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Passo a due
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E-book289 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Roma, inizi anni 2000. Sara, giovane ragazza nata in un piccolo paese della Calabria, si trasferisce, grazie a un lavoro come sarta costumista in un piccolo teatro della capitale. Il primo giorno di lavoro, nonostante l'accoglienza poco calorosa del direttore, la ragazza si mette subito al lavoro, insieme a altre due sarte Tina e Ale. Durante i provini per l'assegnazione delle parti dello spettacolo, una versione rivisitata di Romeo e Giulietta, Sara, incuriosita, si reca dietro le quinte e lì, viene catturata da Yari.

Arianna Busetto Arcisa, Venezia il 20 febbraio 1974. Frequenta l’istituto alberghiero sempre a Venezia e, finite le scuole, comincia a lavorare nei più prestigiosi alberghi, tra i quali il famoso Hotel Danieli. Successivamente, dalla bellissima laguna si sposta, per amore, in un paesino vicino Trento, dove si sposerà. Pochi anni dopo, però, decide di separarsi. Da qui parte un capitolo nuovo della sua vita fatto di solitudine e tristezza ma nello stesso tempo scopre la bellezza della libertà. Inizia anche a viaggiare. Nel cassetto, tuttavia, nascondeva il forte desiderio di pubblicare un manoscritto concepito durante gli anni vissuti in Trentino, ma che continuava a rimandare non trovando appoggio nel marito. Nei primi giorni dell’anno 2020 parte decisa alla ricerca della casa editrice più adatta, solo che con l’arrivo della pandemia inizia a non stare bene. Da qui il ricovero e dopo due settimane di terapia intensiva, il suo cuore, messo a dura prova dalla difficoltà respiratoria, cessa di battere. Lascia i genitori e i moltissimi amici da tutta Europa sgomenti. Qualcuno ha estratto dal cassetto il suo piccolo gioiello perché lei meritava che il suo sogno si avverasse.
LinguaItaliano
Data di uscita26 apr 2023
ISBN9791222099996
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    Anteprima del libro

    Passo a due - Arcisa Arianna Busetto

    VITA NUOVA A ROMA

    Cavolo, le 8.00! Urlai, presa di soprassalto e rizzandomi di scatto nel letto.

    No! Proprio oggi che inizio il nuovo lavoro a teatro. Recandomi quasi in trance verso il bagno, sfilai istintivamente il pigiama di flanella abbandonandolo con indifferenza sul pavimento in legno della mia stanza.

    Arriverò sicuramente in ritardo, pensai presa dal panico, indecisa se lavarmi per primo il viso e poi vestirmi, o viceversa.

    Ma dove ho sistemato i vestiti per oggi?

    Mentre scrutavo con attenzione la stanza cercandoli, con la coda dell’occhio mi soffermai brevemente ad osservare la mia immagine riflessa allo specchio: carnagione lievemente olivastra, grandi occhi castani ed una cascata indomabile di ricci neri come la pece.

    Raccontata così potrei sembrare pure figa, ma se ci aggiungiamo qualche chiletto sparso di troppo, un seno un po’ ingombrante, il tutto condito da un forte senso di inadeguatezza aggiunto ad una spiccata imbranataggine, la prospettiva cambia.

    Mamma mia, questi capelli!. Vi presento la mia croce: perennemente fuori posto e simpatico omaggio dei miei avi normanni.

    Inguardabili, come sempre! Devo decidermi seriamente ad andare da un bravo parrucchiere appena avrò qualche soldo in più! Sorrisi soddisfatta, pensando al nuovo lavoro che mi stava aspettando.

    Con una scarpa in una mano e con l’altra impegnata a spazzolarmi i denti, zoppicai verso il salotto.

    Jolly? Jolly! Dove sei, ammasso di pulci! Vieni qui, non ti ci mettere anche tu, ti prego. Seguii spazientita alcune tracce inconfondibili del suo passaggio, che conducevano dritte dritte verso l’unico terrazzino dell’appartamento.

    Dai, che sono già paurosamente in ritardo!

    Non avevo veramente più tempo da perdere.

    E va bene, ti lascio la porta a vetri aperta! Abbandonai lo spazzolino da denti sopra il muretto che divideva lo spazio della cucina con il salotto, ed afferrai di corsa lo zainetto.

    Mi raccomando, però, non fare come l’ultima volta gridai recandomi verso l’uscita. È anche un po’ per causa tua se non abbiamo più una coinquilina!

