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Una terra d'ombre
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E-book239 pagine3 ore

Una terra d'ombre

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Info su questo ebook

Una terra d’ombre è un inno al Veneto, al suo passato contadino, solido e faticoso, alla sua terra incantevole e feconda. Quindici racconti in lingua mista, in cui l’italiano si fonde spesso con il dolce e cantilenante dialetto, che giocano con il passato e il presente. In queste pagine scopriremo segreti inconfessabili, trascorreremo lunghe notti di angoscia, condivideremo desideri e paure e ci troveremo spesso faccia a faccia con un destino crudele, indomabile e a volte incomprensibile. Fra i protagonisti ricordiamo il contadino Toni, buono, semplice, sposato con Nina, che pensa, a volte, ancora a Caterina. A Venezia incontriamo Fulvio che vuole staccare da una vita stressante per qualche giorno, ma che invece troverà un’amara sorpresa ad attenderlo. Conosciamo Stópa, ragazzo senza famiglia e senza dimora, adottato dalle famiglie contadine per le quali svolge lavori saltuari, e che rimarrà fino alla fine un ragazzo puro, dall’animo limpido e dal cuore infinitamente buono.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2017
ISBN9788893371100
Una terra d'ombre

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    Una terra d'ombre - GINO ZANETTE

    Glossario

    Guida alla lettura

    In questi racconti, quasi tutti ambientati nella provincia di Treviso, nella regione Veneto, vengono spesso usati termini e modi di dire espressi nella parlata locale, il trevigiano della sinistra Piave. Per rendere più agevole la lettura si è creato un Glossario che il lettore troverà alla fine del volume e che potrà consultare al bisogno.

    Il racconto Stópa è stato pubblicato con il titolo Stópa e l’uomo dalla tuba rossa nel 2015 da De Bastiani Editore, Godega di Sant’Urbano (Treviso).

    Molti di questi racconti hanno ricevuto premi, riconoscimenti e menzioni speciali.

    Lo sai chi è Giulia?

    Si è appena svegliato e aprendo gli occhi dimentica di essere in ferie. Guarda la sveglia, la mette a fuoco, per un istante teme che sia tardi. Poi ricorda. Decide che farà colazione al bar. Si lava, si veste in fretta, raccoglie l’ombrello che non si sa mai. È una giornata strana, il tempo potrebbe cambiare da un momento all’altro. Ordina un caffè, si siede a un tavolo appartato da cui non distingue le parole degli altri. Solo un fittissimo, uniforme ronzio. Getta un’occhiata distratta al giornale, gli sembra di sapere già tutto. Ma quanto sono vecchie queste notizie? Sfoglia veloce in cerca delle pagine di cronaca, cui è affezionato. La tazzina resta sospesa a mezz’aria. In una fotografia gli sembra di vedere un volto somigliante al suo. Lo fissa più a fondo, il cuore sembra già impazzito. Legge il titolo, sillaba per sillaba: Trovato forse il ladro. E un sottotitolo: Scompare dall’albergo. Derubata una prostituta, con un nome e cognome: il suo. Riguarda proprio lui.

    D’istinto, con la mano che gli trema, richiude il giornale. Si guarda intorno. Forse è pallido. Ha paura d’essere riconosciuto. Ma nessuno pare occuparsi di lui. Decide di pagare. Con un mezzo fischio - suo pessimo vizio - chiama il cameriere. Si avvicina un ragazzino minuto. Un cinese, con una macchia d’olio sul risvolto della giacca. Perché la nota? Perché, secondo lui, tutti i cinesi sono così: sporchi e stupidi. La città ne è piena. Uno schifo. Una volta a Venezia scendevano i contadini dalle colline, non sapevano l’italiano ed erano stupidi ma puliti.

    Fruga nel portamonete, gli dà un euro e si alza.

    Il ragazzino, aiutandosi con un diniego del capo, lo richiama sorridendo: «Perdona, signore. Caffè tavolo uno e venti. Scusa».

    «In questa topaia?» gli risponde infastidito, rimestando nel portamonete.

    «No, topaia. Questo, caffè» replica il cinese, mostrando la tazzina che ha raccolto dal tavolo.

    «E ride, anche, ’sto stronzo».

    «Sì, signore. Io sempre ride».

    «Sarà la sola cosa che sai fare» gli dice rifilandogli le due monetine da dieci.

    «Scusa, signore» gli fa il cinese, mentre Fulvio raccoglie l’ombrello per andarsene.

