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L'invidia del Diavolo
L'invidia del Diavolo
L'invidia del Diavolo
E-book533 pagine7 ore

L'invidia del Diavolo

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Info su questo ebook

Roma, 1546, Giorgio Vasari, ospite dei Farnese, è impegnato nella stesura della sua opera più famosa, “Le vite de' più eccellenti pittori scultori e architettori”. Una sera viene a conoscenza di un macabro episodio legato al Bramante, un omicidio avvenuto quarant’anni prima, nascosto sotto le sembianze di un incidente. Vasari riesce ad organizzare un incontro con Cavioli, marito della donna uccisa e braccio destro del Bramante dal suo arrivo a Roma sino alla sua morte. Questi gli racconterà i tre lustri trascorsi al suo servizio, della brama di gloria e denaro che lo spinsero verso l’architetto, del suo accordo col male, nella sua forma più subdola, della sua unica missione, impedire la costruzione della Basilica di San Pietro. Gli spiegherà come, grazie alle qualità infuse dal suo padrone, fosse riuscito a soddisfare la richiesta per parecchi anni, usando sotterfugi, intrighi e atti dolosi. Rivelerà la sua alleanza con il cardinale Carafa, le truffe, la violenza e persino l’omicidio di un Papa. Ricorderà il percorso che gli aveva donato fama, gloria, amore, ma anche prigionia, e di come ogni tentativo d’infrangere l’accordo fosse stato pagato duramente. Solo l’intervento di un vecchio frate, antitesi del suo signore, gli aveva permesso di rompere il patto, troppo tardi per evitare il sacrificio di tutta la sua famiglia e di molti suoi amici. Cavioli non lesinerà i dettagli della vicenda, raccontando la costruzione di alcune delle migliori opere di Roma, alternando la storia ufficiale ad eventi sconosciuti e terribili. Alla fine farà luce sulla vicenda nella sua cruda realtà, e su come, anche lui, non fosse altro che una pedina in un gioco molto più grande. Vasari scoprirà da solo le conseguenze di quella conoscenza. Si ritroverà davanti ad un bivio, rivelare al mondo tutta la verità e rischiarne le conseguenze o fingere che nulla di quella sera fosse reale.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2022
ISBN9791222027562
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    Anteprima del libro

    L'invidia del Diavolo - riccardo Berardelli

    Riccardo Berardelli

    L'invidia del Diavolo

    UUID: 548bf805-2efd-4a96-bd4d-6b0f284283ca

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    Parte prima

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Parte seconda

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Parte terza

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Ultima parte

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Parte prima

    Primae sectioni

    Timent tenebris, non extra, sed intra vos

    (Temi le tenebre, non quelle al di fuori, ma quelle dentro di te)

    Il successo vi farà acquisire falsi amici e veri nemici.

    (Madre Teresa di Calcutta)

    "Alla resa dei conti, non c’è vizio che nuoccia

    tanto alla felicità dell’uomo come l’invidia."

    (Cartesio)

    Capitolo uno

    L’uomo scrutò la piazza, fece roteare la cappa e si coprì le spalle, abbassò il pesante cappello di flanella sulla fronte ed uscì dal vicolo.

    Il buio aveva invaso tutte le strade ed il vento gelido consigliava vivamente di rimanersene rintanati in casa e questo, dal suo punto di vista, era un consiglio prezioso e gradito.

    Non sapeva per quale motivo la paura lo avesse avvolto e, lentamente, si fosse insinuata fra le sue ossa, ma aveva imparato col tempo che certe sensazioni non andavano sottovalutate, poteva essere rischioso.

    Era vecchio, non particolarmente ricco e meno ancora importante, non aveva molti amici, ma nemmeno nemici. Almeno così pensava, nessuno avrebbe avuto motivo per prendersela con lui, eppure una mano gelida gli aveva impugnato il cuore e lo stava stringendo, sentiva la pressione aumentare ad ogni passo, percepiva il freddo passare attraverso quelle glaciali dita immaginarie ed insinuarsi nel suo sangue, rendendolo sempre meno fluido.

    Con questo angoscioso pensiero raggiunse la sponda del fiume e si mise a percorrerlo lentamente, la luna riflessa sull’acqua ritornava una flebile luce, disperdendo almeno in parte la macchia nera che aveva avvolto il paesaggio.

    Giunse nei pressi del teatro Marcello e si fermò.

    Delle sagome s’intravedevano accanto all’accesso del passaggio, sagome buie, pericolose.

    Si chiese perché dovesse considerarle pericolose e non seppe rispondersi, ma non cambiò idea, rimase in attesa, sperando se ne andassero.

    Aspettò qualche minuto, ma nessuno di quegli energumeni sembrava intenzionato ad abbandonare la postazione, nonostante le sferzate che il vento continuava a lanciare.

    Uno di loro si voltò e sembrò fissarlo.

    Erano lontani, dalla sua posizione faticava a distinguerli e la medesima cosa, suppose, fosse per loro, eppure avrebbe giurato che quell’essere lo stesse osservando.

    Rimase immobile, poi lo vide parlare con i suoi complici e decise di non aspettare oltre, si voltò e tornò sui suoi passi.

