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Toccalossi e l'impicciona: La nuova indagine del giudice Toccalossi
Toccalossi e l'impicciona: La nuova indagine del giudice Toccalossi
Toccalossi e l'impicciona: La nuova indagine del giudice Toccalossi
E-book209 pagine2 ore

Toccalossi e l'impicciona: La nuova indagine del giudice Toccalossi

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Info su questo ebook

Impegni, lavoro, scadenze, obiettivi da raggiungere. Chi di noi non ci è cascato? Una vita di corsa, sempre sul filo del rasoio. Poi un giorno qualcosa si rompe: un incidente, un lutto, una forte delusione o anche – perché no? – la gioia di un innamoramento.
Da quel momento tutto cambia. Di noi, di quello che eravamo un tempo, non rimane più nulla, neanche il ricordo, nemmeno il solco di una lacrima.
Un Toccalossi sempre più esistenzialista e stanco, costretto suo malgrado a seguire un’indagine fitta di misteri: il caso di un uomo finito sotto il treno, forse per pura disgrazia, forse perché qualcuno ce l’ha spinto.
Anche Nerina, la settantanovenne vicina di casa della vittima, vuole fare chiarezza e lo fa a modo suo, ficcando il naso a destra e a sinistra. Si è trattato di un omicidio? E chi sono gli assassini?
Poco importa. Con una scrittura fresca, delicata e a tratti commovente, l’autore si diverte a fondere insieme i due schemi classici del noir: quello che vede protagonista un inquirente e quello che affida il caso a un semplice ficcanaso curioso. Entrambi possono arrivare a una plausibile soluzione del mistero che non sempre però corrisponde alla verità. Un’altra grana per Toccalossi: il magistrato/filosofo a cui è difficile non affezionarsi, da sempre interessato più ai casi umani che a quelli giudiziari.
LinguaItaliano
Data di uscita23 gen 2015
ISBN9788869430251
Toccalossi e l'impicciona: La nuova indagine del giudice Toccalossi

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    Anteprima del libro

    Toccalossi e l'impicciona - Roberto Centazzo

    Prologo

    Ettore tirò lo sciacquone. Sbirciò l’orologio, tanto per sapere quanto tempo segnare per l’intervento di assistenza. Nemmeno due ore dal momento della chiamata. Era entrato nel capannone, alla periferia della città, alle diciassette e trenta. Erano le diciannove. Il server era completamente andato. Dovevano sostituirlo. Aveva salvato i dati su un hard disk esterno e ora poteva andarsene. Volendo poteva attardarsi ancora un po’, magari fingendo di fare un ultimo tentativo di ripristino. Ma sì! Perché no? Contemplò il gorgo dell’acqua mulinare e placarsi con un leggero gorgoglio.

    Poi udì una porta sbattere e una voce urlare:

    – È di là, in bagno.

    Due spari echeggiarono nel silenzio. Uno forte, rimbombante. L’altro sordo, soffocato.

    Fece appena in tempo a calarsi dalla finestra e a scappare.

    Capitolo 1

    Nerina non aveva nessuna intenzione di svolgere un’indagine. Non era suo costume impicciarsi dei fatti altrui. Quella mattina, tra l’altro, si era ripromessa di andare al cimitero a cambiare i fiori sulla tomba di suo marito, come faceva tutti i mercoledì. Sarebbe rimasta un po’ con lui, a parlare, a raccontargli di come andavano le cose. Male, peraltro. La piccola bottega di quartiere che insieme avevano aperto tanti anni prima, ormai poteva contare soltanto su pochi affezionati clienti, spesso anziani come lei, che non se la sentivano di andare sino al centro commerciale per comperare due uova o un etto di prosciutto. Oh, se fossi ancora vivo tu, Nanni!, gli diceva sempre, Qualcosa ti inventeresti, sicuramente. Magari le consegne a domicilio. Nanni le sorrideva da quella foto che insieme avevano scelto di collocare sulla lapide, la foto di quando erano andati sul lago Maggiore in viaggio di nozze e lui, in primo piano, sullo sfondo del cielo, appoggiato alla ringhiera in ferro dell’albergo, mai più avrebbe pensato in quel momento di dover un giorno morire. Erano giovani allora, vent’anni, e non si erano mai più lasciati: mezzo secolo di vita insieme, quattro figli ormai grandi, finché lui si ammalò. Due mesi di sofferenza e poi il Signore se lo prese.

