Se solo potessi
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Anteprima del libro
Se solo potessi - Elisabetta Magni
Di’ il tuo nome
Una curva a parabola si infila tra l’isolotto e la costa. Prima sale con grazia, poi si piega brusca e precipita nella baia. A guardarla da lì, di notte, in campo lunghissimo, l’Aurelia spacca il mondo in due: da un lato la roccia e la vecchia galleria ferroviaria, dall’altro il buio. Al centro, sospeso nel nulla e illuminato a strappi dalla luce dei fari, il cartello Pontorno galleggia nel vuoto.
La strada è una gola tra le rocce in quel punto, ma si apre uno slargo su un lato, a un tratto, quasi una spalla. Il molo è là sotto, un braccio di cemento steso in mare.
La luce lambisce la costa. Le case hanno le imposte chiuse, i negozi le serrande calate, i giardini sono angusti, soffocati da oleandri incolori; i pini, le siepi, i rari passanti si perdono in una nebbiolina irreale, si staccano appena dalla terra e dal mare.
A destra, oltre le palme, il Grand Hotel Palace. Martine Carol faceva la puttana e sedeva al tavolino proprio lì, con Raf Vallone, secoli addietro. Giravano un film, La spiaggia. I tavoli sono scomparsi, resta un palazzo anni Venti, giallo paglia, ben tenuto.
C’è silenzio, è tutto chiuso. Il municipio, l’edicola, il Bar del Gatto. La chiesa ha una facciata di cartone a quest’ora: angeli, volte e colonne sono soltanto dipinti. Dentro, tra i carruggi, si scorge qualche cane.
Quando il sole taglia l’orizzonte, oltre il Palace è ancora buio. Tra le aiuole della passeggiata senti la fontana, il torrente, il mare.
Qui l’Aurelia fila via, ma l’ultimo lampione individua appena un varco, su un lato: è stretto e si aggira tra i faggi, sale e si torce fino alla clinica. Poi dissolve in nero.
L’ausiliaria ha appena acceso la luce.
Il tubo al neon è sopra il letto e lei è china sul lenzuolo sgualcito. Lo sistema, poi alza lo sguardo. C’è una donna lì accanto. Siede nell’angolo buio, le mani in grembo.
«Eccoti!», esclama l’ausiliaria. Sorride, poi va alla finestra. È chiusa.
Un pino secolare si staglia contro il blu del cielo, mentre una strada di lamiera segue il cubo della mensa immerso nei vapori del cibo.
L’ausiliaria passa lo straccio. Dà un occhio al bagno e mentre tende la schiena chiede alla donna seduta nel buio:
«Allora?»
Quella non fa una piega, non parla, pensa al pino.
«Tutto bene?», ripete l’altra avvicinandosi.
La donna è sempre immobile. Ma quando il buio scarica a terra con un bagliore improvviso, il suo viso si accende, e si volta.
L’ausiliaria si allontana: a domani, dice piano. Ma ha fretta.
1.
Massimo ha appena lasciato la clinica. Discende le curve senza farsi domande, con il sollievo di chi fa ciò che deve: Rebecca è al sicuro.
Quando il mare gli si spalanca di fronte però, il conforto sparisce. Lo assale un senso di vertigine, perciò si aggrappa al volante.
È nato qui, a Pontorno, in una delle ville che guardano il mare, inerpicate fino alla pineta che si ritira a ogni incendio; ma c’è tornato da poco, due mesi circa, uno dei quali su e giù dalla Clinica. Fino all’anno prima aveva casa in città, in un quartiere grigio verde. Il colore si doveva alla strada su cui dava il terrazzo: quattro filari d’alberi e quattro filari d’auto che tingevano di fuliggine tutto quello che mettevi sul balcone, panni, sedie, pure lui, Massimo, che tornato dall’ufficio beveva un bitter dopo la doccia. Sorrideva soddisfatto, asciugamano al collo; nella testa aveva un programma: una casa più grande, un giardino, i bimbi, un cane. Tutto procedeva con ordine, senza sorprese.
Un giorno però i conti hanno smesso di tornare. Quando ne prende atto, decide; lascia la città e se ne torna a Pontorno.
Rebecca è con lui, ma è muta e ha lo sguardo spento. L’ha convinto la sua salute, precaria, è indubbio, ma la causa, secondo Massimo, è lo smog, i vicini scontrosi, la scarsa attività fisica.