    Raggiunse il ponte Emilio e lo imboccò di buon passo, voleva allontanarsi il più possibile ed in fretta.

    Attraversò il fiume e raggiunse l’altra sponda, controllò che nessuno lo stesse aspettando, approfittando del buio, poi si voltò per accertarsi che quei loschi individui non lo stessero seguendo.

    Non vide nessuno in entrambe le direzioni, così proseguì.

    Si avviò verso la chiesa di San Crisogono, senza smettere di perquisire ogni singolo anfratto, alla ricerca di qualche pericoloso malvivente nascosto nelle tenebre, in attesa del suo passaggio.

    Non aveva percorso nemmeno un quarto della strada, quando notò dello strano movimento in lontananza,

    quei farabutti gli stavano tendendo un agguato.

    Avevano finto di lasciarlo andare solo per tranquillizzarlo, poi si erano catapultati sull’isola Tiberina ed ora lo stavano aspettando dall’altro lato del fiume, subito dopo il ponte.

    Si fermò e cercò di scomparire nel buio.

    Li osservò, non sembrava fossero in attesa del suo arrivo, non sembrava neppure che lo stessero cercando anzi, a dire il vero, non sembravano neppure gli stessi uomini di poco prima.

    Li studiò per alcuni istanti.

    Le sagome, al buio, non erano le stesse, troppo alti e troppo magri, forse si stava sbagliando.

    Li controllò ancora e decise che, effettivamente, non erano loro, non aveva di che preoccuparsi.

    Avanzò lentamente, poi vide l’ombra di quello che, dalla sua posizione, sembrava essere un pugnale, si fermò di nuovo, forse aveva un motivo per cui preoccuparsi, controllò alla sua destra e fece un rapido calcolo, se avesse preso il ponte sull’isola, sarebbe sbucato alle spalle del gruppetto precedente, evitando d’incrociare i vecchi, ma anche i nuovi compagni notturni.

    Svoltò di scatto e s’incamminò sul ponte.

    Evitò di fermarsi, la luce riflessa dall’acqua e la mancanza d’alberi a proteggere dalla vista permetteva a chiunque d’individuarlo e non aveva intenzione d’attrarre altri tipi poco raccomandabili.

    Arrivò sull’isola e si voltò, controllando alle sue spalle.

    Nessuno.

    Ricontrollò davanti.

    Nessuno.

    Fece alcuni passi, ma la tensione era troppo alta, ogni ombra si materializzava come un enorme mostro spettrale ed ogni più piccolo rumore detonava con la potenza di uno sparo.

    Si voltò e vide la chiesa di San Bartolomeo.

    Non ci pensò nemmeno un attimo e corse verso l’ingresso, superò la cancellata in ferro e raggiunse il pesante portone che proteggeva la chiesa, spinse, sperando fosse aperto.

    Il pannello di legno intarsiato si mosse lentamente e la tenue luce delle candele fece capolino dalla navata.

    L’uomo tolse il cappello ed infilò la testa nel piccolo pertugio, cercando di controllare tutto l’interno, non ne aveva motivo ovviamente, era una chiesa, cosa ci sarebbe potuto essere di tanto pericoloso in una chiesa?

    Nulla, ma ancora una volta, quella sera più di altre, la sua paranoia lo stava soffocando e non v’era modo di liberarsene.

    Quando fu quasi certo che non ci fosse nessuno, spinse un altro poco il portone, allargando il passaggio quel tanto che bastava per riuscire ad infilarsi, fece il primo passo all’interno, lo richiuse e avanzò lentamente sino a metà del piccolo corridoio fra i banchi della navata centrale, si guardò attorno con sospetto, poi si sedette in uno dei banchi alla sua sinistra.

    Le candele accese sull’altare erano poche, ma la luce, seppur flebile, rompeva lo schermo nero della sera e appagava come fosse manna caduta dal cielo.

    L’oro dei capitelli e del soffitto rifletteva il flebile chiarore, irradiandolo in tutta la chiesa, non era una vera luce, non si vedeva molto, ma in quel momento, per lui, valeva più del sole di mezzogiorno.

    Alzò la testa e rimirò il soffitto, poi guardò l’abside.

    L’enorme quadro con la Madonna in prossimità dell’altare era molto bello, non aveva idea di chi lo avesse fatto, non lo ricordava o forse non lo aveva mai saputo, ma faceva poca differenza, era comunque un bel quadro.

    Era un esperto di chiese, ne aveva viste tante, ne aveva costruite tante, o meglio, aveva aiutato molti architetti a costruirne davvero molte quindi, pensandoci bene, dopo tanto tempo e tanti progetti, un po’ si sentiva architetto anche lui.

    Rimase a contemplare l’altare in attesa che il tempo trascorresse, non sapeva esattamente quale vantaggio ne avrebbe tratto, ma pensava che, in ogni caso, una pausa in un luogo tranquillo non avrebbe potuto che portargli dei benefici.

    Improvvisamente una campanella suonò.

    Annunciava l’inizio dei vespri, pensò, o forse la fine, ma la chiesa era vuota, dov’erano i fedeli?

    La sua esperienza ecclesiastica, seppur di lunga data, si limitava alla sfera professionale, le sue conoscenze in merito alle pratiche religiose erano a dir poco scarse, così, per evitare problemi, decise che era arrivata l’ora di andarsene, come se i brutti ceffi incontrati poco prima fossero comunque meglio di un eventuale prete incontrato adesso.

