.

    Dietro di me, quello che in un passato recente doveva essere un giaciglio di paglia, ora alimenta l’incendio che sta sbranando questa struttura barcollante. Il crepitare delle fiamme è famelico, crudele, il ringhiare sommesso di un animale affamato. Là davanti un passaggio rettangolare, munito di cardini ma privo di porta, conduce ad un ingresso poco più grande di un ripostiglio.

    Posso sentire sulla mia pelle l’approcciarsi delle fiamme, di secondo in secondo.

    Infilo le mani sotto la più grossa delle travi che mi ha vincolato a questo simulacro ardente, e con tutta la forza che ho nelle braccia spingo verso l’alto. Stringo i denti per lo sforzo. Le fiamme, sinuose torturatrici, carezzano la mia schiena nuda. Faccio scorrere le gambe fuori dall’infame catasta di legna, e con un urlo di dolore e frustrazione mi libero.

    Sento le pareti che mi circondano scricchiolare. Non mi piace.

    Poco prima che l’incendio possa avvolgere la mia carne divorata dalla spossatezza, mi alzo in piedi, ma dopo il primo passo una fitta improvvisa e crudele mi destabilizza, facendomi cadere in avanti. La gamba destra brucia, non per il fuoco, ma per il dolore. È una sottile scheggia di legno la fonte di tanta sofferenza. Sembra una daga, attraversa il polpaccio da parte a parte. Chiudo gli occhi, e la separo bruscamente dal mio corpo.

    Perdo sangue.

    Prima di uscire incespicando da questa catapecchia agonizzante, concedo un’ultima occhiata al fuoco che arranca alle mie spalle. Lento, vorace, inesorabile.

    2

    Mi allontano da quella che sarebbe potuta essere la mia tomba. I miei polmoni bevono avidamente l’aria pura, non insozzata dai fumi velenosi dell’incendio. Barcollo, come se fossi completamente ubriaco. È così che mi sento, in verità.

    È difficile pensare, è difficile capire. Non ricordo come sia finito là dentro. Non... non ricordo nulla.

    È notte, le stelle sembrano osservare sadicamente quanto mi sta accadendo attorno. Altre case ridotte a ruderi, oppure vittime della lenta morte elargitagli dal fuoco. Rivoli di fumi fuligginosi salgono verso il cielo nero. Persone morte, le facce affogate nella polvere della strada che attraversa questo piccolo agglomerato, come oggetti rotti e ormai futili, i corpi ustionati o incorniciati da pozze di sangue.

    Abbandonato il calore infernale della baracca in fiamme, l’aria fredda trafigge con gelida violenza le mie membra. Un paio di stivali e dei pantaloni di lana sono i miei unici scudi contro il clima avverso.

    Piego la schiena, inizio a tossire forsennatamente. Odo appena il rumore di passi che mi si avvicinano alle spalle. Con la gola dolente, mi giro verso il nuovo venuto.

    Un giovane uomo, poco più che un ragazzo. Un lungo mantello gli avvinghia completamente il corpo. Calza delle scarpe di cuoio pessimamente ridotte, ad una mancano i lacci, l’altra è aperta sul tallone, la pelle indifesa rossa per il gelo. Capelli crespi cingono un volto nero di polvere, e gli occhi, dietro quelle ciocche sudice, mi scrutano timorosi. La danza delle fiamme disegna ombre mutevoli sulla sua faccia.

    Ha smesso di avanzare, dacché mi sono voltato. Non voleva che mi accorgessi della sua presenza.

    Ora sono io ad avvicinarmi a lui. Un lieve tremito percorre le sue labbra, indietreggia istintivamente. È basso, mi arriva appena al petto. Lo fisso, in attesa di un saluto, di una parola.

    Perché ha paura di me? Perché non voleva che lo notassi?

    Niente parole, niente saluti.

    Scorgo l’acciaio del pugnale che stringe nella mano destra. Sbuca per un attimo dal velo mistificatore che mi celava il suo corpo dal collo fino alle caviglie, brilla della luce dei molti focolari che ci circondano. La sua sbadataggine mi ha appena salvato la vita.

    Con un verso tra il rabbioso e il dolente tenta un affondo, ma io sono già pronto a schivarlo. Salto a sinistra, e lui non fa nulla. Rimane a fissare incredulo il punto dove il suo braccio ha raggiunto la massima estensione, fendendo nient’altro che l’aria.

    Non aspetto che tenti nuovamente di uccidermi. Afferro il polso della mano armata con la destra, mentre con la sinistra faccio pressione sotto l’ascella. Inizio a tirare.

    È spaventato, cerca di gridare, ma non ci riesce, le sue corde vocali producono un lamento appena percettibile.

    Rumore di qualcosa che si spezza. Il braccio del mio aggressore pare essersi allungato un poco. Il suo quieto piagnucolare muta in una straziante esternazione di dolore.

    Abbandono il braccio, cade molle nel vuoto.

    L’uomo che ha cercato di uccidermi urla. Non vedo più la spalla destra modellare il tessuto scuro che la ricopriva.

    Lo colpisco in piena faccia, il suo naso scricchiola all’impatto delle mie nocche. Cade a terra, non smette di urlare.

    È insopportabile.

    Mi chino accanto a lui. Raccolgo il pugnale che avrebbe dovuto saggiare il mio sangue. Osserva ogni mio movimento con sacro terrore, e quando la mia mano si protende verso di lui inizia a strisciare nella polvere. Come un verme.

    Lo afferro per la cappa stracciata, lo strattono verso di me. Blocco la sua fuga premendo il palmo della sinistra sul petto. Non può più scappare.

    Ha iniziato a lacrimare, è disperato. Lo guardo piangere. Piego il braccio destro verso sinistra, finché la mano che stringe il freddo metallo assassino non arriva a toccare la spalla opposta.

    «Ti prego... ti prego» dice con la voce strozzata dal pianto. «L’ho fatto per mia moglie... per i miei bambini... noi soffriamo la fame. Non abbiamo... niente, e... lui ci ha promesso soldi... tanti soldi... dieci monete d’oro... noi...»

    Smetto di ascoltarlo. Non sento più quello che dice.

    Ha una moglie, ha dei figli. Non me ne importa nulla. Avrebbe venduto la mia vita per dieci monete, se glielo avessi permesso.

    «Ti prego... ti supplico, abbi pietà! Hanno bisogno di me!»

    Ha smesso di piangere. La paura e la strisciante follia del condannato fermo sul patibolo ad aspettare la Morte gli hanno gonfiato gli occhi. «Dì qualcosa... dì qualcosa maledetto! Lasciami andare... lasciami andare!»

    No, non gli dirò nulla, e lui lo sa. Sa altrettanto bene che non lo lascerò andare.

    «L’ho fatto solo per loro... solo per loro... mi dispiace, io non...»

    Niente parole, niente saluti. Con uno scatto gli taglio la gola.

    Il sangue inizia a sgorgare. La frenesia del suo respiro scema di secondo in secondo, sempre di più. È esterrefatto. Non riesce ad accettare la sua fine.

    Mi alzo, mentre muore, mi allontano da lui.

    Quell’uomo aveva una famiglia, ha compiuto un gesto efferato spinto dalla semplice necessità di sopravvivere, incoraggiato dalla disperazione. Lo comprendo, ma non lo perdono. Forse dovrei provare rimorso per quello che ho appena fatto, ma non ci riesco.

    Non me ne importa nulla.

    3

    Avanzo tra le case in fiamme, cammino in mezzo ai corpi bruciati. Un uomo ha cercato di uccidermi.

    Banditi. Hanno dato alle fiamme questo posto dopo averlo saccheggiato, e per un caso fortuito non mi hanno trovato, mentre giacevo incosciente in quella baracca.

    Dieci monete. Mi ha promesso dieci monete.

    No, non sono banditi. Mercenari, sicari forse. I banditi riscuotono il loro pagamento dai morti, non hanno bisogno che qualcuno li retribuisca.

    La ferita alla gamba destra pulsa, fa male. Ma non troppo, almeno per ora.

    Chi potrebbe avere interesse a bruciare un posto come questo? Per quale motivo?

    Non ha importanza, devo andarmene da qui, sono ferito, stanco. Devo tornare a casa. Casa...

