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SUSPICION. Il lato oscuro della Chiesa
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SUSPICION. Il lato oscuro della Chiesa
E-book558 pagine8 ore

SUSPICION. Il lato oscuro della Chiesa

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Info su questo ebook

Roma, 2015. Christian Santacroce è il magistrato che indaga sul ritrovamento di uno scheletro nello scantinato della Casa Famiglia gestita dall’adiacente Basilica. A fare la macabra scoperta è Lara Baroni, una giovane volontaria che da subito non nasconde la profonda antipatia per il famoso magistrato appartenente ad un’antica famiglia romana, strettamente legata al Vaticano. Per lei quell’uomo rappresenta lo strapotere della Chiesa e l’impunità di fare qualunque cosa senza dover mai rendere conto a nessuno. Tuttavia, ha bisogno di lui per aiutare Betta, una ragazzina ospite della Casa Famiglia obbligata dal parroco ad estenuanti turni di preghiera per tenere lontano il Diavolo.

Di chi sono quelle ossa? Che succede in quella Basilica a due passi dalle rive del Tevere? Quali segreti si nascondono dietro gli incontri di preghiera per liberarsi dai malefici, dal malocchio, dai demoni e dal Diavolo?
LinguaItaliano
Data di uscita3 gen 2020
ISBN9788831654524
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    Anteprima del libro

    SUSPICION. Il lato oscuro della Chiesa - Giorgia M. Righi

    (Stendhal)

    CAPITOLO 1

    Roma, 2 aprile 2011 – Via della Conciliazione

    I primi raggi del sole nascente rischiarano il cielo sopra la cupola di S. Pietro.

    Lo Stato Pontificio, un fazzoletto di terra a ridosso del Tevere, dentro cui è racchiuso un concentrato di storia, religione, arte e politica difficilmente misurabile, vede nascere un nuovo giorno. Sebbene il potere temporale della Chiesa sia finito da quasi centocinquant’anni, essa domina sulla Città Eterna ancora potentissima.

    Proprietaria di vastissimi beni immobili e donazioni provenienti da tutte le parti del mondo, prospera anche in assenza di un sistema fiscale interno. D’altra parte, i cittadini della Santa Sede sono solo poche centinaia, ma si fa forte del miliardo e duecentomila cattolici sparsi in tutto il mondo. Non saranno tutti praticanti, ma resta comunque la prima religione del pianeta, anche se, quando si parla di Vaticano, non si parla esattamente di religione, ma di una realtà quotidiana più concreta, fatta di circa quattromila e ottocento dipendenti. Un vasto apparato di dicasteri e uffici che gestiscono le donazioni che affluiscono nelle casse e gestiscono l’enorme ramificazione di strutture caritative e assistenziali che a volte direttamente, più spesso indirettamente, fanno capo al Vaticano.

    Non c’è solo lo IOR, l’Istituto per le Opere Religiose, a governare le finanze, c’è anche l’APSA, ovvero l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, l’ente che gestisce gli investimenti finanziari e immobiliari della Santa Sede, capace di funzionare come una banca presso la quale possono tenere un conto qualche cardinale autorizzato, ma anche diversi amici degli amici, uomini dell’alta finanza, consulenti di questo o quel dicastero.

    Il sacerdote che camminava a passo svelto lungo il marciapiede di Via della Conciliazione era appena uscito da uno dei palazzi di quella monumentale strada voluta da Benito Mussolini per donare un ingresso degno dell’Urbe al maggior tempio della cristianità, al posto del meschinissimo accesso dai Borghi, com’era prima che modificasse il piano regolatore nel 1931.

    La sera prima aveva fatto visita a un vescovo molto influente, un uomo la cui amicizia poteva garantirgli risorse economiche e protezione, di quelle che servono nei momenti difficili. E questo era uno di quelli.

    Era passato dopo cena per riferirgli gli ultimi sviluppi di una questione che incomprensibilmente gli era sfuggita di mano e la ricerca della soluzione era stata oltremodo sofferta, ma necessaria. Alla fine, aveva lasciato i suoi appartamenti praticamente all’alba.

