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Il pianista di Dio
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Il pianista di Dio
E-book207 pagine2 ore

Il pianista di Dio

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Info su questo ebook

Alex ancora non lo sa ma essere adolescenti a fine anni Ottanta ha un sapore speciale.

Per lui che ha la passione della musica e suona la tastiera, il sogno è quello di diventare un grande musicista: l'ingresso in una band sancisce il definitivo passaggio verso nuove sfide e opportunità, dove talento e volontà sembrano, a volte, non bastare.

Nel suo cammino di crescita, prima come uomo e poi come musicista, si affiderà all'amicizia, quella vera, scoprendo il piacere di donare agli altri. Quando l'amore busserà alla sua porta dovrà misurarsi con le sue paure e incertezze per trasformarle in perfette imperfezioni.

La musica, allora, da strumento di successo farà scoprire all'artista nuove prospettive e semplici ma straordinarie capacità da mettere a disposizione di chi ne ha più bisogno. Ed è a quel punto, in quel preciso momento, che capirà come la libertà di costruire il suo destino sia in realtà l'effetto di qualcosa che è già dentro di lui fin dal primo giorno in cui è venuto al mondo.

Un romanzo coinvolgente ed emozionante, ambientato in una piccola città della provincia romagnola che ripercorre gli anni più belli della musica anni Ottanta e Novanta, dal pop al rock, fino alla musica elettronica, dove i sentimenti vengono sempre per primi ed è naturale poter dire "Ti voglio bene da qui alla luna e ritorno".
LinguaItaliano
Data di uscita8 nov 2022
ISBN9791221439281
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    Anteprima del libro

    Il pianista di Dio - Lorenzo Desanti

    Tappeto bianco con inserti neri

    Salirono in auto restando in silenzio, in preda allo sconforto.

    Franco appoggiò le mani sul volante senza accendere il motore. Iniziò a pensare in quale altro negozio sarebbe potuto andare a cercare quello stramaledetto marchingegno.

    Rimase immobile per qualche secondo, poi all’improvviso ebbe come un’illuminazione e affiorarono in lui memorie che credeva di aver ormai perduto.

    Si ritrovò alla Vigilia di Natale del 1978.

    Quel giorno il piccolo Alex aveva manifestato l’intenzione di rimanere sveglio ad aspettare la mezzanotte per incontrare Babbo Natale e aprire il suo regalo.

    Qualche settimana prima, con l’aiuto di mamma Maria, aveva scritto una bella letterina dove non chiedeva un dono particolare ma un giocattolo che fosse bello, grande e divertente.

    «Così sarà una sorpresa!», aveva annunciato trionfalmente.

    Alla fine, però, stanco per la giornata trascorsa a correre in mezzo alla neve, che in quei giorni era caduta abbondante, si era addormentato sfinito sotto l’albero.

    Maria lo aveva preso in braccio e sistemato con cura sotto le coperte. Poi, come ogni sera, gli aveva stampato in fronte il bacio della buonanotte.

    I ricordi di Franco lo portarono alla mattina seguente quando Alex era sceso dal letto ancora mezzo addormentato e si era buttato giù per le scale il più rapidamente possibile per raggiungere il soggiorno.

    Franco si rivide seduto vicino al camino mentre improvvisava qualche scala con il basso. Maria invece doveva essere ai fornelli intenta a preparare il pranzo di Natale.

    La donna avendo udito quell’arrivo galoppante aveva appoggiato il pentolame e si era fatta incontro al piccolo sollevandolo da terra per abbracciarlo: «Buon Natale tesoro mio! C’è qualcosa vicino al camino con sopra scritto il tuo nome».

    «Buon Natale ma’!», aveva risposto il bambino baciandola sulla guancia.

    «Buon Natale ba’!», aveva aggiunto saltando al collo di

    Franco.

    Franco avvertì la forza di quella stretta come se quell’abbraccio lo avesse ricevuto nuovamente in quell’istante.

    Poi si rituffò nel ricordo.

    Rivide il figlio catapultarsi verso l’albero addobbato a festa che lui stesso aveva sistemato vicino al camino.

    Da lì spuntava un pacco enorme di colore rosso decorato con un fiocco azzurro.

    A quattro anni Alex non sapeva né leggere né scrivere ma sapeva riconoscere e scrivere le quattro lettere del suo nome.

    Franco rammentava di averlo aiutato a scartare l’attesa sorpresa: una pianola giocattolo con cui il bambino aveva giocato con entusiasmo per un paio d’anni fino a quando, logorata dall’uso, aveva smesso di funzionare.