    «Che c’è, ancora?»

    «Tu essere famoso, io credo». Poi accostandosi sottovoce, cerimonioso. «Io visto sai tua foto su giornale».

    Allibito, scruta gli altri tavoli. Nessuno che lo osservi. Si tranquillizza, ma non trova di meglio che dirgli: «Sì. Sono un attore. Cinema, hai capito? Film! Ma non dirlo a nessuno». Poi, più forte, a muso duro: «Non rompermi più le palle! E ora vattene nel tuo tugurio».

    Il cinese, impaurito da quel viso paonazzo e minaccioso, fa un balzo indietro. Incespica fra le sedie e rovescia il vassoio. Piatto e tazzina vanno in frantumi.

    Lo strepito richiama il padrone del locale.

    «Che cosa succede?» Poi, rivolto a Fulvio: «Vi ha disturbato, signore? Lo scusi, sa, è un mezzo imbranato».

    Fulvio però si allontana, senza rispondere. Quella specie di intermezzo, nonché infastidirlo, l’ha per alcuni minuti distratto dalla paura.

    Ora però, come nube minacciosa, gli riappare. Da Corte della Posta si muove: è indeciso, febbrilmente teso. La mente in tumulto. Che cosa cercare, e dove? Con passo svelto attraversa una delle cento calli. Superato il ponticello scende per Salizzada del Pistor. Qual era il programma del giorno? Visitare la Chiesa dei SS. Apostoli, a due passi. Vede un’edicola e decide, intanto, di comprare un altro giornale. Una verifica è indispensabile. Chiede La Tribuna di Treviso. È il giornale della sua città. Impossibile che una notizia così non ci sia.

    «Spiacente, signore. Ho solo La Nuova Venezia » gli dice una signorina grassa e lentigginosa. Si sta curando le unghie. Quella mattina sostituisce suo padre. Malvolentieri.

    Un attimo di esitazione. Fulvio ci ripensa. Ma sono a Venezia? Se l’albergo è in città è il giornale giusto.

    «Dammi quello!»

    «Quale, scusi?» lo guarda un po’ seccata la ragazza.

    «Senti cicciona, il cervello l’hai sciolto in carne?»

    «Ah, quello!» gli risponde lei, indicando con un gesto vago, la pila più alta. «E se lo prenda, no? Non sono mica la sua facchina».

    «Sarebbe il tuo mestiere. Potresti dimagrire!» E, presa La Nuova Venezia, paga e svolta per la vicina Calle dell’Oca. Gli serve un luogo per isolarsi e riflettere. Vuole solo sfogliare quelle pagine per capirne qualcosa di più. Gli basta aprire la cronaca di Venezia: la medesima foto è lì, implacabile. Si guarda intorno e vede che, in fondo, seminascosta, c’è una chiesa. Non ha esitazione. È presto, il sagrato è quasi deserto. Ha il tempo quindi di entrare, di sedersi e leggere. Con calma, fuori da occhi indiscreti. Il titolo è quasi identico a quello dell’altro giornale . Ma qui c’è qualche particolare in più. Dopo il Trovato il ladro (è sparito il forse!) si butta sul trafiletto. Una frase lo colpisce. Il giovane nella foto potrebbe essere il responsabile del furto dell’albergo. Potrebbe? Allora non è sicuro. Quale albergo? Con gli occhi corre più avanti. Legge furiosamente: è il Ca’ Sagredo Hotel. Un nome che non gli dice niente. Mai sentito. Un giovane, due sere prima, vi avrebbe passato la notte con una ragazza. Forse una prostituta. O forse una signora, abbastanza giovane e piacente. Spogliata dei gioielli di gran valore, – è scritto – il giovane se l’era data a gambe alle prime luci dell’alba. Senza pagare e senza ritirare i propri documenti.

    Due sere fa? Immediatamente, ricorda. Ma non capisce cosa c’entri lui con quell’albergo. Due sere, però… Sì, forse non c’entra nulla. Ma, proprio due sere prima era successo il litigio con Marco. Un motivo banale. Loro erano venuti insieme a Venezia per passare alcuni giorni. I primi giorni di ferie dell’anno. Fulvio, dopo la cena in una trattoria nei pressi di Ca’ Foscari e una passeggiata fino al Ponte dell’Accademia, aveva deciso di ritornare alla pensione. Per dormire. Era stanco. La settimana era stata dura. Marco invece voleva fare la notte. Manco a dirlo, con una donna. Per i suoi gusti maniacali, si confezionava sempre qualche avventura. E Venezia doveva essere segnata subito, sul suo calendario amoroso. Ogni volta la stessa musica. E Fulvio, intransigente, si era rifiutato di seguirlo. A pensarci, non era solo per stanchezza. Lo infastidiva soprattutto essere trattato al pari di uno schiavetto, come se ogni cosa che faceva l’altro a lui dovesse per forza andar sempre bene. Così la discussione trascese. Volarono qualche insulto e un paio di strattonate. Finché si separarono.