    Ombre di uomini scivolano nel buio introno a me. Molte ombre.

    Stringo l’elsa del pugnale che ho sottratto a quel farabutto.

    Emergono dalle case in rovina, dall’oscurità degli alberi che attorniano il villaggio. Straccioni, indossano vesti consunte, si nascondono sotto cappucci dai bordi sfilacciati. Impugnano daghe, spade, asce. Sono d’acciaio. Qualcuno ha dato loro quelle armi, gente di tale risma non potrebbe acquistarle da sé nemmeno nell’arco di una vita intera. Li osservo, mentre mi tagliano ogni via di fuga accerchiandomi.

    Nove uomini. Sono solo contro nove uomini armati.

    Non ho paura.

    Il più possente di loro, munito di una grossa ascia bipenne, mi corre incontro urlando. Le tozze braccia si contraggono nel sollevare l’arma.

    Non ha la mia stazza, non ha la mia forza. Non ha possibilità.

    Mi scanso poco prima che la pesante testa dell’arma possa spaccarmi il cranio.

    Il condannato è piegato, cerca disparatamente di estrarre l’ascia dalla terra in cui è penetrata. Lo sento ansimare, ha paura di non fare in tempo.

    Gli affondo la piccola lama del pugnale dietro la nuca. Ora non ha più paura, e non l’avrà mai più.

    Getto il cadavere a terra con un calcio, afferro il manico della bipenne e la libero dal suolo. La trascino attorno a me, scavo solchi circolari nella polvere. Guardo gli otto superstiti, un muto invito a farsi avanti.

    Uno avanza cauto verso di me, la spada rivolta al terreno, lo scudo sollevato. Ne odo altri due approcciarsi furtivamente alle mie spalle.

    Quello davanti temporeggia, è sicuro che non abbia colto l’inganno. Uno stivale incontra rumorosamente il suolo, forse a cinque passi da me. Stringo l’ascia con entrambe le mani e la roteo in una mezzaluna mortale. Le dimore ardenti scorrono nei miei occhi in scie luminose.

    La lama separa il busto del primo dal bacino in un tripudio di viscere e sangue, conclude il suo letale cammino affondando per metà nella coscia del secondo.

    Lo sventurato che ho diviso in due è già morto, il volto pallido, la bocca aperta, le membra flagellate dalle scosse dell’agonia. L’altro cerca di resistere al dolore, ma non ci riesce. Perde l’equilibrio, cade a terra.

    L’uomo armato di scudo mi carica, la spada pronta per un fendente. Digrigna i denti, come un animale.

    Abbandono l’ascia, scivolo a terra, rotolo, e mi ritrovo alle sue spalle. Inizia a menare colpi in ogni direzione, ringhiando e gemendo. Mi avvicino. La mia gamba sinistra si piega all’indietro. Lui mi ha ritrovato, ma non in tempo. Gli fracasso il ginocchio, e anche lui cade.

    Tutti loro sono destinati a cadere.

    Si regge la gamba rotta piangendo. Mi approprio della sua spada.

    «No! No! NO!» le sue ultime, deliranti parole. Quando l’acciaio gli trapassa il cuore, le suppliche che uscivano dalla sua bocca si trasformano in sangue.

    Rivolgo nuovamente lo sguardo ai miei assalitori. Adesso, cinque uomini armati mi guardano nel modo in cui si guardano i mostri, languendo nello sgomento e nell’incertezza. È quello che voglio. Lo scontro ha infiacchito il mio corpo, non riuscirò ad ucciderli se decideranno di agire.

    I lamenti del morente a cui ho ferito la gamba colmano l’aria, insieme al crepitare delle fiamme.

    Una spada insanguinata pende dal mio braccio destro.

    Il più distante dei miei avversari fa un passo indietro, poi un altro. Gli altri gettano gli gettano sguardi fugaci, ma non distolgono gli occhi da me per più di un secondo.

    Il codardo inizia a correre, e i suoi compagni paiono intenzionati a seguire il suo esempio.

    Una luce abbagliante mi artiglia la vista. I miei occhi accecati carpiscono appena una folgore bluastra infrangersi sul fuggitivo. Passano alcuni secondi prima che mi riprenda da quel lampo improvviso.

    Ossa nere giacciono dove prima un uomo cercava la salvezza, i sopravvissuti le osservano intimiditi.

    Oltre quei resti, vedo qualcosa.

    Non mi piace.

    4

    Due figure camminano fianco a fianco. Si avvicinano. Passi incredibilmente pesanti scuotono la terra. Cerco di capire chi siano, cosa siano, ma più mi concentro su di loro, più la mia vista diviene debole. Davvero un brutto scherzo. Magia, con tutta probabilità.

    Indietreggio.

    I sicari hanno paura, ma non scappano, aspettano che quelle due cose arrivino.

    Guardo ancora, e questa volta riesco a vedere. Un’enorme creatura metallica, alta più di dodici piedi. Ha il corpo simile a quello di un uomo, ma non vedo pelle, non è fatto di carne. Le articolazioni sono costituite da globi rossi, luminosi e pulsanti, che collegano la testa al collo, la cassa toracica al bacino, le singole falangi alle mani, e così via. Tuttavia le varie parti del corpo non sono unite, fluttuano attorno a queste sfere di luce, come pianeti attorno ad un sole. Quello che pare un cranio umano è sormontato da una sorta di maschera, su cui si aprono molte cavità oculari. Occhi di fuoco, scrutano in ogni direzione. Non ha bocca, né lineamenti. Non ha una faccia.

    Accanto al gigante d’acciaio, una creatura inquietante incede zoppicando. È alta circa sette piedi, poco più bassa di me. La ricopre una tunica nera dalle estremità lacere, strappata, rovinata, consumata dal tempo. Non posso vederne il volto, è nascosto sotto un largo cappuccio a punta. Le vesti logore ondeggiano mentre cammina.

    Si fermano. La figura nera mi guarda con occhi che non posso vedere. Alza un braccio, punta un lungo artiglio scheletrico verso di me. Un verso gutturale, spettrale.

    Uccidetelo ha detto questo, ne sono sicuro.

    I suoi sgherri non esitano neanche un istante. Temono lei, più di me, molto più di me.

    Un vecchio dalla lunga barba e le braccia secche come ramoscelli mi si avventa contro, sventolando un piccone nell’aria. Roteo il busto e il braccio destro verso sinistra, aspetto che sia abbastanza vicino. La spada fende l’aria, attraversa il collo del vegliardo, incidendo infine una breve linea nella polvere. Il corpo decapitato cade ai miei piedi.

    Ne arriva un altro. Mi è sufficiente torcere il braccio armato verso sinistra. La spada affonda nella carne molle del fianco del mio assalitore. Inciampa nel cadavere della mia precedente vittima, sputando sangue e maledizioni.

    Bastardo.

    Folle.

    Assassino.

    Crede che io sia il carnefice e lui la vittima. La prospettiva distorta di un idiota.

    Non guardo in faccia il parassita che viene dopo di lui. Gli cingo il capo con entrambe le mani e gli spezzo il collo. Quando abbandono la presa si accascia a terra, come un burattino senza fili.

    Crampi mordono le mie braccia, ma devo difendermi, non posso, non voglio permettere a questa feccia di uccidermi. L’ultimo superstite osserva per alcuni secondi il mio truce operato, la faccia congelata in un’espressione d’orrore. Quest’esitazione gli costa cara.

    Il titano d’acciaio serra le dita attorno a lui, sollevandolo da terra. Stringe, sempre di più. Sento le ossa spezzarsi. Quando le urla finiscono, scaglia le membra contorte contro un’abitazione incendiata. Si volta poi verso di me. I suoi occhi si muovono freneticamente, come impazziti.

     La figura nera cammina placidamente, sussurra parole sibilanti in una lingua che non posso comprendere. Conclude il suo criptico monologo con una parola secca, tagliente, un ordine irrevocabile.

    Il gigante reagisce, scatta improvvisamente, ampie falcate mangiano la distanza che lo separa da me. Prima che io possa tentare una qualsiasi manovra evasiva, mi ha già raggiunto.