    Poi il sogno ad occhi aperti si dissolse, Franco ritornò al presente, si voltò verso Alex che se ne stava con gli occhi bassi e ruppe quell’assordante silenzio: «Senti un po’, e se invece di quell’aggeggio ti regalassi una tastiera? Ti ricordi quanto adoravi la pianola che ricevesti da piccolo? Non te ne separavi mai. E poi, anche adesso non c’è giorno che non ti veda sbidonare sui secchi di vernice, con i vasi delle conserve di tua madre, con i secchi del mangime delle galline…

    Il computer non lo sai usare mentre con la tastiera magari riesci ad arrangiarti anche da solo. Con uno strumento vero ti puoi divertire e suonare tutto quello che ti pare».

    «Dì ba’, non lo so, andiamo a vedere…», poi, aggiunse

    «ma sì dài, sai che ti dico? Mi piacerebbe proprio!».

    Franco sorrise con il cuore pieno d’orgoglio; sapeva benissimo dove andare così non perse tempo, accese la macchina e si diresse verso Gambettola, un tranquillo paesino nella periferia di Cesena.

    Parcheggiarono sotto un’insegna che recitava: ‘Maestri strumenti Musicali’, uno dei negozi più forniti della zona.

    Franco era di casa lì. Aveva già comprato un paio di bassi ed era amico del proprietario, tal Duilio Maestri detto Duli. I due si salutarono con una calda e vigorosa stretta di mano, alla romagnola, e ad Alex tornò il buonumore.

    Entrambi condividevano la passione per la musica e avevano suonato in più di una band. Per la verità Franco qualche serata in giro per la Romagna se la concedeva ancora, ma solo per passione.

    Ai suoi tempi era stato il primo basso nelle ‘Orche’, un gruppo pop rock discretamente famoso che aveva nel repertorio cover di artisti del calibro di Gianni Morandi, Adriano Celentano, Jimmy Fontana, Little Tony, i Nomadi, i Dire Straits, solo per fare qualche nome, tanto che era ancora richiesto dalle band della zona.

    Scambiarono quattro chiacchiere su come se la stessero passando, poi Franco arrivò al dunque.

    «Senti Duli, stiamo cercando una tastiera elettronica per il mio Alex, qualcosa per cominciare insomma…».

    «Bene, sono proprio contento! Chissà che da questo mucchietto d’ossa non venga fuori un musicista ancora più bravo del babbo, eh?», esclamò mentre con la mano si prendeva la briga di scompigliare il caschetto biondo del ragazzino.

    «Seguitemi!».

    Alex risistemò i capelli che quell’intrusione improvvisa aveva scombinato e si accodò ai due guardandosi attorno affascinato e incuriosito. Quel negozio sembrava immenso e zeppo di strumenti sistemati un po’ dappertutto: c’erano chitarre appese ai muri, classiche ed elettroniche, percussioni, batterie, trombe, tromboni e altri arnesi di cui non conosceva il nome.

    Duilio li accompagnò in una stanza più piccola dove erano esposti diversi pianoforti e alcune tastiere. Poi si avvicinò ad una ‘Bontempi’ laccata di vernice rossa.

    «Eccoci arrivati! Se dovessi consigliare a mio figlio uno strumento per principianti lo farei sedere qui. A dire il vero ci ho provato un mare di volte a far appassionare Matteo, il più grande, alla musica. Fin da piccolo ha sempre avuto un buon orecchio ed è pure intonato. Il fatto è che non gliene frega niente né del negozio né della musica. Lui pensa solo al pallone e alle ragazze», sospirò alzando gli occhi al cielo come per chiedere aiuto.

    «Meglio lasciar perdere va’, altrimenti mi sale il nervoso; tornando a noi, questa è senz’altro un’ottima tastiera con un rapporto qualità/prezzo davvero interessante. Poi ovviamente uno sconto speciale per voi due è d’obbligo». Si portò la mano destra sul mento, rifletté un paio di secondi e poi annunciò: «Facciamo trecentomila lire? È un prezzo da amico, considerate che questa, di listino, la metto a tre e cinquanta. Sentite qua, ha delle ritmiche davvero eccezionali!», e così dicendo iniziò a smanettare svariati pulsanti che fecero partire altrettante basi prima con le percussioni, poi con i fiati e infine con gli archi.

    «Ciò ba’», esclamò Alex con meraviglia, «è stupenda! Hai sentito i violini? Sembra di essere in mezzo all’orchestra!».