    Da quel momento Marco non si era più visto. Non era una novità, capitava spesso che s’invaghisse di una donna e sparisse anche per più giorni. Staccava il telefonino e si ripresentava, alla fine, come se nulla fosse accaduto. Per questo Fulvio non si era preoccupato. Spera, almeno, di non dover pagare tutta la pensione da solo.

    Di quella notte gli rimane però un ricordo fugace. Un’ombra che affiora nella nebbia di quelle ore. La sensazione che quella sera Marco fosse rientrato mentre lui dormiva.

    Tanto che il mattino si era sorpreso di non trovarlo nel letto accanto.

    A quel pensiero Fulvio si decide. Infrange la regola che si erano promessi di rispettare prima di partire: interrompere le comunicazioni con tutti. Estrae e accende il cellulare. Controlla. Di Marco, nulla. Alcuni messaggi di sua moglie. Una chiamata di sua madre, che non si arrende mai a quel capriccio del figlio. Non sanno ancora niente.

    Richiuso il cellulare, si dice che già che c’è tanto vale guardare la chiesa. Sono le ultime ore di permanenza. E gli resta ancora da visitare Ca’ d’Oro. Perché non approfittarne? Intanto ci avrebbe riflettuto. L’afflusso di visitatori, da soli o in comitiva, si sta intensificando. Non che ci sia molto che meriti attenzione. Ma La Comunione di S. Lucia del Tiepolo la vuol vedere. Un ricordo di scuola, all’esame di maturità. Così, con un po’ di circospezione, sale i quattro gradini che portano alla cappella Corner dove la pala è esposta. Ebbene, chissà per quale combinazione in quell’afoso mattino di luglio di fronte a lui c’è il professor Ramboni. Guida uno sparuto gruppo di turisti. È costui un veneziano vanesio e dispotico, suo insegnante ai tempi del liceo. Si riteneva, allora, il massimo conoscitore dell’arte pittorica del Settecento veneziano. Lo aveva tartassato di domande, ignobilmente banali, su quel dipinto. All’ultima non aveva saputo rispondere. Addossate alla balaustra del pergolato in alto, sporgenti dalla colonna corinzia c’erano due piccole figure. Chi fossero nessuno ancora lo sapeva. Fulvio ricorda d’aver detto che doveva trattarsi di personaggi standard nelle composizioni tiepolesche. Ma l’esimio luminare si era infuriato. Perentorio, aveva affermato che durante l’anno lui l’aveva spiegato. Non aveva accettato, pertanto, la risposta. E per una simile cretinata si era rifiutato di condividere la lode già proposta dai colleghi.

    Temendo d’essere riconosciuto, per osservare il dipinto si ritrae sul secondo gradino appena dietro la balaustra di legno.

    La comitiva ascolta con attenzione il professore che illustra il dipinto. Prolisso, come al solito, risponde a qualche quesito. Quando la visita pare terminarsi, irrefrenabile Fulvio spara la sua domanda: «Professore, scusi, sa dirci chi sono le due figure lassù, affacciate alla loggia corinzia?»

    Il professor Ramboni dopo un attimo di smarrimento affila lo sguardo all’interno della comitiva. Vuol capire chi è l’impertinente autore della provocazione.

    Ma Fulvio, temendo d’esporsi, fugge approfittando della confusione di un’altra comitiva che si sta avvicinando.

    Non saprà mai, nemmeno stavolta, la risposta. A lui è bastato il volto improvvisamente terreo del Ramboni. Ha maturato, anche se in modo sobrio, la sua vendetta.

    Ora, però, tornato al pieno sole sul piazzale antistante ha un altro compito da affrontare. Un leggero rimescolio nello stomaco lo avverte che è la parte più complicata. Deve farlo subito. La decisione è presa. Non può andare dalla polizia. Troppo difficile raccontare e dimostrare la propria innocenza. Lui deve assolutamente presentarsi nell’albergo dove, secondo la cronaca, avrebbe pernottato e rubato.