    Le dita metalliche, fredde come il ghiaccio, mi cingono le spalle, impedendomi di muovermi, di fare qualsiasi cosa. La terra sotto i miei piedi svanisce, e l’enorme testa del mostro meccanico si avvicina lentamente alla mia. Mi osserva, mi rotea leggermente di lato, come per studiarmi meglio.

    Sento di nuovo il roco mormorare di quella strana creatura vestita di nero, e poco dopo vengo sollevato in alto. Sotto, vedo la figura nera giungere a me.

    Odora di vecchio, di cenere, di corpi morti.

    La ripugnante aberrazione si ferma e il suo servo d’acciaio mi sposta lentamente verso di essa. Il sudario nero che le avvolge la testa si muove in segno di assenso. Il suo idioma grottesco riempie l'aria della notte, e d’un tratto le mie palpebre divengono terribilmente pesanti. Il mio cuore batteva all’impazzata, fino a pochi istanti fa, ma ora s'è placato. Sono debole, troppo debole. Non so in che modo, ma questa creatura si sta cibando delle mie ultime forze, mi sta prosciugando la vita.

    Una mano morta si avvicina alla mia faccia, fulmini neri crepitano attorno alle dita innaturalmente lunghe.

    Ci ho provato, ma ho fallito. Ho lottato fino all’ultimo, ma non è servito a nulla. Chiudo gli occhi, mi lascio andare. Penso che tornerò a tormentare questa maledetta cosa quando sarò morto, che gliela farò pagare.

    «Eccolo! Muoviti Arishor, è qui!»

    La voce di un uomo spazza via le mie congetture di una vendetta dopo il trapasso, e mi riapre gli occhi. La figura nera allontana il suo tocco mortale dal mio volto.

    No, non è ancora finita per me.

    5

    L’essere che stava per uccidermi è spaesato, non ha gradito l’intromissione dei miei sconosciuti salvatori. Sibila parole di rancore, è furioso.

    Il terreno esplode a pochi piedi da me, in un’orgia di scintille violacee. La figura nera inizia ad indietreggiare, e nel contempo qualcosa si schianta contro il mio enorme carceriere, scuotendolo violentemente. Il gigante barcolla, ma non abbandona la presa.

    Sento qualcuno correre, e poco dopo odo il cozzare di un’arma contro la pelle metallica del mostro.

    La figura nera spalanca i palmi verso la terra, una nube di oscurità inizia a scaturirle intorno. Urla, nel suo gergo alieno, e l’essere d’acciaio mi lascia andare.

    Atterro sul fianco. La mia pelle si strappa all’altezza del gomito sinistro. Sbatto la testa contro qualcosa di duro, una pietra forse, e d'un tratto ogni suono diviene debole, appannato. È come se le mie orecchie si fossero colmate d’acqua. Meri frammenti di quanto sta succedendo vengono rilevati dai miei occhi.

    La figura nera e il suo tirapiedi sono svaniti in una coltre di tenebra, e uno dei miei soccorritori, quello che ha attaccato il gigante, mena fendenti nella nebulosa massa di magia. Troppo lontano, non posso vederlo con chiarezza, ma non è umano. No, di questo sono certo.

    L’altro invece lo è. Si ferma vicino a me, indossa una tunica d'un verde sbiadito. «Fermati, è fuggito di nuovo. Scaricare la frustrazione sui residui della sua via di fuga non farà altro che infiacchirti.»

    Il suo compagno obbedisce in silenzio. Poi si dirige qui, dove sono io, con passi lenti, quasi furtivi.

    L’uomo in tunica mi guarda. «Voleva qualcosa da questo sventurato» si china su di me, mi pone la una mano aperta sul volto. «Ma cosa?»

    La creatura misteriosa, nel mentre, ci ha raggiunti. Ha un respiro potente, pesante, come la sua voce. «Una domanda stupida, umano. La risposta giace attorno a noi» indica al suo interlocutore i corpi dei sicari da cui miracolosamente mi sono difeso.

    La pelle è strana, sembra ricoperta di scaglie. Ha dita tozze, culminanti in lunghi artigli.

    «Oh, sciocco me. Come ho fatto a non pensarci! Ha assoldato un manipolo di assassini per sbarazzarsi di lui, ovviamente. Ora dimmi, Arishor, vedi da qualche parte, qui intorno un indizio, o, perché no, una missiva dove quel mostro ci espone in modo esaustivo e dettagliato il perché lo volesse morto?»

    «Davvero molto divertente.»

    La creatura emette un verso basso, simile ad un ruggito. Si pone davanti a me, accanto all’uomo in tunica. È imponente. Ha larghe spalle muscolose, la schiena leggermente inclinata in avanti, la pelle squamosa e... una testa di rettile. Ma non ha occhi di bestia. Quelle iridi di un grigio tanto chiaro da sembrare bianco ardono di intelligenza, di consapevolezza. Indossa un’armatura a piastre, con decorazioni in oro che sembrano fiamme. Il metallo è bianco, una varietà che non avevo mai visto.

    «Che cosa ne facciamo di lui?» domanda l’uomo-drago.

    «Lo portiamo via da qui, ovviamente. Delego volentieri a te tale compito, questo bestione è grosso quasi quanto te.»

    L’uomo in tunica si alza in piedi, sorride maliziosamente all’uomo-drago, e poi si allontana. La strana creatura piega le gambe robuste, sporge le braccia, mi prende da sotto le ascelle. Percepisco il suo sforzo nel cercare di sollevarmi.

    «Riesci a sentirmi?»

    Non riesco a parlare, mi gira la testa. Mi limito ad annuire.

    «Bene. Passami le braccia dietro al collo, se ti è possibile. Per Velendon, sei troppo pesante, non ce la faccio da solo.»

    Faccio come mi dice. Cambia strategia, mi passa un braccio sotto la schiena e l’altro sotto le gambe. Questa volta ha successo.

    Vedo l’uomo in tunica avanzare circospetto, là, davanti a noi. Cerca dei superstiti, un corpo che ancora abbia uno spirito ad animarlo, a farne battere il cuore. Sembra sondarli semplicemente avvicinando ad essi i palmi aperti, come ha fatto con me. Sì... deve essere un mago.

    L’uomo-drago dice qualcosa, ma non posso più sentirlo ora, né vederlo. Sto scivolando lentamente nel nulla. Sto tornando indietro... da dove sono giunto.

    Dal buio. Dal silenzio.

    Capitolo I - Il Cacciatore

    1

    Il ridondante, fastidioso dialogare dei grilli mi strappa al sonno. Ho chiuso gli occhi quando era notte. Ora, riaprendoli, vedo la tiepida luce del crepuscolo spegnersi gradualmente, rivelando le stelle che si nascondevano nel cielo, in attesa del buio.

    Non ho più freddo. Qualcuno mi ha vestito con una giacca di cuoio.

    Sono in una prateria. L’erba giallognola sembra estendersi all’infinito attorno a me. Mi sento sperduto, solo. Ma non lo sono davvero.

    A sinistra, non molto lontano, l’uomo-drago che mi ha salvato la vita scruta pensieroso il sole che muore. L’altro, il mago, sta armeggiando con un curioso oggetto sferico. È trasparente, come se fosse di vetro, la superficie è crepata ed è ricoperta di escrescenze appuntite, simili a cristalli. Qualcosa di luminoso, al suo interno, si agita furiosamente, come se cercasse di liberarsi.

    Mi metto a sedere, e loro se ne accorgono. L’uomo-drago sembra sbuffare, inizia a camminare svogliatamente verso di me. Il mago ripone con fare circospetto quella strana sfera in una sacca, e si accinge a raggiungere il compagno. Le loro ombre li precedono.

    Cerco di muovere la gamba destra, per alzarmi, ma non ci riesco. Fa male, troppo male, questa volta.

    Guardo, e scopro che la ferita ha fatto infezione. Una vera sfortuna.

    Il mago si accovaccia accanto a me. «Non ti muovere ragazzo» piega il pollice della destra e avvicina la mano alla ferita. Una luce bianca, brillante, emana dal suo palmo. Il colore violaceo che attorniava il punto in cui la dannata scheggia di legno ha scavato nella mia carne inizia a sfumare, scomparire. Pochi secondi, e del taglio non resta che una cicatrice.