    Si alzò e si diresse verso il portone.

    Come fatto in precedenza, mise la testa fuori e scrutò la piazzetta attraverso le inferriate.

    Non vide nessuno.

    Allargò l’apertura ed uscì.

    L’aria sembrava stranamente meno fredda e la mano che gli stringeva il cuore pareva avesse perso una parte del suo vigore, fece un profondo sospiro, si rimise il cappello e si diresse verso il ponte Frabicius, sperando di non fare altri incontri.

    Superò il fiume e controllò la strada.

    Le ombre scure che tanto lo avevano intimorito erano ancora ferme dove lo aveva lasciate, ma da quella nuova posizione capì che non erano poi così pericolose, non erano altro che una compagine di ragazzini, nulla di più.

    Si voltò e proseguì sulla strada che costeggiava il corso del fiume, meno infreddolito e meno pauroso di prima, ma sempre preparato a reagire ad ogni ombra che, vera o falsa che fosse, sembrava attenderlo.

    Si mosse di buon passo sino a Ponte Sisto, poi imboccò la via parallela al fiume, quella fatta realizzare da Giulio II, e si diresse verso il palazzo dei Farnese, gli bastavano ancora due minuti.

    La zona intorno alla residenza era ancora un cantiere, la morte del Sangallo aveva bloccato per l’ennesima volta i lavori, ma l’entrata in gioco del Buonarroti sembrava aver risolto il problema.

    Proseguì, costeggiando l’edificio, e si fermò davanti ad una porta, all’angolo della nuova piazza.

    Controllò alle sue spalle, poi bussò.

    La porta si aprì ed un uomo con una lunga barba nera e degli occhi penetranti si presentò sull’uscio.

    Messer Cavioli, suppongo disse l’uomo dall’interno.

    Per servirla rispose il visitatore.

    Prego, entrate pure.

    La porta si aprì completamente e l’uomo entrò nella stanza.

    Un grosso camino riscaldava l’ambiente e, davanti ad esso, un tavolo con due piatti e due bicchieri sembrava in attesa di commensali.

    Datemi il mantello disse l’uomo.

    Cavioli si tolse l’indumento ed il cappello e li porse al suo ospite il quale li appese accanto alla porta.

    La stanza era grande e ordinata, le candele, a gruppi di tre, illuminavano tutto lo spazio e con il loro leggero movimento ondulatorio davano un senso di tranquillità. Sul fondo, allineato con la porta d’ingresso, un passaggio dava accesso a quella che, molto probabilmente, era la cucina e, proprio accanto, una scala portava al piano superiore.

    Non era un palazzo, almeno non come lo si intendeva normalmente, ma la dimensione degli ambienti e la qualità degli arredi indicavano senza ombra di dubbio un certo livello d’importanza, alcuni gradini al di sopra del suo, nella scala sociale.

    Io sono Giorgio Vasari, si accomodi disse il padrone di casa, indicando il tavolo.

    Cavioli si avvicinò al tavolo, spostò la pesante seggiola e si sedette.

    Una donna robusta e con una strana acconciatura si presentò nella sala con una brocca di vino e la mise sul tavolo, andandosene senza dire una parola.

    Un’altra donna, più magra e con un fazzoletto sulla testa, entrò subito dopo, portando un vassoio con della carne, lo mise sul tavolo e scomparve come la precedente.

    Mi sono permesso di farvi preparare qualcosa per cena, ho pensato che, vista l’ora, sareste stato affamato.

    Cavioli lo guardò grato, in effetti era affamato e non capitava spesso di poter cenare con del fagiano annaffiato da quello che, molto probabilmente, era dell’ottimo vino.

    Vi ringrazio, è stato un pensiero gentile rispose Cavioli.

    Allungò una mano ed afferrò un pezzo di carne, mettendoselo nel piatto.

    Vasari lo guardò, poi posò lo sguardo sulla forchetta ferma accanto al piatto.

    Non era ancora un oggetto abituale, di certo non sulle tavole del popolo, ma lo sarebbe diventato presto, almeno questa era la sua idea. Non disse nulla, anche per non mettere a disagio il suo ospite, sollevò la brocca e verso del vino per entrambi, poi prese un pezzo di carne, anche lui con le mani e se lo mise nel piatto.

    Cavioli si pulì la bocca con il dorso della mano, bevve un sorso di vino e posò il bicchiere.

    Mi ripetete per quale motivo mi avete invitato? Chiese, senza guardare il suo commensale.

    Vasari posò a sua volta il bicchiere e lo fissò per un istante.

    Sto scrivendo un’opera sulla vita dei grandi artisti e voi mi potete essere molto utile rispose.

    Perché? Chiese, fingendo di non capire.

    Perché vorrei conoscere nei dettagli le vicende di alcuni maestri, Messer Bramante, nello specifico, e so che voi siete il massimo esperto in circolazione, in merito a questo argomento.

    L’espressione di Cavioli tradì un certo disagio, abbassò lo sguardo e addentò un pezzo di carne, masticandolo lentamente, non era educazione parlare con la bocca piena.