    Un forte rumore proveniente dall’alloggio di fianco la fece spaventare. Ma che stava succedendo?

    L’edificio in cui abitava da sempre era un’antica casetta rurale a un solo piano, miracolosamente sopravvissuta alle cementificazioni e ai consueti espropri dei palazzinari in terra ligure. Il suo alloggio, ricavato nel retro del negozio, confinava con l’appartamento di Ettore, un giovanotto di trent’anni che lavorava in banca. L’aveva visto crescere, quel ragazzo, e si era affezionata a lui. Quando voleva parlare con qualcuno, la sera gli bussava con una scusa qualunque ho preparato la parmigiana, Ettore, oppure, ti stiro un paio di camicie. I genitori di Ettore si erano trasferiti in Veneto lasciandogli la casa e Nerina lo aiutava a tenerla in ordine.

    Possibile che Ettore si mettesse a fare tutto quel trambusto alle sette del mattino? Boh, vai a sapere cosa stava combinando! Beati i giovani.

    Prese la borsa, infilò le scarpe e si apprestò a uscire ma, non appena aprì la porta, Bigio, il suo gatto, s’infilò dentro di corsa miagolando, mugolando. Spaventatissimo. Di più: terrorizzato. Qualcuno gli aveva fatto del male. Sicuramente.

    Fu quello il motivo per cui cominciò a chiedersi chi. Non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Bigio aveva l’abitudine di infilarsi in casa di Ettore entrando dalla finestra del cortile, finestra resa sicura da un’inferriata ma solitamente lasciata socchiusa per arieggiare la stanza. Due soli balzi, una sciocchezza per un felino di cinque anni possente e nel pieno delle forze. Si sistemava sul letto o sul divano. Ettore adorava quel gattone tinta cipria dal pelo lungo e soffice. Lo riempiva di coccole. E lo viziava con splendidi piatti di carne trita. Spesso guardavano assieme la tivù. Gli aveva anche regalato un collarino in pelle, rosso, di cui Bigio andava orgogliosissimo, con sopra inciso nome e numero di telefono.

    Per cui – pensò Nerina – qualcosa non quadrava. Se Ettore fosse stato in casa non avrebbe permesso che maltrattassero Bigio. Ne era sicura. Il che stava a significare che c’era qualcun altro in quell’abitazione. Ma chi? Una fidanzata segreta? Un’amica? O un amico? Fu quella la ragione per cui si mise a curiosare. Per cominciare guardò fuori dalla finestra, attraverso le persiane socchiuse, e vide un’auto col motore acceso e un uomo a bordo. Era una Mercedes grigia. Non che conoscesse tutti i modelli di auto, ma la Mercedes l’aveva sempre affascinata e poi quello stemma sul cofano era inconfondibile. Sulla fiancata era incollata una scritta adesiva: Immobiliare Casabella. Era l’auto di un’agenzia immobiliare. Qualcuno dunque era entrato dentro per visionare l’appartamento. Così pareva. Ma allora cos’era tutto quel fracasso? E perché spostare tutti i mobili? Se Ettore fosse stato intenzionato a vendere la casa, gliene avrebbe parlato. Certamente. Si conoscevano da una vita. E se fossero stati dei ladri? Quel tipo che era rimasto alla guida non la convinceva. C’era sotto qualcosa. Che fare? Chiamare la polizia? E se poi si fosse davvero trattato dei clienti di un’agenzia immobiliare? Meglio prima verificare.

    E questo fu il presupposto per cui si dispose a origliare. Mica altro! Soltanto questo. Lo trovò giusto. Doveroso. Erano almeno in tre... sì, tre. Il calice poggiato al muro funzionava. Tre dentro più uno fuori, quattro.

    Ahhh! Non le sconfinferava che quei tipi fossero lì.

    – Cerchiamo dappertutto – sentì esclamare da uno di loro – smontiamo le prese, i caloriferi, i battiscopa.

    – Il computer portiamolo via – disse un altro.

    Da come parlava non sembrava italiano.

    Oh mamma! Si trattava di ladri? Appoggiò ancora l’orecchio.

    C’era anche una donna. Ne distinse la voce mentre diceva: – Potrebbe aver già fatto una copia di tutto.