    Lui ne sa il nome, ma non dove si trovi. Una signora anziana, seduta a un tavolo del caffè, le pare la persona adatta. Tutt’altro che intelligente e maliziosa, non rappresenta un pericolo. E, data l’età, saprà tutto della città.

    «Sei fortunato, ragazzo» gli dice «quello che cerchi è a due passi. Qui davanti prendi la Strada Nova, po’ pì ‘vanti te svolti per cale dela Pergola e ti xe subito ‘rivà».

    Le indicazioni della vecchia sono esatte: … poi più avanti giri per Calle della Pergola e sei subito arrivato. Non sono proprio due passi, ma si sa, i veneziani sono come i montanari. Il loro metro è più corto.

    Non è difficile vederlo, l’hotel. Non fosse altro per la sua maestosità rosa, sullo sfondo del Canal Grande. L’ingresso, dalla parte del canale, conduce alla reception per uno scalone ai cui lati un putto marmoreo si atteggia a guardia. Splendidi affreschi ammantano le pareti.

    Salendolo Fulvio si sente spaesato. La hall della reception, con le sue colonne di marmo e i pavimenti di palladiano è una magnificenza. Sbalordito, forse intimorito, pensa d’essersi sbagliato. Come ha potuto Marco? Ma forse ha letto male. Forse il giornale...

    «Scusi, signore, posso aiutarla?» È la voce di un ragazzo, in una pomposa divisa rossa, che si avvicina e ossequioso gli chiede: «È senza bagagli?»

    Fulvio, smessi di colpo i panni della spavalderia, «Sì... cioè no» balbetta indeciso «vengo per un’informazione. Cerco un amico».

    Il ragazzo non lo lascia continuare: «Ah, allora prego, si accomodi al banco. Là in fondo, a fianco dei due portali ad arco».

    Un signore, dalla cespugliosa barbetta a punta, lo accoglie con uno sguardo malizioso. Assomiglia a una foto di D’Annunzio, vecchio. Al suo fianco, una signora bruttina – certamente zitella – fornisce spiegazioni sulle opportunità turistiche che l’hotel mette a disposizione degli ospiti. Seduta, a smanettare di fronte a un paio di monitor, una giovane che sembra parli da sola. O è al telefono?

    «Sì?» si limita a biascicargli con una voce stridula e un inchino di maniera «in che posso esserle utile, signore?»

    Dev’essere piccolo il signore con barbetta, perché la testa nel fare l’inchino è costretta a strisciare quasi sopra il banco. Si sforza, e si vede, di essere cortese.

    L’emozione che Fulvio prova, in quello che ritiene il momento decisivo, gli chiude la gola. Trae allora di tasca il giornale, lo apre alla pagina con la foto e lo distende sul bancone. Si aspetta una reazione furibonda. Il vecchietto, invece, abbassa gli occhi per osservare meglio, poi impassibile li alza sul volto di Fulvio e sembra, ora, rassicurante. «Ho capito. Questo è lei, si vede. E allora?»

    «Allora... Sono qui per chiarire. Questo» e nel dirlo sfiora col dito la foto «sono io, ma ci deve essere un errore. Perché, signore, è la prima volta che entro qui. Anzi, è la prima volta che vengo a Venezia dopo la laurea».

    Intanto la ragazza al monitor chinatasi su un piccolo microfono sul tavolo, mormora sottovoce: «Sicurezza! Sicurezza!»

    Anche la signora – la zitella – sospende per un momento il colloquio con i due clienti. Alza lo sguardo incuriosito su di lui, ma si vede che non lo conosce.

    «Da due giorni pernotto allo Junior Hotel, un Bed & Breakfast. Insieme a un amico» continua sempre più deciso Fulvio, riprendendo coraggio. «Non avremo mai avuto la pretesa né la possibilità di prenderci questi lussi. Lo volete capire? Chissà quanto costa un bordellone del genere!»

    «Signore, moderi i termini. Questo bordellone come lo chiama lei, è un cinque stelle lusso» lo interrompe indispettito il vecchietto.

    «Sì, va bene. Non intendevo in quel senso… Insomma, perché non telefonate al Junior Hotel?»

    «Lo abbiamo già fatto. Cosa crede, giovincello?» risponde l’impertinente vecchietto. «Fin dal mattino dopo, appena la puttanella – oh, mi perdoni, la sua signora... insomma, la donnina che s’è presentata con lei – s’è precipitata giù come un’ossessa a denunciare la scomparsa sua e dei gioielli. È stata la donna a rivelarci il nome di quell’albergo».