    Vasari attese pazientemente, non aveva fretta e aveva preventivato una certa reticenza da parte di Cavioli, si appoggiò allo schienale e gli lasciò tutto il tempo che ritenne necessario.

    Alcuni minuti dopo, Cavioli alzò la testa e lo guardò.

    Perché proprio Messer Bramante? Roma è stata ed è tuttora la culla di tantissimi architetti, pittori e scultori, alla pari, forse addirittura migliori di lui.

    Perché è stato uno dei più influenti di Roma nel periodo d’oro della città, ha progettato e costruito innumerevoli capolavori, primo fra tutti la nuova Basilica di San Pietro.

    Il solo nominare la basilica scosse Cavioli che ripiombò nel silenzio.

    Vasari attese con calma, senza forzare la mano, sino a che l’uomo non decise di parlare.

    Cosa posso dirvi io che non vi possa dire chiunque altro abbia lavorato con lui? Chiese, cercando di mantenere un tono neutro.

    Voi avete praticamente vissuto con lui dal giorno in cui è giunto a Roma sino alla sua morte, eravate il suo braccio destro, il suo confidente, direi che nessun altro sia in grado di fregiarsi di tali titoli.

    Vero, ma quello che vi racconterei io lo conoscono tutti, è storia.

    Non credo, anzi, sono certo che non sia così.

    Lo sguardo di Cavioli s’irrigidì, forse Vasari stava solo fingendo di sapere qualcosa per ingannarlo, o forse no, ma non avrebbe ceduto senza essere certo di non avere altre vie d’uscita.

    Perché siete così convinto d’aver ragione? Chiese, cercando di mostrarsi impermeabile al suo attacco.

    Vasari prese il bicchiere e finì il vino, lo posò e si passò un dito sulle labbra.

    Alcuni giorni orsono, mi sono imbattuto in un uomo che vi conosce bene. Abbiamo parlato di voi, della vostra vita e della vostra storia e fin qui, nulla di strano. Poi siamo finiti a bere insieme alla taverna di Bruno, è un luogo che vi dovreste ricordare.

    Cavioli annuì, il principio non prometteva nulla di buono.

    Siamo entrati e ci siamo seduti in un angolo, abbiamo ordinato da bere e abbiamo iniziato a chiacchierare. I nostri discorsi hanno attirato l’attenzione di altri clienti che si sono avvicinati ed hanno iniziato a raccontare la loro versione dei fatti e, fin qui, come già detto, nulla di strano ripeté Vasari.

    Cavioli continuava a fissarlo sempre più preoccupato, iniziava a sospettare che non fosse uno stratagemma, Vasari sapeva esattamente quello che c’era da sapere.

    Le storie si mischiavano, le versioni si confondevano, i pareri discordavano, ma su una cosa erano tutti d’accordo, avevate fatto qualcosa di grave e ne avevate pagato le conseguenze.

    Vasari si fermò ed attese la reazione di Cavioli, emulando un esperto cacciatore, lo aveva attirato come una preda nella sua tana, l’aveva distratta con un’esca ed ora anelava il momento in cui avrebbe potuto affondare il colpo decisivo.

    Se lo dite voi rispose con calma Cavioli.

    Non lo dico io lo incalzò Vasari, lo dicono le persone che vi vedevano in taverna tutte le sere.

    E cosa dicevano, esattamente?

    Hanno raccontato che una sera, al rientro dal funerale di vostra moglie, siete arrivato alla taverna ed avete iniziato a bere, e avete continuato sino alla chiusura. A mano a mano che passava il tempo e ingurgitavate vino, la vostra lingua si scioglieva e raccontava, sempre di più, al principio nulla d’interessante, nulla che la gente già non sapesse, ma poi la storia si è fatta intrigante.

    Vasari fece una pausa teatrale, aspettando che il suo ospite continuasse il racconto.

    Cavioli aveva ormai capito che Vasari non stava sparando alla cieca nella speranza di colpire qualcosa, aveva inquadrato perfettamente il bersaglio e stava solo giocando con lui, ma non volle dargli la soddisfazione di cedere, almeno non così presto.

    Come avete detto voi, la gente parla molto, soprattutto quando ha bevuto, e gli ospiti di quella taverna non fanno certo eccezione.

    Su questo concordo, ma dovete ammettere che se troppe persone riportano la stessa storia, un fondo di verità ci deve essere.

    Un fondo, come dite voi, che di per sé, è poca cosa sottolineò Cavioli.

    Quindi non volete proprio raccontarmi quello che è successo? Chiese Vasari, puntando sulla gentilezza.

    Sembra ne sappiate più di me, perché non lo raccontate voi?

    Vasari sorrise, quell’uomo era nato contadino, ma aveva lavorato tutta la vita accanto ad architetti, scultori e pittori d’alto livello, oltre ad un gran numero di alti prelati, e aveva imparato molto da tutti loro. Sapeva parlare e sapeva ascoltare ma, in special modo, sapeva quando non dire, aspettando l’evolvere degli eventi, pratica ben nota ed utilizzata dai politici e dai preti.

    Pensò che non fosse il caso d’insistere oltre e decise di esporre tutto quello che già conosceva.