    Alex non volle vedere altro. Era talmente entusiasta che pretese di acquistare proprio quella in esposizione, quella che lo aveva fatto innamorare, senza nemmeno imballarla.

    Ringraziò il babbo come aveva sempre fatto fin da piccolo: «Ti voglio bene da qui alla luna e ritorno».

    L’avrebbe suonata subito, appena arrivati a casa. E così fece quel pomeriggio, quella sera e tutti i giorni che seguirono, perfino di notte; sgattaiolava sotto il porticato e si infilava in mezzo alla legnaia che lo riparava dal freddo e attenuava il suono.

    Lì nessuno poteva infastidirlo.

    Si riteneva fortunato perché il casolare in cui abitava era circondato da quattro ettari di terra. Era stato il nonno Piero a costruirlo, nel cuore di Calisese, un paesino di quattromila anime nelle campagne cesenati, nel cuore della Romagna. Con sassi e mattoni l’aveva costruita, senza intonaco, come usava a quei tempi per le case rurali.

    Alex amava la sua casa. Era grande ma allo stesso tempo calda e confortevole.

    L’ingresso sorgeva sotto un ampio porticato rivolto ad est con il tetto spiovente sorretto da imponenti travi di rovere. All’interno dominava un enorme salone, riscaldato nei mesi più freddi dal grande focolare dove si riuniva la famiglia. Un’arcata conduceva verso la cucina costruita su misura con piano in marmo e un grande tavolo di ciliegio. Una scala portava al piano superiore dove c’erano le camere da letto, grandi, perché una volta bisognava starci in tanti, e due bagni.

    A fianco del casolare c’era l’aia coronata da siepi e alberi da frutto, albicocchi, peri, ciliegi e cachi.

    Qui Franco trebbiava, si occupava degli ortaggi, faceva razzolare polli e galline, preparava la legna da ardere e sistemava attrezzi e mezzi agricoli.

    Una piccola scaletta in legno conduceva al pollaio rialzato dove un cartello recitava un detto dialettale: ‘La vita la è com la schèla de puler; corta e pina ad merda! La vita è come la scala del pollaio: corta e piena di merda’.

    Alex conosceva il dialetto, il nonno e i suoi genitori quando parlavano tra loro lo usavano continuamente, mentre l’italiano era solo per le occasioni formali. Quel detto l’aveva sempre trovato strano fino al giorno in cui babbo Franco gli spiegò che era stato il nonno Piero a piantare quel cartello.

    Lui era scampato alla guerra; come tanti altri italiani era finito in Grecia per quella che avrebbe dovuto essere una marcia trionfale su Atene e che si rivelò invece una catastrofe. I greci, inferiori per numero e per equipaggiamento ma motivati dall’idea di combattere una guerra nazionale per la difesa dei propri confini, costrinsero gli italiani a ritirarsi e condurre una lunga guerra di logoramento. Il nonno Piero fu anche incarcerato per diversi mesi, poi fu liberato e rimase ferito a una gamba durante uno scontro a fuoco. Rispedito in Italia riuscì a farsi congedare per invalidità.

    Nonostante quella ferita gli avesse creato una leggera zoppìa, con la fine della guerra Piero acquistò i quattro ettari di terra per costruirci, col sudore e la fatica, la casa dei suoi sogni dove vivere con la moglie Alba e i figli Franco e Carlo.

    Ci mise circa dieci anni dedicando quasi ogni giorno della sua vita a quel progetto e alla campagna. Non faceva altro. Non andava a bersi un rosso al bar, non lo vedevi bighellonare in giro per il paese ma lo trovavi nei campi o a tirar su muri, sistemare infissi o puntellare travi.

    Tutti i santi giorni tranne la domenica. La domenica era sacra, era per la famiglia. La domenica Piero non doveva spaccarsi la schiena dall’alba al tramonto ma metteva il vestito buono e andava in chiesa con la moglie e i figli. Poi si pranzava sotto il porticato quando la temperatura lo permetteva o nel salone. La domenica c’era spesso il brodo di cappone e il lesso. La domenica era speciale. Piero e Alba la trascorrevano sulla riva del fiume che costeggiava la proprietà mentre i figli giocavano nell’aia. Potevano parlare, rilassarsi, progettare un futuro migliore oppure stare stesi in silenzio mano nella mano. Quelli erano i momenti magici per cui Piero lavorava tutto il giorno e la domenica gustava il dolce sapore delle sue fatiche.