    Sposto il mio sguardo dalla gamba miracolosamente guarita all’incantatore. Mormoro un ringraziamento, e lui annuisce sorridendomi. Ha occhi scuri, spiragli perennemente socchiusi. Occhi di uno studioso, occhi saggi. Non ha capelli, solo un accenno di barba sul mento decora un volto scavato dai primi araldi della vecchiaia. Veste una tunica verde, ricamata d'oro. Un lungo cappuccio pende sulle spalle.

    «Cosa mi è successo? Per quanto tempo ho dormito?» domando con voce stanca.

    «Ti ho trasportato lontano da quell’inferno, e per più di due giorni sei rimasto a riposare» risponde l’uomo-drago con malcelato risentimento.

    «Non badare a lui, figliolo, è scontroso per natura. Non è esattamente il tipo con cui vorrei discorrere bevendo qualche boccale, non so se mi spiego.»

    Non dico nulla, mi limito a guardarlo.

    «Mh, mi rammarico nel constatare che neanche tu sia molto socievole. Pace, confermo comunque quanto ha detto Arishor. Ti sei fatto una bella dormita, e in fin dei conti è del tutto comprensibile. Difendersi da una decina di malintenzionati armati e uscirne praticamente illesi non è un’impresa di poco conto.»

    «Non eccedere con le lodi, mago, potresti invece...»

    «E tu non eccedere con il parlare, draik, potresti turbare più d'un orecchio altrui. Inoltre ci tengo a rimembrarti che non mi chiamo mago ma Marcus. Son perfino parole simili, sforzati di cambiare qualche lettera e te ne sarò infinitamente grato.»

    Draik. Ha definito l’uomo-drago un draik. Mi è familiare, ma non riesco a capirne il perché.

    Mi intrometto in questo ridicolo scambio di battute. «Cos’è un draik, se mi è permesso chiedere?»

    Marcus, il mago, così si chiama se ho udito il giusto, alza un sopracciglio, mi guarda come se fossi un idiota. Arishor, l’uomo-drago, il draik, non prende molto bene la mia domanda. No, niente affatto.

    Un grugnito irritato conferma la mia ipotesi.

    «Bé... devo dire che sono sorpreso da questa domanda. Sono abbastanza conosciuti qui, nel Leglen, anche se non godono di una grande fama.»

    Leglen. Un altro nome che provoca in me quella frustrante sensazione di essere sul punto di toccare qualcosa, ma di non riuscire ad afferrarlo.

    «Vivono a nord, oltre le montagne. Raramente se ne vedono da queste parti, e tutto considerato hanno i loro buoni motivi per tenersene alla larga.»

    Il draik continua a guardarmi come se volesse uccidermi. Che guardi pure, se tanto gli aggrada.

    C’è qualcosa che non va, in me, ma non riesco a capire cosa. La voce di Marcus si frappone nuovamente al caotico fluire del mio pensiero. «Domando perdono, quasi dimenticavo di presentarmi. Il mio nome è Marcus Vald, maestro incantatore presso l’Accademia di Coldstone. Questi invece è Arishor, onorevole Fiamma Sacra al servizio di Kalexion, il drago bianco che protegge queste terre.»

    Parla come se quanto mi stesse esponendo fosse qualcosa di scontato, ma non è così... non per me almeno. Non so di cosa diavolo stia parlando.

    «Chi sei tu, invece, ragazzo taciturno? Qual è il tuo nome?»

    È una domanda semplice, banale. È questa domanda a farmi capire il perché del mio malessere, della confusione che vortica nella mia testa. Non la domanda in sé, invero, ma la mia incapacità di rispondere ad essa.

    Non so il mio nome. Non so chi sono. Guardo dietro di me, e non vedo nulla. Se cerco di scorgere qualcosa, oltre il momento in cui mi sono risvegliato in quella casa immersa nel fuoco, trovo soltanto le tenebre. Taccio quindi, perché non ho una storia, non ho una risposta.

    Non ho un nome. Non sono nessuno.

    2

    «Sono rammaricato, figliolo, ma non posso esserti di aiuto. Curare il corpo è una pratica semplice perfino per il più incapace degli incantatori, ma risanare la mente è un’impresa anche per il più dotto dei maestri.»

    «Mago, prestami orecchio per un istante. Io dico che è stato lui a fare questo.»

    «Non vedo perché dovesse privarlo della memoria, considerato il fatto che voleva ucciderlo. Probabilmente gli è cascato qualcosa in testa, mentre era intrappolato in quella catapecchia, e ciò gli ha causato l’amnesia.»

    «Se qualcosa lo avesse colpito, là dentro, non ne sarebbe di certo uscito vivo per poi uccidere dieci uomini. E in ogni caso non ha ferite alla testa. Le tue supposizioni non sono quelle di un sapiente, ma di uno stupido. È ovvio che volesse qualcosa da quest’uomo. È il motivo per cui lo abbiamo portato con noi, o sbaglio?»

    Marcus riflette per alcuni istanti, prima di rispondere al draik. Nella sua voce vi è una macchia di umiliazione, una resa non voluta. «Detesto ammetterlo, ma potresti aver ragione, questa volta. Ragazzo senza nome, credo che...»

    «È stata quella cosa, la Figura Nera, a rubarmi i ricordi?»

    «Sì... la Figura Nera, come la chiami tu. Io e Arishor le stavamo dando la caccia da settimane. Speravamo di fermarla prima che uccidesse di nuovo» stringe le mani in pugni, volge il capo verso la terra. «Mi dispiace, non ci siamo riusciti.»

    Non credo che possa immaginare quanto dispiaccia a me. «Che cos’è quell’essere, e perché lo stavate braccando?».

    «Un nekur» mi informa Arishor. «Una creatura non-morta dotata di capacità magiche. Ha devastato un villaggio di contadini, poco lontano dalla città del mago. Questi ha iniziato ad inseguirlo, ma nel farlo lo ha spinto qui, al confine della mia terra. È giunto lontano, sulle montagne che separano il Velendrà dai domini degli umani. Velendon ha voluto che lo trovassi. L’ho affrontato, l’ho costretto a tornare indietro, ma non è stato facile.»

    Il draik si tocca la base del collo, e il suo sguardo diviene lo specchio del rancore. Noto una profonda, orribile cicatrice, che probabilmente continua a segnare il suo corpo al di sotto dell'armatura.

    Marcus recupera la narrazione dove Arishor l’ha interrotta. «Allora ci siamo incontrati, gli ho esposto la situazione in cui ci trovavamo, e dopo averlo convinto di quanto quella creatura fosse pericolosa non solo per gli uomini, ma anche per i draik, ci siamo uniti nella sua ricerca.»

    «Continuo a chiedermi perché ti stia aiutando. Sono gli umani che stanno morendo, non la mia gente.»

    «Forse ti è rimasto ancora un minimo di buon senso. Il tuo ordine esorta la difesa dei deboli e degli indifesi, come molti altre stupide congreghe di cavalieri o sacerdoti. Credevo che la fortezza degli ideali, tuttavia, fosse ben più presente nei draik, che non negli uomini.»

    «Il mio ordine mi impone di aiutare il mio popolo, non di fare la carità ai bastardi che volevano privarci della nostra terra e che per anni ci hanno uccisi come se fossimo animali.»

    «Sono passati secoli dalla Lunga Guerra, non vi è motivo di tenere accesi vecchi rancori.»

    «Oh, io dico di sì, mago.»

    Il loro costante attaccarsi verbalmente mi annoia, terribilmente. Non mi interessa nulla dei draik, né degli uomini, e delle loro guerre mi importa ancora meno. Il nekur, la Figura Nera., solo di lei mi importa.

    Devo trovarla. Lei mi ha rubato la memoria, lei me la renderà.

    E poi la ucciderò.

    «Verrò con voi» mi alzo in piedi, finalmente padrone di un corpo non vessato dalla stanchezza o tormentato dalle ferite. «Il vostro mostro mi ha privato della mia vita, e io me la riprenderò.»

    Arishor si avvicina, un’espressione truce incisa nel volto. «I tuoi ricordi perduti non sono affar nostro. Sono totalmente estranei alla nostra missione. E io non ti voglio in mezzo ai piedi, non mi piaci. Non ti abbiamo chiesto di venire con noi, perciò...».