    D’accordo disse, vi dirò quello che so. A detta dei numerosi membri della taverna, quella sera eravate tornato dal funerale di vostra moglie, avevate il morale sotto i tacchi e la faccia sconvolta, vi siete seduto in un angolo e siete rimasto in silenzio, almeno per la prima caraffa di vino. Alla seconda avete iniziato a raccontare di vostra moglie, di come era morta, di chi era il responsabile. La gente non capiva, tutti pensavano si fosse trattato di un incidente, una crudele fatalità, ma voi non eravate dello stesso parere, continuavate a sostenere che vostra moglie fosse stata uccisa e sapevate anche da chi.

    Cavioli lo ascoltava in silenzio, conosceva la storia e, purtroppo, sembrava che quella sera avesse parlato veramente troppo.

    Si appoggiò allo schienale con l’aria rassegnata, in attesa dell’inevitabile, ma non disse nulla.

    Nei ricordi dei presenti, al di là di alcune ovvie differenze, qualcuno vi aveva punito perché non avevate rispettato un patto e, sempre secondo la linea di pensiero più diffusa, il patto riguardava la costruzione della chiesa, non una chiesa, ma LA chiesa.

    L’articolo, quasi urlato, non dava adito a dubbi e trascinava sempre più a fondo le flebili speranze a cui si era aggrappato, nonostante ciò, Cavioli tentò una stregua difesa.

    Voi continuate a parlare di opinioni, versioni, pareri, linee di pensiero, tutte belle parole, ma tutte molto leggere, direi quasi volatili, vi servirebbe qualcosa di più concreto, ne avete?

    Vasari fece una strana smorfia, aveva sperato di giungere ad una conclusione più velocemente, ma capiva la riluttanza del suo ospite e più questo insisteva con la sua reticenza, più capiva quanto importante fosse il segreto che si portava dentro e quanto, probabilmente, fosse pericoloso estrarlo. Meditò per un momento sul rapporto fra il valore delle informazioni che avrebbe ottenuto e le possibili conseguenze che poteva comportare conoscerle e decise che non aveva alcuna prova dei rischi a cui sarebbe eventualmente andato incontro e, di conseguenza, non poteva sottrarsi all’obbligo di ricerca della verità.

    Per fortuna, o purtroppo, ho delle prove concrete che avrei preferito non utilizzare, ma vi vedo costretto a farlo. Ho un testimone che ha visto l’incidente di vostra moglie ed è pronto a giurare che non fosse sola, quando è caduta, c’era un uomo con lei sulla balaustra e quell’uomo l’ha spinta di sotto.

    Vasari si fermò, non aveva detto nulla che Cavioli già non sapesse o, quantomeno immaginasse, ma sentirlo dire da un’altra persona era diverso, toglieva quell’aura di mistero, annullava quella piccola speranza che, in cuor suo, continuava a cullare e rendeva la visione dell’evento per ciò che era in realtà, un omicidio, senza più alcun dubbio, senza nessuna attenuante.

    Cavioli voltò il capo verso il camino ed osservò le fiamme.

    Per un attimo si vide lanciarsi dentro quel fuoco e finire incenerito, liberato da tutti i problemi che lo assillavano, da tutto il dolore che lo perseguitava.

    Per un attimo pensò realmente di farlo, poi vide qualcosa tra le fiamme, avrebbe giurato fosse un volto.

    Si ritrasse spaventato, poi guardò di nuovo, ma non vide più niente.

    Rimase a fissare la brace ardente, in cerca di qualcosa che, forse, non era mai esistita, poi tornò a guardare Vasari, ma i suoi occhi non erano più gli stessi, era scuri, sembravano vuoti.

    Prima di raccontarvi tutto esordì, voglio chiedervi una cosa.

    Tutto ciò che volete.

    Voi dite di conoscere la verità, sapete quello che è successo e lo sapete meglio di me, ma io mi chiedo, siete certo di conoscere la verità? Siete sicuro che quello che vi hanno detto sia la verità? E se così fosse, perché l’avrebbero raccontata proprio a voi? Potevano dirlo a chiunque o a nessuno, perché voi?

    Vasari non rispose, non erano vere domande, ma solo l’introduzione di quella che sarebbe stata l’ultima difesa, l’estremo tentativo d’andarsene da quella casa senza raccontare nulla.

    Ovviamente voi vi fidate ciecamente delle persone che vi hanno raccontato quegli eventi, ma dovete sapere una cosa, quello che avete sentito, ammesso che sia vero, è nulla in confronto alla completezza della faccenda, un piccolo episodio in un mare d’altre situazioni, più tragiche e più intricate. Volete la verità, ma dovete sapere che questo vi immergerà in un oceano buio dove non potrete sapere chi vi stringerà le gambe e tenterà di tirarvi a fondo. Sarà una battaglia dove non potrete contare su nessuno e dove non sarete in grado di capire chi sta dalla vostra parte e chi contro di voi. Affronterete l’essenza del male, e non esiterà ad ingoiarvi, quindi la domanda è una sola, voi volete la verità, ma siete davvero certo di poter reggere la verità?

    Vasari rimase impassibile, ma il suo stomaco si contrasse in uno spasimo.