Arrivati al mare, nella vecchia casa di famiglia, tutti comprendono che il malanno della moglie è più serio di quanto lui dia a vedere. Ne è persuaso lui stesso, d’altronde, benché non lo dica. Da tempo Rebecca è in cura, solo che a un tratto ha smesso di parlare, di muoversi, di dare cenni di vita. Le sue condizioni gli appaiono irragionevoli, non le riesce a comprendere, o le comprende soltanto in parte. Ha pianto più volte, per lei e per se stesso, per i sogni in frantumi, l’egoismo, la paura. Ha accanto un’estranea ora, ma è un’estranea che ama. E non sa perché.
È sempre stato reticente a manifestare i propri sentimenti; gli è sempre stato difficile esprimere a parole emozioni complesse e la malattia di Rebecca aveva un contenuto così vago che il solo pensiero gli spalancava un dirupo sotto i piedi. Non ha mai pronunciato la parola follia. È spaventosa, impensabile, come una cella senza coordinate o un file il cui formato non esiste.
Perciò è tornato a Pontorno e ora, alla vista di casa, rilascia le mani avvinghiate al volante. La chiamano la Villa del Professore perché anni prima il padre di Massimo aveva comprato le fondamenta da un tizio che pare insegnasse all’università, ma è Villa Maria adesso. L’ingresso conduce a un sentiero di sassi che si inerpica lento tra cespugli di rose, ginestre e ortensie e arriva dritto al patio dell’appartamento del piano inferiore: il suo e di Rebecca. Una scala indipendente porta all’appartamento padronale. Questo è più grande di quello del piano sottostante, guarda il mare dal terrazzo, appena riparato da una tenda degli stessi colori dell’acqua. Lungo il recinto e sul retro, pini e pini con la chioma a ombrello che conciliano il sonno. «Altro che pillole!», esclama salendo le scale ed entrando in cucina.
«Come sta?», chiede sua madre.
«Polpette al sugo!», esclama il figlio soddisfatto.
«Sì. Ma lei?»
Massimo prende una sigaretta e si stende in terrazza, guarda il mare; percorre la costa fino al molo. Si tuffava da laggiù quand’era ragazzo, e lì aveva conosciuto Rebecca, dieci anni prima. Prendeva il sole su uno scoglio e aveva la pelle di un bianco accecante. Donne ne aveva intorno, bionde in genere, e procaci. Ancora non si spiega cosa avesse di attraente quella gattina tutta nervi che due sere dopo gli ballava davanti, brilla, sinuosa, catarifrangente, eppure Rebecca lo aveva stregato.
Due anni dopo lui lavorava ancora nel negozio della madre, mentre Rebecca viveva in città, ma lei insisteva perché lui la raggiungesse. Non amava Pontorno: «È troppo piccola», diceva; la soffocava. La passione di Massimo era l’informatica, appresa da autodidatta ma sviluppata al punto che non sarebbe stato difficile trasformarla in mestiere, così alla fine si trasferì da lei e in capo a un mese sedeva a una scrivania nell’open space di una società di consulenze informatiche.
Il matrimonio era stato una salita. A un tratto l’umore di Rebecca era cambiato, a volte precipitava in basso così in fretta, e quel basso era così nero che Massimo soffocava come un pesce fuori dalla boccia. Taceva e aspettava che passasse. Il giorno che si era licenziata, un anno fa, all'improvviso e senza proferire parola, l’aveva trovata in cucina. Fumava e sul tavolo aveva allineato una fila di pillole. Lo aveva guardato da sotto a sopra e aveva sorriso. «La mia cazzo di camicia di forza!», aveva urlato a un tratto, mandando all’aria tutto ciò che si trovava di fronte, bicchieri, posacenere, pasticche. Massimo era muto, quasi che quella rabbia travolgesse lui stesso e perciò vi facesse resistenza irrigidendo il corpo.
«Perché non ne parli mai?», gli chiede adesso sua madre.
«Vai a trovarla! Vai a vedere come sta!», la rimprovera il figlio sfilando la maglietta. Vuole farsi una doccia.
«Lo chiedo a te…».
«È morta, va bene?». Massimo torna in cucina afferra una sedia, vi si accascia, porta le mani al petto, dondola il capo. Imita Rebecca. «È come se lo fosse…», si prende il capo tra le mani.
«Non devi vergognarti di questi pensieri, tesoro…».
«Ma è Rebecca perdio! Quella è Rebecca!».
Il