    Il suo eloquio muore quando il mio pugno si schianta sul suo muso di drago. Cade in ginocchio, sputa sangue a terra.

    «Non ho chiesto il permesso, a nessuno dei due» guardo Marcus, gli parlo con gli occhi. Gli intimo in silenzio di non cercare di fermarmi.

    Sono grato ad entrambi per avermi salvato, ma so che a loro importa di me quanto a me importa di loro. Nulla.

    Mi hanno portato via da quel rogo di morte spronati dal desiderio di capire cosa cercasse in me la loro preda. Non per solidarietà, ma per puro interesse personale. Hanno capito che non possono trarre alcuna conoscenza da me, e intendono lasciarmi indietro.

    «Mi avete salvato la vita. Io in cambio vi aiuterò a scovare quella cosa.»

    «E intendi aiutarci in questo modo?» mi chiede Arishor levando al cielo la faccia tumefatta.

    «Hai calpestato la mia dignità, facendo della situazione in cui mi trovo un semplice effetto collaterale, immeritevole di qualsivoglia considerazione. Lo hai voluto tu, draik. Vi coprirò le spalle, combatterò al vostro fianco. Non ricordo nulla, non so molto. Ma so uccidere.»

    «Molto bene» annuncia Marcus titubante. «Affare fatto allora, cercheremo il nekur, insieme. Non c'è bisogno di combatterci a vicenda. Abbiamo lo stesso obiettivo, no?»

    Mi dà alcune pacche sulla schiena, per raffreddare la situazione. Ha paura di me.

    Ho fatto capire al draik che non mi faccio schiacciare da nessuno. Ora gli farò capire che ci si può anche fidare di me. Gli porgo una mano, per aiutarlo a rimettersi in piedi. Lui la guarda, credo che non accetterà il mio timido segno di pace. Non è così.

    Si alza, lentamente. Posso guardarlo negli occhi, adesso.

    «Non chiamarmi umano. Non è il mio nome. Non ho un nome. Le parole possono ferire. Impara a dosarle, e a sceglierle bene, draik. E possibilmente fallo in fretta.»

    3

    Procedo tra gli alberi che si ergono a nord, oltre la radura dove mi sono risvegliato. Ho visto il sole sorgere, dopo tanto tempo. Ha tinto il cielo, emergendo da est, pennellate di fuoco su uno sfondo di ombra. È stato bello.

    Nel cuore della notte abbiamo iniziato il nostro viaggio. Marcus dice che ci servono dei cavalli, che non possiamo sperare di raggiungere il nekur con il solo ausilio dei nostri piedi. Lui e il draik sono convinti che cercherà nuovamente di oltrepassare le montagne, gli Artigli Bianchi. Il mago sostiene di percepire i residui del suo passaggio, che per lui sono evidenti quanto l’olezzo di feci sotto un tavolo durante un banchetto. Il paragone rende l’idea. Spero che dica il vero, voglio fidarmi.

    Laggiù, non troppo lontano da qui, vedo la boscaglia diradarsi. Poco più in là, dovrebbe esserci la locanda nota come Foglia Secca. Un brutto nome, davvero.

    «Mago, cosa ti fa credere che là troveremo delle cavalcature?»

    «Il fatto che le abbia viste, ovviamente. Sono certo che l’onesto signore che gestisce quel grazioso ritrovo di viaggiatori accetterà di buon grado di servire il regno, cedendoci tre dei suoi cavalli.»

    «Non credo che sarà tanto entusiasta di questo.»

    «Amico mio, sii ottimista, il Destino trova sempre un modo per favorire chi è disposto a credere in un domani migliore.»

    «Se avremo dei cavalli domani, ormai il nekur sarà troppo lontano perché noi possiamo fermarlo. Ci servono subito, i dannati cavalli.»

    «Oh... quanto sei ottuso draik, possibile che tu debba prendere alla lettera tutto quello che dico? Avremo i cavalli, abbi fede!»

    Non credo che avremo i cavalli, no, niente affatto. Ho un brutto presentimento al riguardo.

    Dieci monete. Mi ha promesso dieci monete.

    Gli uomini sono avidi, egocentrici. Avere fede è inutile. Credere in un atto di generosità da uno sconosciuto verso uno sconosciuto è sciocco. Forse mi sbaglio, e mi auguro che sia così.

    Questa notte, mentre attraversavo l’oscurità, ho avuto occasione di pensare. Me ne rammarico, avrei preferito non farlo. Ho constatato di ricordare cosa sia il cielo, cosa siano le stelle, di cosa sia costituita una casa oppure un castello, la differenza tra luce e ombra, tra vita e morte. Rammento tutto, tranne una cosa. La più importante. Il mio passato.

    Che cosa abbia fatto, che cosa mi sia accaduto, se abbia amici, se provi amore per una donna, quali siano i volti dei miei genitori, o dove io viva, non mi è dato saperlo. No.

    Non mi è dato sapere nulla.

    Cammino lungo una strada senza conoscerne la destinazione, senza ricordare i posti che ho visitato, le persone che ho incontrato. La mia è una via buia, irreale, avvolta da una nebbia che mi preclude ogni cosa, ogni orizzonte. Sono carne priva di spirito.

    Non ho uno scopo, né una vera ragione per andare avanti. Mi sono stati portati via.

    Qualcuno voleva che fosse così. Ha scelto accuratamente cosa prendere e cosa lasciare. Quella cosa morta, vestita di stoffe stracciate e intrisa di male, si è appropriata della mia personalità, lasciandomi solitudine e troppe domande prive di risposte. Sono stato gettato in un limbo grigio, spogliato del mio passato.

    Manca qualcosa.

    Sono un contenitore vuoto. Sono incompleto.

    4

    Siamo arrivati, finalmente. Dall’altra parte di una strada appena delineata nel paesaggio boscoso, v'è la Foglia Secca. Una costruzione di legno discretamente ampia, sormontata da un fumante camino di pietra. Fatiscente, sporco. Questo posto non mi piace.

    Sento il caotico vociare degli avventori, scorgo qualche sagoma muoversi dietro le larghe imposte chiuse. Una porta, sulla destra. Sopra di essa, un’insegna declama il nome della locanda. Un pessimo artista ha scarabocchiato una foglia, giusto sotto la scritta, verde mischiato al marrone, mischiato a sua volta al rosso. Un infante avrebbe saputo fare di meglio.

    A sinistra, quattro pali di legno sorreggono un’instabile tettoia spiovente. Là sotto tre cavalli si contendono famelici gli ultimi residui di fieno. Le mangiatoie sono praticamente vuote.

    «Cavalli, ve lo avevo detto che c’erano cavalli qui! Esattamente tre, per di più!»

    «Cavalli non nostri» gli dico. «Inutili quindi, almeno per il momento.».

    Oltrepassiamo la strada. Spingo la porta d’ingresso, si spalanca con un cigolio che pare un pianto.

    Un bancone, davanti a me. Dietro di esso un corpulento garzone sta pulendo alcuni boccali sporchi con uno straccio. Posate e piatti luridi, accatastati lì accanto, attendono il medesimo trattamento. I suoi occhi osservano annoiati i clienti, occupati a ridere, a bere. E a sporcare. Vorrebbe essere al loro posto, ne sono sicuro.

    Alza lo sguardo, interseca la mia figura, in attesa sulla soglia, a quattro passi da lui. Dal tediato, la sua espressione volge al preoccupato. Molto preoccupato.

    Getta il boccale sotto il bancone, si volta verso una porta socchiusa, dietro di lui. Infilata goffamente la testa nello stretto spiraglio, lo sento interloquire con qualcuno. Un vecchio probabilmente. La voce roca, catarrosa, sbraita parole che suonano come maledizioni.

    A destra, dove, più o meno ordinatamente, sono disposti tavoli e sedie ad ospitare i grassi deretani di contadini e taglialegna, le persone hanno smesso di ridere e di bere. Tacciono, e mi guardano. Quando ricambio l’attenzione, iniziano ad ammirare il pavimento tappezzato di briciole e lordura. Queste persone mi conoscono. Loro sanno chi sono.