    Il suo ospite sapeva come esporre una questione e, più ancora, sapeva rendere inquietante una dissertazione. L’uomo che aveva davanti si era calato nella parte del dissuasore o lo aveva fatto nel corpo, ma soprattutto nell’anima e, per come la vedeva lui, non era un semplice modo di dire.

    Guardava Cavioli e non lo riconosceva, la persona che in questo momento stava parlando usava un linguaggio diretto, un'enfasi studiata, non era la stessa persona entrata un'ora prima da quella porta, eppure era sempre lui, com’era possibile?

    Il crampo allo stomaco strinse ancora più forte, ma Vasari finse di non sentirlo, forse era coraggio, forse amore per la verità o forse solo estrema inconsapevolezza dell’enorme catino infuocato in cui si stava lasciando cadere, questo non lo avrebbe saputo dire, ma decise che, in barba a tutto, avrebbe continuato sulla sua strada.

    Credo di poter reggere disse con un filo di voce.

    Sappiate che, una volta dato il via, non si torna più indietro, per nessun motivo, non vi permetterò di mettere in marcia un carro e saltarne giù una volta che ha preso velocità, sarete con me, al mio fianco, sino alla fine, siete ancora convinto?

    Lo sono, da dove iniziamo?

    Dal principio.

    Capitolo due

    Era una splendida mattinata di sole, l’aria era fresca e piacevole e la gente riempiva le strade.

    Io ero uscito di casa presto, avevo bisogno di un lavoro e sembrava che le occasioni non mancassero, bastava sapersi adattare ed in quello ero un esperto. Avevo deciso di passare dalla bottega del Buonarroti, lo avevo conosciuto alcune sere prima e ne ero rimasto affascinato. Ero entrato nel suo laboratorio e la sola visione della sua ultima opera mi aveva paralizzato. Era una Pietà, mi disse che la stava realizzando per il cardinale francese Jean de Bilheres.

    Era la cosa più sublime che avessi mai visto: la morbidezza del marmo, la definizione dei corpi, l’espressione dei visi, i piccolissimi dettagli, nemmeno nei miei sogni più profondi avrei immaginato che si potesse creare una cosa simile.

    Il maestro, come poi lo avrebbero chiamato tutti, mi diede la possibilità d’osservarla da vicino, di toccarla, così feci scorrere la mano sul marmo e se non fosse stato per il freddo della superficie, avrei giurato fossero persone in carne e ossa.

    Rimasi in contemplazione per alcuni minuti e poi capii, tutto mi era diventato chiaro, non sarei più stato un operaio, non potevo passare la mia vita portando secchi di materiale, volevo fare di più, volevo essere di più, volevo un’altra vita.

    Ringraziai il maestro ed uscii, non sapevo bene cosa avrei fatto, ma non sarei più andato in un cantiere a cercare lavoro, avrei cercato qualcosa di diverso, qualcuno che mi permettesse di fare la differenza.

    Camminai lungo le vie del centro e mi ritrovai nel Campus Agonis, c’era molta gente, ma nessuna attività particolare. Ad un tratto una carrozza si fermò davanti a me, rischiando d’investirmi.

    Mi scansai e rimasi fermo sul ciglio a guardare quale personalità ci fosse e quale urgenza avesse.

    Il cocchiere scese ed aprì lo sportello.

    Un uomo quasi calvo e dagli abiti importanti uscì dalla carrozza e si fermò accanto a me.

    Osservava l’ampio spazio davanti a sé con l’espressione sognante tipica di un bambino.

    Era assorto, stava guardando qualcosa che solo lui vedeva, forse immaginava come si sarebbe potuto riempire quell’enorme vuoto, se solo gli fosse stata data l’opportunità di metterci mano, o forse studiava quella che, dal suo punto di vista, era una nuova forma di vita.

    Mi spostai di lato ed afferrai il cocchiere per un braccio.

    Chi è? Chiesi sottovoce.

    Il Bramante, è arrivato fresco fresco da Milano.

    Bramante, avevo sentito parlare di lui, aveva lavorato per Ludovico il Moro, cosa ci faceva a Roma?

    Mi dissi che, in fin dei conti, cosa lo avesse allontanato da Milano non era affar mio, quello che realmente contava in quel momento era la sua presenza proprio dinnanzi a me, era la mia occasione.

    Pensai a quanto fosse assurda la vita, quella mattina ero uscito per cercare un lavoro come manovale, poi la mia visione del mondo era radicalmente cambiata, era bastata una statua per stravolgere il mio futuro, ed ora, a meno di un’ora dall’evento, mi ritrovavo fianco a fianco con l’uomo che avrebbe potuto rendere reale il mio sogno.

    Mi accostai e feci la mia mossa.

    Messer Bramante, benvenuto a Roma.

    Si voltò e mi fissò stupito.

    Ci conosciamo? Chiese.

    No, ma vi stavo aspettando.

    Davvero?

    La vostra fama vi precede, sapevo del vostro arrivo e immaginavo che vi servisse un aiutante, un uomo esperto che conoscesse la città e le persone giuste, un uomo che risolvesse tutti i vostri problemi, così mi sono fatto trovare pronto.

    E cosa vi fa credere che, ammesso bisognassi di un aiutante, decida di rivolgermi proprio a voi?