    Erano una coppia molto innamorata. Per la nascita di Franco, Piero aveva piantato due robinie al confine della proprietà. Aveva detto ad Alba che quelli sarebbero stati i loro due alberi, li avrebbe accuditi e nutriti, potati perché crescessero forti e robusti e col passare degli anni, per la loro vecchiaia, quei due alberi gli avrebbero fornito frescura e riparo.

    E così fu. Subito dopo nacque Carlo e la ‘profezia’ dei due alberi si avverò. Spesso, la domenica pomeriggio, Piero portava Alba in quel posto dove i loro sogni di crescere una famiglia erano diventati realtà.

    Un giorno però, Alba si ammalò di broncopolmonite, che in poche settimane se la portò via. Piero, devastato dal dolore e da una rabbia furiosa prese un’ascia e iniziò a sferrare colpi a destra e a sinistra nei campi coltivati distruggendo sostegni e piante. Franco lo guardava piangendo mentre cercava di consolare il piccolo Carlo.

    Piero, dopo aver raso al suolo gran parte dei frutti delle sue fatiche, si diresse con l’ascia in mano verso il limitare dei campi dove si trovavano i due alberi. Si fermò un istante a guardare le giovani robinie che erano state teatro del loro amore, poi sollevò l’ascia. Il tempo si fermò. Furono attimi interminabili, poi l’ascia ricadde al suolo portando con sé un ramo.

    «Quel ramo, oggi sorregge il cartello del pollaio» spiegò

    Franco, «ma i due alberi ci sono ancora!».

    Da quel giorno Piero non aveva più messo piede in chiesa e si era chiuso in sé stesso. Carlo si era sposato e trasferito in città mentre Franco aveva voluto restare a vivere col padre fino alla sua scomparsa, diversi anni dopo. Amava la campagna e amava quei due alberi. Ci andava a comporre nuove canzoni, erano per lui un luogo di ispirazione e conforto.

    Anche ad Alex piaceva scorrazzare tra i campi e godersi l’ombra nelle lunghe giornate estive sotto quelle piante che col passare degli anni si erano fatte sempre più belle e forti.

    Era il posto giusto dove suonare i suoi cantanti preferiti: Terra promessa e Una storia importante di Ramazzotti, Notte Rosa, di Umberto Tozzi, Take me home di Phil Collins, Notte prima degli esami e Ci vorrebbe un amico di Antonello Venditti.

    Un amico vero con cui condividere giochi e passioni ad Alex mancava davvero. Ora che frequentava la scuola media era dovuto uscire dal suo paesino verso la città e con i nuovi compagni non era riuscito a legare particolarmente. A Cesena ci andava con la corriera delle 7.14, si sedeva in ultima fila e appoggiava la testa contro il finestrino: lasciava cadere lo sguardo sulla campagna circostante che man mano che la corriera avanzava lasciava il posto alla periferia urbana.

    Non amava andare a scuola: fosse stato per lui sarebbe rimasto a casa a suonare tutto il giorno, a inventare nuove melodie, a dar da mangiare alle galline, a fare merenda con la frutta appena colta, a fare il record di rimbalzi sull’acqua con i sassi del fiume.

    Ci provava ad aprire i libri e studiare ma poi si incantava a inseguire i maggiolini e le lucciole in primavera, a contare i fiocchi di neve che cadevano d’inverno, a cercare i lombrichi per pescare in autunno. In prima media era stato promosso, in seconda promosso con aiuto e in terza promosso con il classico calcio nel sedere.

    «Cosa vuoi fare da grande?», gli domandò Franco quando arrivò l’ultima pagella dopo l’esame di terza media,

    «guarda che nella vita se vuoi avere successo è importante studiare! Non vorrai mica diventare un ignorantone come me!».

    «Ma tu ba’ non sei un ignorantone! Sai trattare il basso in maniera incredibile, gli puoi far fare di tutto, è una magia che vale più di tutti i libri del mondo!».

    «Sì, col basso in mano mi difendo, ma ricorda che è la campagna che ci dà da mangiare e non il basso! Con quello, al massimo, ci posso fare i soldi per comprarti il motorino».

    Il volto di Alex si illuminò e ne uscì un sorriso che aveva il sapore della felicità: «Di ba’, mi stai per caso dicendo che mi hai comprato il ‘motore’?».

    «Cosa vuoi che ti dica, non lo so, ma se fossi in te andrei a dare un’occhiata alla legnaia».

    Alex non se lo fece ripetere due volte, corse col batticuore verso il capanno dove Franco stipava la legna e lì gli apparve un ‘Ciao’ nuovo di zecca, bianco con la sella nera e il fanalino grigio.

    Franco lo seguì con gli occhi fino a vederlo

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