    «Ehi! Tu!» un vecchio gobbo emerge dalla porta dove un istante fa confabulava nervosamente il lavapiatti, che ora si nasconde terrorizzato dietro di lui. Curioso.

    Poche ciocche di capelli grigiastri e unti pendono ai lati della testa del vegliardo. L’enorme naso è ornato da una disgustosa pustola nera. Dalle orbite incavate, piccoli occhi di topo mi osservano, prudenti e aggressivi in un tempo.

    «Non sperare di riscuotere neanche una mezza monete da me... non oggi. Non è un buon periodo, e i clienti sono pochi. Non posso pagarti, mi hai sentito?»

    I clienti sono pochi.

    Non vedo neanche un tavolo vuoto, qua dentro. Ma non importa. Dice che non può pagarmi. Per quale motivo dovrebbe pagarmi?

    «Non so di cosa tu stia parlando, vecchio.»

    «Come osi, insolente idiota! Mi chiamo ancora Frank, benché tu non ti faccia vivo da quasi una luna, da queste parti!»

    «Per che cosa devi pagarmi?»

    Crede che mi stia prendendo gioco di lui. «Hai forse battuto la testa contro un tronco inseguendo un cervo? Ti devo dieci monete d’oro per quei cinghiali. E anche venti d’argento, per i piccioni che mi avevi rifilato due mesi addietro. Ma erano... erano magri, troppo magri, come posso cucinare se mi porti animali pelle e ossa? E pretende persino d’essere pagato, è qualcosa che ha dell’incredibile!»

    «Tu...»

    «Stammi a sentire, Cacciatore, non ho tempo da...»

    Cacciatore. Mi ha chiamato Cacciatore.

    La mia testa... fa male, è come se qualcosa di vivo stesse scavando al suo interno. Delle immagini scorrono davanti ai miei occhi, accompagnate da suoni riecheggianti. Sono pezzi della mia vita. Quello che ero prima.

    Il Cacciatore.

    5

    Sono appostato dietro ad una quercia. La corteccia odora di muschio e di terra umida. Sento le foglie spezzarsi, un respiro ansimante. La mia preda è vicina.

    Mi acquatto, per nascondermi meglio ai suoi sensi. Ho un arco, la corda è tesa. La freccia è pronta ad uccidere.

    Non deve vedermi, non deve sapere ciò che l’aspetta. È da ore che la inseguo, e sono sfinito. La luce sta abbandonando il mondo, anche oggi. Devo tornare indietro prima che giunga la notte, non sopravvivrò al freddo.

    Eccola, posso vederla, laggiù in fondo. È un alce, la creatura che ucciderò prima che il sole tramonti. Si guarda attorno, è quieto. Non sa.

    Avanza, in mezzo ai pini. È goffo, lento, e come me è stanco. Troppo stanco.

    Aspetto, ancora qualche istante. Si avvicina sempre di più alla sua fine, ma non può saperlo.

    Esco dal mio nascondiglio, prendo la mira. Un solo colpo, scapperà, se fallisco. Questa è la mia ultima occasione. Lascio andare la presa sulla corda. La freccia, messaggera di morte, inizia il suo breve viaggio con uno schiocco secco, che sembra propagarsi in eterno nell’aria, senza finire mai. La punta di ferro penetra nella gola dell’animale. Qualcosa tocca la mia anima, un brivido percorre il braccio teso.

    Un verso inarticolato, di disperata agonia. Le zampe cedono, e l’alce cade a terra.

    Mi batte il cuore, anche se ora è tutto finito. Sono triste, anche se ce l’ho fatta.

    Mi inginocchio accanto all’animale morente. Pena, dispiacere, ecco cosa provo per questa povera creatura. Ho dovuto prendermi la sua vita, affinché la mia potesse continuare. Per sopravvivere.

    Al contrario non provo pena per gli uomini, né dispiacere. Mi disgustano, perlopiù.

    Strano.

    Afferro l’accetta agganciata alla mia cintura. L’alce sta soffrendo. Non merita il dolore. È un fardello da cui intendo sollevarlo. Sono un cacciatore, non un assassino.

    Lascio cadere la lama. Adesso la mia preda è libera. Io non lo sono. Sembra che ad ogni vita che prendo la mia anima si sgretoli, sempre di più.

    È inevitabile. Alla fine il Cacciatore diverrà la più vulnerabile delle prede.

    6

    Distolgo la mente da questa fugace, piccola rivelazione. Per la prima volta ho avuto un contatto con l’altro me, quello che ero prima che la memoria mi venisse sottratta. Mi ha parlato di sé, e, seppur per un lasso di tempo troppo breve, mi ha raccontato le sue emozioni, i suoi desideri, le sue paure. Per un istante ho potuto toccarli. E quando l’ho fatto, il mio tatto non ha incontrato qualcosa di familiare, di noto, ma di completamente estraneo.

    Forse è questo vuoto a rendermi così freddo e lontano da quell’uomo che sono, che dovrei essere.

    Forse.

    Era solo un frammento, non l’opera intera. Quando la vedrò di nuovo, saprò chi sono davvero, e in essa mi rispecchierò completamente. Sì, non può essere altrimenti.

    Cacciatore... non è un nome.

    Il vecchio idiota continua a sputare scuse e veleno, e io continuo ad ignorarlo, come farei con un rumore fastidioso.

    Perché mi chiama il Cacciatore? Perché un titolo e non un nome?

    «Mi hai chiamato Cacciatore» erompo, alzando la voce. «Perché non chiamarmi per nome?»

    «Semplice, grosso imbecille, perché non me lo hai mai detto! Non che ad altri tu lo abbia rivelato, per quanto ne sappia. Vai in giro, ammazzi bestie, e cerchi qualche povero disgraziato che te le compri, questo è quanto si sa di te. Ti sei forse dimenticato il tuo nome, eh?»

    Ride. Mi dà fastidio, molto fastidio. Anche se non lo sa, ha appena detto il vero.

    Celavo a tutti il mio nome. Interessante, anche se poco conveniente.

    Quest’uomo non può dirmi altro, non ha ciò che cerco, non posso fargliene una colpa, dopotutto. Tuttavia, può ancora essermi utile. Perché è in debito con me.

    Appoggio le mani sul bancone, mi sporgo verso di lui.

    Ha un odore vomitevole.

    Alla mia sinistra posso sentire il peso dei molti occhi intenti a guardarmi. Una corrente fredda sopraggiunge alle mie spalle, dalla porta aperta.

    «Ti ho reso un servizio, vecchio, e pretendo di essere pagato per questo.»

    «Si chiama Frank!» balbetta il lavapiatti con la faccia da babbeo, tra il furente e il terrorizzato.

    «Taci Robert, non intrometterti in affari che non ti riguardano. Come ti ho già detto almeno una decina di volte, non posso pagarti! Vuoi capire che...»

    Tiro un pugno sul bancone. Un suono che uccide ogni altro suono.

    Aspetto. Questo rudere umano non ha paura di me, ma ne avrà.

    «Le tue argomentazioni per me valgono meno di niente. Grazie al sottoscritto hai qualcosa da cucinare, e ciò ti permette di ricavare qualche moneta da questa topaia maleodorante. Non accetterò un no, non questa volta.»

    «Ma... ma diavolo! Non ho soldi, non...»

    «Ho mai detto di volere soldi da te?»

    «Cosa... ah, molto bene, molto bene» la comprensione è accompagnata da un ghigno sdentato. «Che cosa vorresti allora, Cacciatore? Ti darò qualsiasi cosa possegga, entro i limiti del ragionevole, ben inteso, e che non siano soldi!»

    «Un pasto corposo, per me e i miei compagni di viaggio. E tutti i tuoi cavalli.»

    Il suo sgradevole sorriso muore con la stessa velocità con cui è nato.

    «Sei forse impazzito? Ti pare una richiesta ragionevole?»

    «Assolutamente.»

    Mi avvio verso i tavoli, invito Arishor e Marcus a seguirmi con un cenno. Il mago è stupito, forse imbarazzato. Si vergogna di essere indirettamente partecipe di quello che probabilmente considera un atto prevaricante.

    Non mi importa.