    Mio Dio! Ma che stava succedendo? Sentì il cuore sbatacchiare tanto che a momenti il bicchiere, usato come cornetta, rischiò di caderle.

    Fece un grosso respiro per riacquistare equilibrio.

    Stai calma, Nerina, si disse, stai calma.

    Le pareti erano sottili. Se avesse chiamato il 113 c’era pericolo che quelli di là, nell’appartamento di Ettore, potessero sentire. Meglio non correre rischi. Fece un altro gran bel respiro. Le venne un’idea. Le serviva qualcosa su cui scrivere. Corse alla credenza e prese la Settimana Enigmistica e la matita.

    Annotò la targa dell’auto. Che altro poteva fare? Ah, sì! riportò la scritta sulla fiancata: Immobiliare Casabella. Quando si accorse che i tre avevano finito e si apprestavano ad andarsene riprese a sbirciare attraverso le imposte attendendo che uscissero. Sì. Erano in tre. La donna era graziosa, vestita in modo sportivo. Di circa trentacinque anni. Non troppo alta. Bionda. Tinta. Prese posto dietro. I due uomini salirono uno dietro e l’altro davanti. Il primo era mulatto, probabilmente magrebino, capelli neri con frangia, cravatta blu, camicia azzurra, viso lungo e spigoloso. L’altro, quello che prese posto accanto al conducente, era robusto, quasi tarchiato, indossava un vestito grigio ed era quasi pelato. Gli erano rimaste solo le basette. Brizzolate.

    Cosa se le terrà a fare poi, le basette, uno che è calvo?, si domandò non sapendo nemmeno perché. Forse semplicemente per allentare la tensione.

    Osservò bene anche l’autista, quello che aveva atteso col motore acceso. Appuntò che non appena i suoi compari salirono, sgommò via.

    – Oh mamma!

    Ora che se n’erano andati le gambe cominciarono a cederle.

    – Oh mamma, mamma, mamma!

    Si trascinò alla vetrinetta vicino alla cucina e, con la mano tremante, afferrò una bottiglia.

    Si versò un vermut dentro un bicchierino e quindi si lasciò sprofondare nella poltrona. Quando si riprese, l’occhio le cadde sull’orologio a parete. Erano le nove in punto. L’ora di aprire il negozio. Ma non ne aveva alcuna voglia. Sarebbe rimasta ancora un po’ lì. Doveva riprendersi dallo spavento. Allungò il braccio sul tavolino accanto al sofà e compose il numero di sua figlia Rosalba. Poi ci ripensò.

    – Beliscimu – si disse – meglio non parlarne con nessuno. Non ora, per lo meno. Riattaccò mentre dalla cornetta la voce di sua figlia ripeteva insistentemente: Sei tu, mamma, sei tu?.

    Capitolo 2

    Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo, per me, mi accorgo di non avere più risorse...

    Centofanti trattenne a stento un sorriso nel momento in cui si accorse che nella sua testa era improvvisamente partita la musica di quella canzoncina. Oddio, canzoncina nemmeno tanto. Era uno dei più celebri capolavori di Paolo Conte, che lui però stava ripensando interpretata da un giovanissimo Adriano Celentano, impegnato in un enorme e vuoto studio televisivo in bianco e nero a guidare una fila di ballerini che mimavano il treno dei desideri.

    Ma il treno dei desideri nei miei pensieri all’incontrario va…

    Si guardò intorno sperando che nessuno avesse notato la sua espressione ilare. Tenendo la testa bassa cominciò a roteare gli occhi a destra e a manca. Erano quasi tutti giornalisti, così come lo era stato del resto il defunto che per anni si era occupato di cronaca giudiziaria, bazzicando nei corridoi della Procura.

    Per fortuna erano tutti concentrati sulle esequie. Contrariamente a lui. Il suo sguardo spaziò sulle tombe circostanti, sui lumini, sull’auto delle Pompe Funebri con il portellone ancora aperto e, infine, sui volti affranti dei presenti. No, nessuno sembrava essersi accorto di nulla.