    Perché potreste cercare in giro, se voleste perdere tempo, ma nessuno vi garantirà la mia preparazione o le mie conoscenze, almeno non entrambe le cose.

    Questo lo dite voi rispose Bramante, stupito da tanta superbia.

    Vero, ma alla fine concorderete con me, vi basterà fare una ricerca fra i candidati papabili per il ruolo per il quale mi sono proposto e vedrete che non ho rivali.

    La sparai grossa. Non avevo molta esperienza e non conoscevo persone influenti, ma mi sarei inventato qualcosa, l’importante era entrare nella schiera degli assistenti di quell’uomo, quello sarebbe stato il primo passo verso la mia nuova vita.

    Bramante lasciò spaziare lo sguardo lungo tutto il campo e si lasciò sfuggire un leggero sorriso. Avevo fatto colpo, avevo ottenuto l’effetto sperato, oppure si stava solo prendendo gioco di me?

    Dove vi posso trovare, nel caso decidessi di accettare la vostra offerta? Chiese.

    Non potevo esserne certo, ma avrei giurato che la sua non fosse una vera richiesta, ma più che altro un modo elegante per sbarazzarsi di una fastidiosa compagnia, comunque stetti al gioco.

    Dopo il tramonto mi potete trovare alla taverna di Bruno, chiedete in giro, la conoscono tutti.

    Ci penserò.

    Salutai e me ne andai. In un’altra occasione sarebbe parso un segno di superbia, presunzione al limite della spocchia e forse lo era, ma volevo mostrare una sicurezza tanto spavalda quanto inconsistente, sperando che la seconda qualità non venisse scoperta. Cercai di scrutare il comportamento del Bramante e lo vidi intento al suo studio, come se non fossi mai esistito. Forse avevo preteso troppo, non ero stato credibile o, semplicemente, era più furbo di me, non lo avrei saputo dire. Quello che mi rimase fu un enorme senso di frustrazione, l’idea di un fallimento e lo considerai un grosso problema, almeno per i dieci passi successivi.

    Dieci passi, avete capito bene, l’intervallo di spazio fra Messer Bramante e l’uomo che, più tardi, si presentò come Menhec, anche se non era esattamente il suo nome, e forse non era nemmeno un uomo, ma poco importa, quello che davvero vale è che quell’incontro cambiò la mia vita.

    Avrà avuto trent’anni, era più alto di me, magro, molto magro, con la faccia allungata, un pizzetto sottile e a punta, con dei baffi affilati e sporgenti. Aveva i capelli neri come la pece che raggiungevano le spalle e dei vestiti scuri, di fattura strana, ma eleganti, di valore e portava un cappello, uno strano cappello alto e nero, così come il mantello, pesante, nonostante la temperatura mite.

    Anche le scarpe erano a punta, ricordava vagamente qualche mercante orientale, più probabilmente turco.

    Mi si accostò e mi prese per un braccio.

    Mi voltai di scatto, pronto a rispondere per le rime, ma quando i miei occhi incrociarono i suoi, tutta la mia baldanza scemò, mi sentii piccolo, impotente, alla mercé di chiunque, i suoi occhi erano freddi, glaciali, eppure magnetici, il freddo era tale da riempire l’aria e le ossa, non sarei riuscito a staccarmi da lui, anche se era la cosa che avrei voluto di più in quel momento.

    Mi fissò per un attimo poi, con una voce mielosa, mi disse:

    Non avete fatto una cosa carina.

    Con un grosso sforzo riuscii a replicare.

    Non credo siano affari vostri.

    Lo sono, oh se lo sono.

    E perché mai? Chiesi, cercando d’estrarre anche l’ultima goccia di coraggio che avevo sepolto.

    Vedete, Messer Cavioli, voi avete vantato crediti e conoscenze che non avete, ma io sono qui per aiutarvi, non per ostacolarvi, non dovete aver timore di me.

    Come conoscete il mio nome? Chiesi, ancor più preoccupato di prima.

    Conosco molto di voi, in verità, conosco molto di tutti.

    I suoi occhi cambiarono, non erano più freddi, ma roventi, scavavano nei miei, come se mi leggessero dentro, sentivo le sue mani perlustrare la mia mente e la cosa mi terrorizzò.

    Cosa volete? Riuscii a dire con un filo di voce.

    Aiutarvi rispose, se volete.

    E come fareste?

    Io vi posso dare quello che vi serve per rendere reale la vostra finzione, diventerete l’assistente di Messer Bramante e lavorerete con lui, fin che vorrete.

    E voi, cosa ci guadagnate?

    L’uomo sorrise, mettendo in mostra una fila di denti color avorio, troppo bianchi per essere veri.

    Diciamo che mi dovreste un favore si limitò a dire.

    Che genere di favore?

    Lo saprete, a tempo debito.

    Mi lasciò il braccio, non avevo ancora accettato, ma lui già conosceva la risposta.

    Sarò ad attendervi dietro la basilica di Cosma e Damiano, non mi fate aspettare troppo.

    Si voltò e sparì tra la folla.

    Rimasi bloccato sul posto, la gente mi schivava, borbottando e lamentandosi, qualcuno mi urtò volontariamente, ma io non mi mossi, per un tempo interminabile restai immobile, pietrificato.