    Controllai velocemente allo specchio di essere in ordine e non come l’ultima volta che uscii con ancora i pantaloni del pigiama infilati addosso. Non sto scherzando.

    Guardai l’orologio: Cacchio, che tardi! Come farò ad arrivare in tempo con il traffico che c’è sempre in centro a quest’ora?

    Mi guardai nervosamente attorno cercando una rapida soluzione, poi improvvisamente i miei occhi si fermarono su un mazzo di chiavi appeso accanto all’ingresso.

    Idea! pensai furbamente. Userò il motorino di Erika, tanto lei è fuori città!

    La mia quasi ormai ex-inquilina era andata un po’ di tempo dai suoi genitori, prima di trasferirsi definitivamente a Firenze dove, grazie ad una borsa di studio, avrebbe proseguito i suoi studi.

    Mi precipitai in garage, dove ci avevano concesso un angolino per il motorino e la bici e, dopo alcuni vani tentativi, riuscii a metterlo in moto e ad avviarmi finalmente verso il lavoro.

    Dopo circa quaranta minuti, trascorsi imprecando inutilmente per le code ai semafori e le strade imboccate per sbaglio, giunsi finalmente all’agognata meta.

    Eccolo, ci siamo! Esclamai con tutto l’entusiasmo di cui ero capace.

    Scandii lentamente il nome della strada: Via delle Vergini 7. Si!

    Fortunatamente, la facciata rinascimentale del Teatro s’imponeva su ogni altro edificio circostante, così che non feci tanta fatica a riconoscerlo.

    Ecco! Questo dovrebbe essere il celebre Teatro Quirino.

    Ero emozionata come una scolaretta al primo giorno di scuola. Riordinai, se così si poteva dire, i capelli che il casco aveva schiacciato, ed entrai.

    Mille pensieri affollarono improvvisamente la mia mente, ma li misi subito da parte: se non mi fossi sbrigata, quello sarebbe diventato anche il mio ultimo giorno di lavoro.

    Che casino!

    Ero abituata a pensare al teatro come ad un tempio sacro dell’arte. Un luogo mistico, dove la gente poteva lasciarsi rapire da ogni sorta di emozione, scaturita dall’ascolto della lirica oppure dalla visione del balletto.

    Lì, invece, la prima impressione fu quella d’essere incappata nel regno del caos. Praticamente nel bel mezzo di un cantiere edile!

    Il rumore dei trapani e dei martelli echeggiava un po’ ovunque. Sbuffi di segatura a cascate che al riflesso della luce del grande lampadario al centro della sala sembrava polvere dorata!

    Un via vai di persone in fermento, talmente prese ognuno dalle proprie mansioni, da non accorgersi nemmeno della mia presenza.

    Lei è la signorina Cacace?, sentii improvvisamente alle mie spalle.

    Scusi, dico a lei! È una delle costumiste, per caso? Il tono di quella voce era così severo che mi irrigidii quasi all’istante.

    Come non detto, pensai, tornando bruscamente con i piedi per terra.

    Girandomi, la prima cosa che non potei fare a meno di notare fu un panciotto di chiara origine sartoriale e dal taglio molto raffinato, sotto una giacca sbottonata di tessuto pregiato. Alzando poi lo sguardo vidi il volto di un signore sulla cinquantina. Un uomo tanto alto quanto longilineo, con pochi capelli brizzolati sparsi sulla testa e dall’aspetto complessivamente distinto. Sembrava uno di quei maggiordomi che si vedono spesso nei classici film propinati a Natale.

    Sì, mi scusi, ma con questo rumore non la sentivo! Mi presento, esclamai decisa, piena d’entusiasmo, sono Sara Cacace. Gli porsi educatamente la mano, stampandomi un sorriso sulla faccia.

    Bene! Si sbrighi, signorina Cacace, perché da quello che so stanno aspettando solo lei per iniziare. Dichiarò lapidario l’uomo.

    Mi freddò all’istante. Colpita e affondata.

    Troverà tutti al piano di sotto, in sartoria. E faccia in fretta, aggiunse, indicandomi con un breve cenno la direzione da seguire, qui, si ricordi, il tempo è denaro!

    Molto bene - pensai mortificata e accelerando il passo - quel tizio è già riuscito a farmi sentire una sfigata.

    Seguendo la destra della platea arrivai ad una porta che, ad intuito, avrebbe dovuto condurmi dietro le quinte.

    Scesi, incerta, una buia rampa di scale giungendo ad un seminterrato apparentemente deserto.