    Subito un guercio con i capelli lunghi fino al fondoschiena si alza, inciampando nella sedia su cui giaceva. Arranca nel tentativo di rialzarsi e poi corre a perdifiato verso la porta aperta. Mi ha ceduto il posto. Approfitto volentieri della cortesia.

    «Affrettati a sfamarmi, Frank. Sono stanco, spossato. Alcuni si lamentano di quanto sia faticoso tagliare alberi, altri di come sia impegnativo coltivare la terra. Ma sono fortunati. Probabilmente non hanno mai discusso con un idiota.»

    7

    «Ragazzo taciturno... Cacciatore, posso chiamarti così, vero?»

    «Come ti aggrada, Marcus.»

    «Non credi di... essere stato un poco brusco con quel povero vecchio? Diciamo che... insomma, potevi evitare di spaventarlo in tal modo» l’incantatore taglia lentamente un pezzo di carne, e se lo porta alla bocca. «Questo è solo un parere, ovviamente.»

    «Abbi la decenza di tacere, mago, non mi sembra che il frutto del suo agire ti dispiaccia tanto. Sei un ipocrita» sentenzia Arishor.

    «Non si parla mentre si è impegnati a masticare, draik, e questa semplice regola, per te, vale ancora di più. Cela ai miei occhi l’arrosto che hai appena trangugiato in un solo boccone, te ne prego. Mi fai passare l’appetito. Comunque, Cacciatore...»

    «Il draik ha parlato per me. Continua a mangiare Marcus.»

    Mi lancia uno sguardo contrariato, ma non tarda a fare quanto gli ho detto.

    Gli altri, attorno a noi, hanno ripreso a parlare, benché sussurrando. Frank è ancora lì, dietro al bancone. Sta conversando con Robert, suo figlio immagino, e una donna bassa e incredibilmente grassa. Ha lo stesso naso di Robert, e la stessa ottusità incastonata negli occhi. Credo sia la consorte del vecchio, e la madre del lavapiatti. Indossa un grembiule sporco di sughi e spezie. È la cuoca. Ha preparato lei il cibo che ho mangiato. Mi viene da vomitare.

    Sono agitati, irati, e assai preoccupati. Conto che stiano pianificando un modo per evitare che io riscuota il mio pagamento. Si stanno ingegnando inutilmente. Quando i miei commensali avranno finito di sfamarsi intendo prendere quei cavalli, che lo vogliano o no.

    Rumore di molte cavalcature al galoppo. Arriva da fuori. Si sono fermate davanti alla locanda.

    Non molto dopo, i cavalieri fanno il loro ingresso nella Foglia Secca. Otto uomini in armatura d’acciaio, le teste protette da celate. Il nono ha il volto scoperto. Occhi del colore del cielo, barba curata, sguardo autoritario, portamento elegante. Si distingue dal volgo e da esso vuole evidentemente mantenere le distanze.

    Dice qualcosa a Frank, ma non riesco a sentirlo. Pochi secondi dopo, il vecchio spalanca la bocca in un’espressione di estasiato stupore. Alza il braccio, puntando poi un indice nodoso qui, dove sono io.

    Maledetto figlio di puttana.

    «Eccolo! Eccolo! Il Cacciatore, mio signore, laggiù!»

    Il cavaliere si gira verso di me. Getta con noncuranza una moneta d’oro verso il locandiere. Il vecchio si getta a terra, come un cane con l’osso. Gli avventori della Foglia Secca si alzano, si affrettano verso l’uscita strisciando lungo le pareti.

    I cavalieri vengono verso di noi.

    «Per Ados, cosa diavolo vogliono costoro?»

    «Non tremare mago... preparati a combattere.»

    Il draik approccia la mano destra alla sua arma, una strana spada dalla lama ricurva, con sinuose sagome di fiamme ad inciderne la superficie.

    Loro sono nove, sono meglio armati di noi, sono più di noi. Non abbiamo via di fuga. Combattere equivarrebbe a morire, questa volta.

    «Fermati Arishor, non possiamo prevalere.»

    «Hai perso l’audacia Cacciatore? Riesci ad affrontare unicamente vecchi storpi?»

    «Capisco quando è possibile vincere e quando non lo è, a tua differenza. Non toccare quell’arma, o ci farai uccidere.»

    Ringhia seccato, ma non prosegue nel suo intento. Molto bene.

    «Cacciatore, il mio nome è Charles River. Sono qui per volontà di lord Bywen, e per sua volontà devi venire con noi.»

    Lord Bywen. Non ho idea di chi sia.

    «Per quale motivo, se mi è permesso chiedere?»

    «Non ti è permesso. Verrai con noi?»

    «Ho forse scelta?»

    «No.»

    Tocca l’elsa della spada, per ora riposta nel fodero. Un gesto eloquente.

    Mi alzo, e due dei tirapiedi di ser River mi afferrano per le braccia. La loro presa è salda, ma non abbastanza da vincolarmi. Per il momento lascio che si illudano del contrario.

    «Anche voi due, muovetevi» intima ai miei compagni.

    «Cosa? Ma noi non abbiamo fatto alcunché, ser!» esclama Marcus.

    «Siete con lui, e di conseguenza ho ragione di credere che siate coinvolti in quello che è accaduto.»

    Quello che è accaduto.

    Sono convinti che sia il fautore di un qualche crimine, ma si sbagliano. Non ho fatto nulla.

    Vengo spinto, oltre i tavoli ricoperti di piatti lasciati a metà e boccali ancora ricolmi di birra, oltre le sedie scomposte. Guardo Frank, prima che mi portino fuori da questo schifo di posto. Sogghigna compiaciuto. Te l’ho fatta questo mi sta dicendo con quegli occhi di infido roditore.

    È vero. Me l’ha fatta. Vecchio bastardo.

    Nove cavalcature decorate e protette da bardature di maglia metallica attendono i loro cavalieri. Dai fianchi pendono delle stoffe raffiguranti la testa di un uccello. Un falco, o forse un corvo. Un cacciatore, o forse un mangiatore di carogne.

    Altri tre cavalli, privi di addobbi, brucano lontani dal resto del gruppo. Mi viene ordinato di montare su uno di essi. Obbedisco. Altrettanto viene fatto con i miei compagni.

    Ci legano le mani dietro la schiena. Siamo prigionieri di questo lord Bywen. Ser River si è ben guardato dal dircelo esplicitamente. Vigliacco.

    I cavalieri partono al galoppo, e con un fischio le nostre cavalcature iniziano a seguirli. Cerco di fermare la mia calciandole i fianchi, ma non ottengo altro che versi doloranti. Stiamo percorrendo la strada nella direzione opposta rispetto a quella in cui dovremmo andare.

    Ogni secondo che passa la Figura Nera si allontana sempre di più. Questa faccenda mi sta facendo perdere tempo. Non mi piace.

    Frank, ser River, lord Bywen.Possa la Morte portarseli dall'Altra Parte, tutti loro.

    8

    «Cacciatore, in che razza di situazione ci hai trascinati?»

    Una domanda inutile a cui non intendo rispondere. Il draik conosce la condizione particolare in cui giace la mia mente, se è dotato di un poco di intelletto saprà trovare da solo una risposta.

    Da ore stiamo percorrendo questa strada, e non ho ancora idea di dove siamo diretti. Marcus è convinto che ci stiano portando a Mistlook, la capitale di questa regione, il Leglen, ma io non ne sono sicuro. A detta del mago servono almeno quattro giorni per raggiungerla. I cavalieri di lord Bywen non hanno provviste per un viaggio di tale durata. Non ne hanno proprio invero.

    Alberi. Ovunque mi giri riesco solo a vedere maledettissimi alberi.

    «Perdonate, nobilissimi signori, ma ho urgente bisogno di dare di corpo» annuncia Marcus. «Potreste essere così gentili da interrompere la vostra corsa per qualche minuto?».

    «Desolato, ser, ma dovrai attendere ancora alcune ore. Non ci fermeremo» risponde ser River.

    Gli altri cavalieri ridono.

    Guardo il mago. Lui ricambia, strizzandomi l’occhio. Astuto, benché ridicolo. Ora sappiamo con certezza che la nostra destinazione non è molto lontana. Ancora alcune ore. Una vera seccatura.