    Improvvisamente l’aria gelida scomparve, feci un primo timido movimento e mi spostai dal passaggio principale, la chiesa era distante, non avevo idea di quanto tempo fossi rimasto nel nulla, ma non potevo temporeggiare oltre, così, senza quasi rendermene conto, mi avviai di buon passo verso i fori imperiali.

    Percorsi tutta la strada chiedendomi se davvero volevo immischiarmi con quell’uomo, mi terrorizzava l’idea ma, allo stesso tempo, sembrava non riuscissi a distogliere la mente dalla fortuna che mi stava proponendo.

    Non ero mai stato propenso ad avere favori da ricambiare, in special modo quelli di cui non conoscevo l’entità, ed ero ancora dello stesso parere, ma più ripensavo alla nostra conversazione di poco prima, più mi convincevo di quanto la mia decisione fosse giusta.

    Con questo conflitto interiore giunsi alla chiesa.

    Controllai la strada e non vidi nessuno e, non mi vergogno di dirlo, ne fui lieto.

    Improvvisamente sentii una mano sulla spalla.

    Mi voltai lentamente e vidi un uomo, non quello di prima, un uomo normale, un mercante o qualcosa di simile.

    Venite mi disse.

    Si avviò senza aspettare risposta, io lo seguii ed iniziai a sudare.

    Costeggiammo il Colosseo e le terme di Tito Vespasiano, proseguimmo sino allo slargo di San Giovanni, poi svoltammo verso l’Esquilino.

    Per un attimo ebbi il terrore che mi portasse nei boschi, poi pensai che se avesse voluto uccidermi, avrebbe potuto farlo tranquillamente anche dove eravamo, senza perdere tempo, quindi non rischiavo nulla, almeno non al momento.

    Camminammo in silenzio sino ad una casa sul limitare dell’abitato.

    Si fermò davanti alla porta e bussò, prima due colpi, poi uno e poi ancora due.

    La porta si aprì ed entrammo.

    Era un locale buio, tutti gli scuri erano chiusi e non filtrava luce da nessuna delle finestre, solo una piccola candela in un angolo e un’altra in mano all’uomo che ci aveva aperto rischiaravano a malapena l’ambiente.

    C’era un odore strano, al primo impatto sembrava muffa, ma era peggio, più acido, più penetrante, aveva un sentore di escrementi, ma non solo, era l’odore che si sentiva nelle case in cui c’era un morto, era l’odore della decomposizione.

    L’uomo non disse nulla, si voltò e attraversò la stanza, dirigendosi verso il retro della casa.

    Noi lo seguimmo, l’atmosfera era tetra, le loro facce inquietanti, c’era tutto quello che serviva per consigliare una fuga immediata, ma ormai ritenni fosse troppo tardi per rinunciare e darmela a gambe levate, così rimasi e fu la decisione peggiore della mia vita.

    Entrammo nella seconda stanza, buia come la prima.

    L’odore era ancora più forte e penetrava nelle narici, scendendo nella gola, ma la cosa peggiore fu il freddo improvviso che mi avvolse, come un mantello, mi strinse in una bolla ghiacciata ed iniziò ad infiltrarsi sotto la mia pelle.

    C’era quell’uomo, quello bizzarro, era seduto accostato al muro in fondo alla stanza, non lo si vedeva bene, ma i sui occhi erano penetranti come se fossimo stati alla luce del sole.

    Indossava ancora quel curioso cappello e teneva le mani intrecciate all’altezza del mento.

    C’era una candela alla sua destra che lo illuminava leggermente, quel tanto che bastava per rendere l’immagine ancor più spaventosa.

    La nostra guida si dileguò e restammo in tre.

    L’uomo bizzarro sorrise ed il sangue mi si ghiacciò nelle vene, assumendo improvvisamente la stessa temperatura del resto del mio corpo.

    Vedo con piacere che avete accettato il mio invito disse, con quella tonalità melliflua che donava un senso lascivo a qualunque parola venisse pronunciata.

    Mi chiedo se ho fatto la scelta giusta risposi, cercando di nascondere il tremore della voce.

    Sicuramente sì, almeno dal mio punto di vista.

    E dal mio? Chiesi, provando ad essere più intraprendente.

    Anche dal vostro, vedrete, dovete solo dare tempo al tempo, e tutto vi sembrerà più chiaro.

    Non risposi subito, non avevo idea di cosa dire, poi cercai di ottenere almeno un po’ di chiarezza in tutta quella faccenda.

    Vorrei sapere, se possibile, chi siete, come pensate di aiutarmi e cosa dovrò fare per ricambiare il favore.

    L’uomo si lisciò i baffi con i pollici, senza slegare le mani, poi guardò il mio accompagnatore che, senza dire una parola, si dileguò nel buio.

    Mi potete chiamare Menhec rispose, e vi darò le competenze e le conoscenze che vi serviranno per rendervi il miglior assistente che Roma abbia mai avuto. Non dovrete fare altro che ascoltare le richieste del vostro datore di lavoro, nello specifico Messer Bramante, e riportarle al mio incaricato che le soddisferà.

    "E come farà? Intendo, io non lavoro per Messer Bramante e, anche se fosse, come sapete che riuscirà a soddisfare tutte

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