    Mi rammaricai di non aver chiesto prima delle indicazioni più precise: non avevo la più pallida idea di dove iniziare a cercare gli altri. Per fortuna sentii delle voci e, seguendo lo spiraglio di luce che proveniva da una porta socchiusa, raggiunsi finalmente la sartoria.

    Sartoria!? - pensai sgranando gli occhi sbigottita - e questa si sentono di chiamarla sartoria?

    La stanza in cui mi affacciai era poco più di un sotto scala. Un ambiente angusto del seminterrato, con delle finestre smerigliate rettangolari quasi inesistenti. Due assi da stiro professionali sdruciti, ed un paio di macchine per cucire che mi ricordavano molto la vecchia Singer di mia nonna, che ultimamente usavamo per addobbarci il presepe a Natale.

    Una parete, poi, quella corrispondente all’entrata, era occupata completamente da un enorme armadio in alluminio grigio, dal quale spuntavano disordinatamente alcuni vecchi costumi di scena abbandonati lì da chissà quanto tempo.

    Mi bastò quella breve panoramica per disilludermi amaramente e capire che, per lavorare meglio, avrei sicuramente dovuto portarmi del lavoro a casa.

    Buongiorno!, sentii esclamare in coro dai presenti.

    Buongiorno!, mi schiarii la voce sforzandomi di mantenere un tono il più professionale possibile. Lei dovrebbe essere il signor Esposito, se non sbaglio. Porsi la mano a turno a tutti i presenti, senza permettere alle loro facce seccate di intimorirmi, prendendo poi posto sull’unica sedia rimasta ad attendermi.

    Ehm… Mi scusi per il ritardo, ma ero in motorino ed ho trovato molto traffico, mi giustificai. Sa com’è Roma nelle ore di punta!, aggiunsi facendo dell’ironia cercando di sdrammatizzare, evidentemente invano. 

    Allora abbassai lo sguardo mortificata. Le assicuro che non capiterà mai più!, aggiunsi mestamente.

    So già che non capiterà più!, sbuffò Esposito con aria impassibile.

     Vede, signorina Cacace, mi rimproverò, senza però cercare il mio sguardo, lei non è l’unica sarta di provincia che è alla ricerca di un po’ di fortuna qui in città.

    Non potevo credere alle mie povere orecchie: sarta di provincia!

    Ma chi crede di essere questo! - pensai soffocando con tutte le mie forze la rabbia.

    Ero ancora una principiante, ne ero pienamente consapevole, ma il fatto che provenissi da un piccolo paese di provincia, non gli dava assolutamente il diritto di vomitarmi addosso così tanta cattiveria gratuita. Infondo, al mio attivo potevo annoverare molti anni di dura e tanto sofferta gavetta nel più esclusivo, nonché unico, atelier di Cavalli. È proprio in quel piccolo paese della provincia calabrese che imparai i tagli più difficili ed impegnativi. È lì che, partendo da zero e con tantissima umiltà, iniziai a disegnare nuovi modelli, guadagnandomi tanta stima e riconoscenza da parte dei miei titolari.

    Stavo quasi cedendo alla tentazione di rispondendogli a tono, ma capii che sarebbe stato totalmente controproducente: io desideravo fortemente quel lavoro.

    È meglio che mi stia zitta! - pensai, mordendomi la lingua.

    Era stato proprio il Signor Esposito ad ingaggiarmi: gli erano piaciuti i miei disegni e aveva colto tutte le mie idee. Inoltre, mai come in quel momento, avevo disperatamente bisogno di lavorare. Poiché non c’era più Erika a dividere l’appartamento con me, mi trovavo ad affrontare tutte le spese da sola. Conti che puntualmente mi costringevano a dare aria al portafoglio, trasformandolo in una sorta di pozzo di San Patrizio. Luce, acqua, gas, spese di condominio, eccetera. Un altro mese così e sarei rimasta senza i risparmi faticosamente messi da parte lavorando come cameriera in pizzeria durante tutti i week-end.

    Devo assolutamente trovare una coinquilina nel più breve tempo possibile!

    Il signor Esposito mi presentò le due colleghe con le quali avrei dovuto realizzare dei costumi per una sorta di balletto-studio.

    La coreografia, ci spiegò sommariamente, prendeva spunto dall’opera teatrale di William Shakespeare Romeo & Giulietta, il cui soggetto però era stato integralmente da lui rielaborato in chiave assolutamente contemporanea.

    Un’opera d’avanguardia, così l’aveva definita.