    «Ma quale scomparsa mia? Se le dico che non ero io, che vi sbagliate. Insomma, se avete telefonato lì vi avranno detto certamente...»

    «Che lei, verso le sette del mattino, è sceso a far colazione. Ma che non possono sapere dove fosse stato prima, mi capisce? Ed è importante perché lei, o il fantasma che le assomiglia, se l’è filata da qui, secondo la puttanella, prima del levar del sole».

    In quel momento, insieme all’addetto alla sicurezza, un uomo presentatosi come il vicedirettore gli sventola sotto il naso un passaporto.

    «È suo, questo?» e gli mostra la pagina con la foto.

    Sbalordito, Fulvio non può che ammettere che sì, si tratta del suo passaporto.

    «Come fate ad averlo in mano voi?» insiste a chiedere.

    «Venga in ufficio che vediamo di capirci meglio. Una spiegazione ci sarà. Mi segua».

    L’addetto alla sicurezza li accompagna fino all’ingresso dell’ufficio.

    «Tu rimani qui. Se c’è bisogno, ti chiamo» gli ordina perentorio il vicedirettore.

    E così restano soli.

    «Siediti e vediamo di parlarci chiaro. La soluzione di questo caso è importante per te ed è indispensabile per il buon nome del nostro albergo».

    «Non capisco» si azzarda a dire Fulvio «perché è passato al tu?» Ma non si risentì. In un’altra occasione, forse…

    «Lo capirai subito» prosegue con un tono velatamente minaccioso. «Tu sei coinvolto, a tua insaputa, in un disguido spiacevole e pericoloso. Se sei un ragazzo per bene, avrai tutto da guadagnare che la cosa si chiuda subito e senza clamore» conclude, sedendosi disinvoltamente sulla scrivania, di fronte a lui.

    «Vuol dire che lei sa» esclama Fulvio.

    «Non interrompermi, per favore» continua il vicedirettore mentre cerca di ricostruire con la maggiore chiarezza per sé e per il suo interlocutore quanto accaduto. «Il nostro albergo, per rinomanza e tradizioni, ha l’esigenza imprescindibile» pronuncia l’avverbio quasi sillabando «che ogni rumore, ogni diceria, cessino subito. Ti dico questo perché all’origine del – chiamiamolo incidente? – incidente, c’è appunto l’albergo e, soprattutto, ci sono io, con la mia superficialità, la stanchezza per una giornata lunga... la... ma lasciamo stare. Veniamo al fatto».

    «Allora lei vuol dire che io...»

    «Che tu non c’entri per niente. Se una colpa ti si può attribuire, è di avere un amico balordo. Questo sì. Quantomeno balordo».

    «Si riferisce a Marco?»

    «Tu lo sai se si chiama così. Io» e qui estrae dal cassetto lo stesso giornale con la foto «non posso che continuare a chiamarlo con il tuo nome. Fulvio Agrimi».

    Un’ombra di tristezza passa sul volto dell’uomo. Si alza. Si accosta alla grande porta finestra che s’affaccia sul Canal Grande. Con un dito sfiora le piombature dei vetri colorati. Poi, dopo avervi picchiettato sopra i polpastrelli, si sfoga. Si muove, gesticolando.

    «Sono stato uno stupido. Perché mi sono fidato? Non lo so. Forse l’abitudine a trattare con clienti di un certo livello. Insomma quando tu…» si corregge, alzando la mano per scusarsi «… quando il ragazzo – diciamo, il tuo amico – si presenta con quella donnina, è quasi mezzanotte. Alla reception c’ero io, da solo. Chiede una camera, – la più semplice, dice – non sa ancora quanto costi. Si dà arie di uomo vissuto. È invece uno sprovveduto. Ma vuol fare colpo. Su quella, figurarsi! Ebbene, la camera semplice c’è, gli dico. Da quattrocento euro a notte, ma questo non glielo dico, o scapperebbe. Ne sono sicuro. E quello fu il mio primo errore. Gli chiedo un documento. Non ce l’ha. Non ricordo il pretesto che mi ha propinato.

    La donnina, nel frattempo, si era fatta accompagnare alla camera, con la scusa di un impellente bisogno. D’altronde una donna così non fornisce mai i propri documenti. Io insisto quindi con lui.

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