    Improvvisamente i cavalli svoltano a sinistra, in direzione nord. Abbandonano la strada, addentrandosi in mezzo ad una boscaglia non così fitta, facilmente percorribile da un cavaliere abbastanza attento. Curioso.

    Il luogo dove stiamo recandoci non è congiunto agli altri centri di civiltà da strade. È isolato, nascosto.

    I destrieri, spronati dai loro cavalieri, aumentano la velocità. La luce del sole mi colpisce gli occhi a intermittenza, costantemente reclusa e liberata dalle foglie che scorrono sopra di me.

    Ora posso vedere un colle, laggiù, davanti a noi. Sulla sua sommità torreggia una struttura strana. È ancora lontana, ma posso vedere chiaramente come la copertura tenda verso l’alto, divenendo sempre più sottile, sempre più appuntita.

    Marcus stringe gli occhi, osserva per alcuni istanti l’insolita costruzione. Alla fine il suo volto si illumina di desolata comprensione.

    «Cosa c’è?» gli chiedo io.

    «La Lancia» sussurra. «Ci stanno portando alla Lancia. Sciocco me, avrei dovuto pensarci prima.»

    «Perché ti preoccupa tanto?»

    «Quel posto è preceduto dalla sua fama. Racconti orribili circolano al riguardo. Torture, esecuzioni, esperimenti inumani... la Lancia è stata teatro delle peggiori scelleratezze. I suoi padroni non sono mai stati individui... mentalmente stabili. Tipi lunatici, eccentrici... oh, al diavolo, gente totalmente fuori di testa. Si dice che il conte Dorwood rapisse le povere genti del posto e provasse un insano piacere nel sottoporle ad innominabili vessazioni. Poi vi è Lantoy, uno dei più pericolosi negromanti che abbiano mai calpestato il suolo del Keltar. Alla Lancia ha iniziato a praticare la sua oscura arte, ridestando cadaveri dal sonno della morte... trasformando corpi esanimi in mostri orribili. La Lancia esercita un’influenza negativa su coloro che vi abitano, si nutre del male e ne è essa stessa una fonte inesauribile. Mi auguro che questo lord Bywen abbia spezzato tale tradizione, altrimenti non usciremo vivi da lì.»

    «Una sciocca superstizione, niente di più» dico questo, ma non è ciò che penso davvero.

    Le parole hanno un grande potere. Posso rendere le idee molli come metallo fuso e forgiarle secondo la volontà del loro padrone. Che esse siano portatrici del vero o meno non fa differenza. E la storia del mago, che sia vera oppure no, ha piantato in me il seme del dubbio.

    Se il nostro nemico è un pazzo furioso, districarsi da questa spiacevole circostanza potrebbe essere più difficile del previsto.

    Potrebbe non essere possibile.

    9

    Eccola. La Lancia, o il simulacro del maligno, come più volte l’ha definita il mago. Stiamo percorrendo lo stretto sentiero che si arrampica sulla collina e termina la sua scalata sulla cima, dove la Lancia aspetta. Dove lord Bywen aspetta.

    L’edificio ha una massiccia, solida base quadrata in pietra, e si alza per quattro piani. La facciata è rivestita di marmo, e nei due piani centrali si aprono ad intervalli regolari coppie di finestre ad arco. Al centro del quarto piano vi è una terrazza incredibilmente ampia, sorretta da uno strana escrescenza cristallina. Qualcosa di innaturale, forse frutto della magia. Sulla sommità della struttura emerge l’enorme punta, perfettamente levigata, che dà il nome al maniero. Una breve scalinata conduce all’ingresso, un portone d’ebano adorno di rilievi dorati.

    La Lancia è affiancata da due capannoni di legno. Stalle, o dispense, forse entrambe. Un basso recinto di pietra circonda gli edifici. Spettrali globi di luce azzurra danzano placidamente sopra bracieri sparsi in tutta la proprietà. Fonti di luce, anche queste derivate dalla magia. Un mago ha contribuito alla costruzione di questo posto. Mi chiedo se sia ancora qui.

    Ci fermiamo in prossimità di uno dei capannoni. Ser River mi tira giù dal cavallo con uno strattone, senza troppe cerimonie.

    Lo odio.

    «Alzati Cacciatore. È tardi, e lord Bywen non ha tempo da perdere» mi colpisce allo stomaco con un calcio. Fa male. «Feccia.»

    Non so perché questo uomo provi tanto rancore per me. Probabilmente lo scoprirò a breve.

    Ho ancora le mani legate, fatico a rialzarmi. Due uomini mi afferrano subito per le braccia, trascinandomi di peso verso il palazzo. Altrettanti sono a presidio dell’ingresso, protetti da nere armature, spade e grossi scudi a torre nelle mani. Altri uomini al servizio del lord.

    Sono dovunque. Sono troppi. Non posso oppormi a loro, non ancora. Devo aspettare.

    I miei compagni non ricevono un trattamento migliore. Marcus piagnucola, Arishor ruggisce la propria rabbia, contenuta con evidente difficoltà.

    Ser River ci conduce davanti all’ingresso della Lancia. Il sole sta tramontando, il cielo arancione presto verrà inghiottito dall’oscurità. Il portone si spalanca. Ciò che mi si para innanzi è irreale, assurdo, assolutamente impossibile.

    Quadri incorniciati nell’oro, mobili di legno pregiato, sete rosse a ricoprire le finestre e ad ornare morbidi cuscini. Arredamento di un individuo disgustosamente ricco, ma non è questo a colmarmi di stupore.

    I candelabri sono sospesi nell’aria, alcuni addirittura si muovono, quasi che godessero di vita propria. Sopra di me il soffitto di legno muta, cambia posizione, così come i gradini di marmo e le ringhiere che li delimitano. Vi sono porte che danno sul vuoto, servi che camminano tranquillamente lungo scale che si compongono sotto i loro piedi ad ogni passo. Questa potrebbe essere la visione di un pazzo, ma non lo è. È tutto reale.

    Ser River avanza, e davanti a lui accorrono gradini da tutte le direzioni, ansiosi di costruire la strada che porterà lui dal suo padrone e me al patibolo.

    Prego perché uno di essi gli cada in testa, ma le mie suppliche non vengono ascoltate.

    Una scala dritta, taglia a metà l’enorme sala in cui ci troviamo, collega direttamente l’ingresso ad una pesante porta di legno a due battenti. Su entrambi v'è incisa la testa di un volatile, lo stesso che ho visto sulle insegne portate dai cavalli che ci hanno condotti qui.

    Procedo inquieto su queste scale volanti. Ho il timore che cedano sotto il mio peso, ma non accade. La mia mole non influisce minimamente sulla loro posizione. Manca poco, presto incontrerò Bywen.

    Non ha buone intenzioni. Non mi ha fatto prelevare di peso dai suoi tirapiedi per ringraziarmi. No, no di certo.

    Non ho paura di lui. Io non ho paura di nessuno. È solo un uomo, in fondo.

    E, se necessario, un uomo può essere ucciso.

    10

    La porta si apre. Le teste di corvo mi osservano, mute e rapaci. I carcerieri che mi hanno accompagnato fino ad ora mi lasciano andare. Soltanto River viene con noi, dentro al covo di lord Bywen.

    Scelta poco accorta, tanto meglio per me.

    Entro in un ampio studio, caratterizzato da un unico elemento dominante. Libri. Sulle pareti a destra e a sinistra vi sono librerie alte il doppio di me, dove centinaia di tomi delle dimensioni più svariate prendono polvere da chissà quanto tempo. Altri giacciono a terra, alcuni aperti, altri chiusi, alcuni isolati e altri accatastati in torri dall'equilibrio precario. Un grosso tappeto è posto nel mezzo del locale, uno sfondo nero ricoperto di simboli esoterici di difficile interpretazione, almeno per me.

    Davanti a noi, seduto dietro ad un largo tavolo, anch’esso ricoperto di libri e pergamene, vi è lord Bywen. Ecco il mago, quello che ha fatto di questo posto un teatro dell’assurdo.

    Vedendoci entrare, si alza in piedi.

    È alto, ancora un paio di dita e potremmo guardarci negli occhi. Occhi. Ecco cosa più mi inquieta e incuriosisce di questo uomo.

    L’occhio sinistro

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