    Trovai l’entusiasmo necessario per rimboccarmi bene le maniche e mettermi subito all’opera, anche se trovavo il tema scontatissimo e privo d’originalità. D’altra parte, per me sarebbe stata una nuova esperienza, che avrebbe messo alla prova le tecniche acquisite a scuola e arricchito le doti organizzative che avevo maturato con la pratica.

    Fortunatamente, dopo un po’ di diffidenza iniziale, si creò molto rapidamente una profonda intesa professionale e amichevole con entrambe le mie colleghe.

    Discutemmo varie idee, buttammo giù qualche schizzo, trovandoci infine d’accordo su tutta la linea da tenere. Tutto ciò avrebbe prodotto, con il passare dei giorni, un ottimo lavoro di squadra.

    Gran parte della mattinata sembrò così scorrere abbastanza rapidamente, anche se l’inizio non era stato dei migliori: stavo sopravvivendo quasi indenne al primo giorno di lavoro.

    Sorridendo, compiaciuta, decisi così di trascorrere la pausa pranzo in teatro, dove sapevo che il signor Esposito, insieme al coreografo, avrebbe seguito le audizioni per il corpo di ballo.

    Non avevo mai assistito a questo genere di attività e non stavo nella pelle dalla curiosità.

    Chissà chi saranno i due fortunati protagonisti - pensai eccitatissima.

    Mi accomodai in silenzio su una delle ultime poltroncine di velluto rosso della grande sala e, addentando un buon panino alla Cacace, mi godetti lo spettacolo come avrebbe fatto un comune spettatore.

    Tra un’esibizione e l’altra, poi, avendo tempo per guardarmi più attentamente attorno, constatai con sorpresa che quel luogo era diventato improvvisamente intimo e familiare. Senza la rumorosa invadenza di scenografi e addetti ai lavori, in quel momento in pausa al bar, tutto sembrò cambiare completamente aspetto. Come un flash, mi tornò in mente quando da bambina la nonna materna mi portava spesso al teatro Cilea di Reggio ad assistere a qualche balletto o rappresentazione teatrale.

    Inventava sempre qualche scusa banale per andare in città, strappando poi il permesso ai miei genitori perché trascorressi la notte a casa sua. Così, complici l’una dell’altra, indossavamo l’abito più elegante pronte a mescolarci per un’intera serata tra le persone più raffinate dell’alta società.

    Sorrisi a quel ricordo.

    Fu così che nacque il mio sogno di diventare ballerina. Quale altra ragazzina a quell’età non lo avrebbe desiderato?

    A 8 anni, per il mio compleanno, costrinsi persino zia Carmela, sorella di mio padre, a cucirmi un abito simile a quello usato dalle danzatrici vere. Ricordavo ancora con nostalgia la felicità provata in quei momenti, mentre mi riflettevo allo specchio imitando i movimenti di Carla Fracci. Mi sentivo una vera principessa.

    All’epoca, purtroppo, non capivo ancora quale fosse la considerazione della donna nella scala di valori della mia famiglia, tanto meno quali fossero le aspettative riposte nei miei confronti. Ricordavo solo che, all’insistente richiesta di mia nonna di lasciarmi coltivare quella passione, i miei genitori tirarono fuori, come scusa, la mancanza di soldi e di tempo. E poi, chi avrebbe aiutato mia madre con le faccende domestiche?

    Fortunatamente, con il passare degli anni non covai grossi rimpianti, anche perché pian piano mi ero trasformata in una giovane donna un po’ troppo formosa per poter intraprendere una carriera del genere.

    Il tempo per la pausa pranzo stava quasi terminando e, proprio quando mi stavo alzando per tornare al lavoro, salì sul palcoscenico l’ultimo ballerino. Aveva una canotta liscia di cotone nero che, scoprendo parzialmente le spalle larghe, metteva in bellissima mostra dei muscoli ben scolpiti, e pantaloni d’acetato, non dico fino a che punto aderenti, di color rosso cangiante e scarpe da ginnastica in tinta.

    Mii, e chi è questo?, mi lasciai sfuggire a voce bassa. 

    Il mio nome è Yary. La sua voce echeggiò da lontano. Il cognome invece, suonava quasi come uno scioglilingua.

    Lasciò cadere in un angolo del palcoscenico un sacco di cotone tinta écru con le sagome di due aquile nere, e si piazzò al centro della scena.

    Provengo dall’Albania, ho 27 anni e sono diplomato all’accademia di danza classica di Tirana.