    Tirò su col naso cercando di rimanere serio e di non pensare più a Celentano. Non era mai stato al cimitero di Staglieno. Più volte gliene avevano parlato come di un posto pieno di opere d’arte, considerato un vero e proprio museo a cielo aperto. Era una splendida mattina di giugno, il sole luccicava sul marmo delle lapidi e con una primavera così aggressiva pareva di essere in visita ai monumenti di una località turistica. Anche il profumo di ginestre e rosmarino selvatico, mischiato a quello dei fiori sparsi ovunque e a quello dei ciottoli cotti dal sole, contribuiva a rallegrare il suo animo. Pessima scelta del destino far seppellire qualcuno con un tempo così. Ma, tant’è! La musichetta non la smetteva di girare nella sua testa.

    Cercò di ragionare sul perché di quella sinapsi nella sua capoccia. Il verso della canzone recitava:

    sembra quand’ero all’oratorio, con tanto sole tanti anni fa. quelle domeniche da solo in un cortile a passeggiar... ora mi annoio più di allora, neanche un prete per chiacchierar...

    Sarà stato il prete, l’atmosfera, l’odore dell’incenso, fatto sta che gli era tornata alla mente tutta la sua infanzia, che quella canzone descriveva alla perfezione. Così aveva ripensato a Celentano impegnato nel trenino. E gli era scappato da ridere. E più ci rifletteva, più non riusciva a trattenersi. Con un colpo di tosse cercò di coprire la risata. Sollevò gli occhi per capire nuovamente se qualcuno lo stesse guardando.

    In effetti uno c’era. Ma era distante. Se ne stava quasi nascosto dietro la colonna di marmo di una tomba di famiglia. Ma guardava lui. Ne era sicuro. O, perlomeno, nella sua direzione. Aveva gli occhi da pazzo, il viso sconvolto. Ma che voleva? Era qualcuno che conosceva? A giudicare di primo acchito sembrava di no. Era un tipo biondo, di circa trent’anni, con una camicia hawaiana, i pantaloni gialli, le scarpe da ginnastica bianche. Lo guardò bene, a lungo. No. Non lo conosceva affatto. Ma che aveva da guardare? Magari era soltanto una sua impressione. Certo che presentarsi conciato così a un funerale! Forse era quello il motivo per cui restava in disparte. Boh! Oppure...

    Cercò di non distrarsi ma non si sentì in colpa perché non riusciva a essere triste.

    Tristi bisogna esserlo in vita, quando non si riesce a far andare le cose come dovrebbero, pensò. E immediatamente dopo il suo cervello aggiunse una postilla a quel pensiero: Ma quant’è che dura ‘sto caspita di funerale?.

    Finalmente qualcuno gettò la prima palata di terra nella fossa e poco dopo i presenti, una ventina, non di più, si dispersero in gruppetti di due o tre. Centofanti poté sentire alcuni di loro commentare sottovoce: – Beh, bravo era bravo, ma era un arrivista. Per la carriera era disposto a tutto.

    – A quanto pare non aveva molti amici – gli sussurrò all’orecchio Toccalossi quando furono in fondo al vialetto.

    – Direi proprio di no – concordò Centofanti.

    L’auto della scorta era rimasta fuori. La si poteva vedere oltre il cancello in ferro. Eh già! Perché, da quando era stato trasferito a dirigere la Procura Distrettuale Antimafia, Toccalossi aveva pestato i piedi a qualcuno ed erano cominciate le minacce. Così il Ministero aveva deciso di affibbiargli una scorta.

    Oppure..., meditò Centofanti ora che questo pensiero nato poco prima si era messo a fuoco nella sua mente. Fece due più due. In un attimo. L’uomo che lo stava fissando, nascosto dietro la colonna, era proprio tra loro e l’auto. E vestito in quel modo non era certo lì per il funerale. E se fosse lì per un attentato a Toccalossi? Matto lo sembrava. Aveva il viso sconvolto. Meglio non correre rischi.

    Col braccio bloccò il Procuratore ed estrasse il cellulare.

    – Che c’è, maresciallo?

    – Un attimo, Procuratore... scorta? Sì, entrate con l’auto dentro il cimitero. In fretta.

    Chiuse la comunicazione, mentre i due gorilla si precipitavano all’interno con l’auto.

    – Ma che fa, maresciallo?

    – Nulla, una piccola precauzione.

    L’Alfa entrò sgommando a tutta birra sollevando un polverone bianco dal vialetto in pietrisco. Tutti i

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