    Nonostante la pronuncia bizzarra, con le R arrotolate, non sembrava affatto intimorito e tanto meno insicuro, come invece notai in molti suoi predecessori.

    Il mio sguardo cadde sul signor Esposito, seduto diverse file più avanti a me, il quale mi apparve subito molto scettico e poco interessato. Da quello che potei capire da così lontano, lui non gradiva dei ballerini stranieri nel suo spettacolo. Affermava che erano troppo complicati da gestire, sia per un problema linguistico, sia per il fatto che, secondo lui, erano troppo presuntuosi e si davano arie da étoiles.

    Notai, allora, che il coreografo gli bisbigliò qualcosa all’orecchio: tanto bastò per tranquillizzarlo e convincerlo ad assistere. Indicarono con un cenno della mano al ballerino, che intanto si stava scaldando impassibile, di iniziare l’esibizione.

    Nessuno dei provini precedenti aveva catturato così tanto la mia attenzione. Chissà, forse a colpirmi fu il portamento così fiero ed elegante con cui calcava quel palcoscenico, completamente indifferente alla polemica sorta poco prima a causa della sua provenienza. Oppure, i tratti così particolari del suo viso, talmente scolpiti da tradirne l’inconfondibile origine albanese. Fatto sta che, a costo di essere redarguita, decisi di sedermi qualche fila più avanti e assistere.

    Cosa dire della lucentezza quasi innaturale dei suoi capelli? Corvini come la pece, scendevano ribelli sul volto accentuandone l’espressione severa degli zigomi, per poi cadere liberi sulle spalle scolpite in un perfetto equilibrio.

    Ero a dir poco ammaliata da quella strana presenza. C’era qualcosa di così insolito nel suo modo di danzare. Sembrava essere vittima, ma al contempo artefice di una sorta di conflitto interiore che lo stava divorando, mentre lo rigenerava. Un connubio di rabbia trasformata in grinta: questa insolita alchimia non mi permetteva di distogliere lo sguardo nemmeno per un istante, come ipnotizzata.

    Peccato che sul più bello, quando l’esibizione stava volgendo al termine, fui costretta ad alzarmi per tornare al lavoro. Si stava facendo per me troppo tardi e avevo paura che le altre si lamentassero per la mia assenza così prolungata. Non sapevo, perciò, se il coreografo lo avesse scelto per una parte.

    Lavorai incessantemente tutto il pomeriggio sovrappensiero, riguardando con gli occhi della mente quel breve assolo che in pochi minuti mi aveva fatto rivivere vari stati d’animo di un’intera vita, la mia.

    Finalmente arrivarono le 18.00. Infilai con pazienza pennarelli e album da disegno nello zainetto e scappai, ancora pensierosa, senza quasi salutare nessuno. Il mio unico obiettivo era quello di andare a casa e ripensare alla bellissima giornata appena trascorsa.

    Prima di infilare il casco, esitai. Chissà se quel ragazzo è stato scelto - mi domandai.

    Mi sarebbe dispiaciuto un sacco non rivederlo danzare. Mi sfiorò brevemente persino l’idea che avrei potuto facilmente trovare l’ispirazione per i miei costumi, se solo avessi avuto lui come modello per Romeo.

    Arrossii violentemente al solo pensiero.

    Beh! Non era mica male! – pensai quasi giustificandomi – Ma sicuramente fuori dalla mia portata.

    Poi, chi lo sapeva cosa poteva avere per la testa un ballerino come quello? Magari era un tipo fissato con le diete a base di yogurt, come si sentiva spesso raccontare tra le quinte, oppure un narcisista concentrato solo sul benessere sulla bellezza del proprio fisico.

    Mezze checche in calzamaglia! - avrebbe sentenziato sicuramente mio padre!

    Soffocai una mezza risata e avviai il motorino quasi sgommando, destinazione: casa dolce casa.

    E vabbè! Non me ne vergogno affatto! - Riflettei, ferma al primo semaforo. - Mi definisco un tipo pantofolaio, che c’è di male? - Svoltai prima a destra e poi a sinistra. - Lo ero prima quando vivevo con i miei, e non vedo perché dovrei smettere proprio adesso che possiedo uno spazio tutto mio. Mi piace crogiolarmi nell’apoteosi del vivere casalingo, tutto qui! - Conclusi infilandomi in garage.

    Non chiedevo altro che le mie pantofole ed il pigiamone di flanella, magari comodamente sdraiata sul divano davanti alla mia serie tv preferita. Se ci fossero stati i pop-corn e/o le patatine, tanto meglio! Senza parlare poi del gelato…

    Salii rapidamente le scale, ma non feci in tempo ad infilare le chiavi nella toppa della porta di casa che sentii Jolly abbaiare senza tregua dall’altra parte. Temevo quasi di entrare.

    Che cosa avrà combinato questa volta?

    Il mio appartamento non esisteva più, o almeno non esisteva più come lo avevo lasciato io la mattina!

    Jolly, è meglio che tu sparisca immediatamente! Ti conviene non farti più né vedere né sentire!

    Ero incazzata nera.

    Cosa cavolo è successo qui dentro, mentre ero al lavoro a guadagnarci da vivere?

    Intanto guardai attentamente in giro, cercando di rilevare la gravità della cosa.

    Che disastro! - Pensai inviperita.

    I cuscini sul divano erano tutti ridotti a brandelli con le piume che svolazzavano ancora a mezz’aria, mentre le poche piante lasciate in eredità da Erika giacevano riverse sul pavimento del salottino, con tutta la terra sparsa in giro.

    Guardai verso la porta del terrazzo: E le tende? No! Le tende no!, esclamai con voce strozzata dal dispiacere. Me le aveva regalate zia Carmela. Ora cosa faccio? Sono rovinate!

    Rimasi attonita immobile al centro della stanza.

    Tutto questo non può essere unicamente opera del mio cocker. - Pensai.

    Buona parte delle prove, infatti, portavano a quel gatto bastardo della mia vicina. Doveva essere entrato dalla porta a vetri che dà sul terrazzo! Ed io, come una sciocca, l’avevo lasciata pure aperta.

    Maledetto!, imprecai giurando che me l’avrebbe pagata cara.

    Jolly, nel frattempo, mi si avvicinò mesto come per chiedere scusa. Era così buffo con le piume ancora appiccicate sul naso umido e tra le orecchie! Gli feci una carezza: Lo so che hai cercato di fare buona guardia. Mi addolcii rassegnata: Non sono arrabbiata con te!

    Dopo essermi rinfrescata e messa comodamente in tuta, provai a riportare un po’ di ordine in quella casa.

    Era in momenti come quello che sentivo disperatamente la mancanza di Erika. Tra le due, era lei la più portata per le faccende domestiche: io me ne ero sempre approfittata vergognosamente!

    Entrai in cucina accompagnata dal mio inseparabile amico che, come sempre, scodinzolava disinvolto nella speranza di ricevere qualcosa di buono da mangiare. Peccato, però, che come cuoca lasciassi abbastanza a desiderare. Non faceva proprio per me. Avendo sempre poco tempo, perché troppo impegnata a sbarcare il lunario, mi capitava spesso e volentieri di trascurare la cosiddetta dieta mediterranea, salutare e ipercalorica.

    Il che, tradotto a livello molto pratico, significava che nel mio piatto non mancava quasi mai dell’ottimo cibo in scatola, o meglio precotto, riscaldato rigorosamente al micro-onde, accompagnato generalmente da un contorno costituito da schifezze varie ed il tutto innaffiato da the freddo o acqua minerale.

    Quella sera, però, avevo voglia di cambiare Che ne dici? Ci facciamo una buona pasta al sugo?, esclamai con genuina convinzione. Se non ci fossi tu, mio caro Jolly, ora mi sentirei molto sola.

    Erika, infatti, nell’ultimo anno era diventata per me più di una semplice coinquilina, davvero una sorella.

    Mettendo la pentola sul fuoco, guardai il salottino pensando con nostalgia a tutte le serate trascorse sul divano a chiacchierare. Nuovi incontri, delusioni amorose, esami andati a b.d.c. (botta di culo), tutte cose che ci si poteva raccontare solo la sera tardi davanti ad un mega barattolo di Nutella o, ancora meglio, di gelato alla stracciatella.

    Oltre a condividere le stesse origini meridionali, entrambe avevamo dovuto crescere molto in fretta, lottando duramente per conquistare la nostra indipendenza.

    Ero veramente felice che lei fosse finalmente riuscita a farsi ammettere in una delle scuole per stilisti più prestigiose di Firenze. Ci teneva tanto ed aveva studiato molto sodo per affrontare le dure selezioni.

    Ricordavo ancora come iniziò la nostra bellissima amicizia. Era il primo giorno di corso di disegno alla scuola professionale per disegnatrici di moda, ed eravamo da poco arrivate in città. Entrambe eccitate, piene di aspettative e sogni nel cassetto da realizzare, ma, allo

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