    Il vescovo si era detto compiaciuto della sua devozione e non dubitava che la banale crisi sarebbe stata superata senza ricadute.

    Con l’animo più leggero, il sacerdote salì su un taxi e restò in silenzio a godersi lo splendore di Roma nella luce velata del sole che sorge.

    CAPITOLO 2

    Roma, 16 gennaio 2015 – Via Flaminia

    Il commissario Marco De Angelis osservò la ragazza alla quale aveva fatto portare un bicchiere d’acqua. Se lo passava da una mano all’altra, ma non si decideva a berne neppure un sorso. Era visibilmente scossa e non faceva altro che ravviarsi i lunghi capelli castani dietro le orecchie.

    «Non sapevo che lavorassi qui» le disse con gentilezza, nella speranza di metterla a proprio agio.

    La giovane alzò lo sguardo su di lui, rivelando due grandi occhi verdi carichi d’angoscia.

    «Non lavoro qui» spiegò distrattamente, «faccio volontariato. Per il mio lavoro è una grande esperienza, qui ci sono ragazzi con problemi indicibili. E poi posso rendermi utile.»

    «Certo…» convenne il commissario, gettando uno sguardo all’arredamento semplice ed essenziale della stanza che in genere veniva usata come luogo di ritrovo per gli ospiti della Casa Famiglia.

    «Perché sei scesa in cantina?»

    La ragazza sospirò e finalmente bevve un sorso d’acqua.

    Marco De Angelis sapeva riconoscere una coscienza limpida quando ne vedeva una e Lara Baroni aveva la tipica espressione di chi non riesce a spiegarsi come le fosse potuta capitare una cosa così orribile.

    «Una delle volontarie… Patrizia» spiegò fissando il contenuto del bicchiere, «mi aveva detto che da qualche parte in cantina c’era una valigia o una cassa dove avrei potuto trovare delle vecchie maschere. Volevamo organizzare una festa di carnevale per le ragazze e così mi sono messa a cercarle.»

    Si appoggiò con la schiena al davanzale della grande finestra senza tende che si affacciava sul cortile interno ricoperto dalle foglie ingiallite dei platani. Come diavolo le era venuto in mente di fare una cosa tanto stupida come rovistare in un vecchio sotterraneo, proprio lei che aveva persino il terrore dei ragni?

    «Da quanto tempo fai la volontaria qui?»

    Lara Baroni distolse lo sguardo. «Da… da metà settembre.»

    «Settembre dell’anno scorso? 2014?» chiese ancora il commissario appuntandosi l’informazione.

    «Sì.»

    «È tanto che frequenti questa basilica?»

    La ragazza scosse la testa, stringendosi nel golf scuro come se avesse avuto un brivido di freddo. «No, ci sono venuta solo per fare la volontaria.»

    «Hai idea di chi potrebbero essere le ossa che hai trovato in quella valigia?» le chiese il commissario a bruciapelo e lei trasalì. «Hai mai sentito qualche discorso che potrebbe ricollegarsi a un fatto del genere?»

    Lei lo guardò confusa e la sua reazione fu del tutto genuina. Scosse la testa. Era talmente sconvolta da non riuscire a seguire i suoi ragionamenti.

    «Hai mai visto gli abiti che erano ammucchiati insieme alle ossa?»

    «No, mi dispiace.»

    Il commissario annuì. «Solo un’ultima domanda: questo posto è di proprietà della parrocchia. È il parroco che se ne occupa?»

    La ragazza scosse la testa. «No, la struttura è affidata alle volontarie più anziane, la parrocchia contribuisce in parte alle spese, ma è finanziata prevalentemente da donazioni. Il parroco invece viene il sabato pomeriggio per parlare con le ospiti e per la confessione.»

    «Va bene, Lara, per ora è tutto, ma…» «Allora posso andare?» chiese lei con enfasi.

    «No, mi dispiace, non ancora. Devi aspettare l’arrivo del magistrato che forse vorrà farti qualche domanda.»

    «Parlavi di me?» disse una voce inconfondibile alle sue spalle.

    «Ehi! Christian!» esclamò il commissario sollevato. «Hai fatto presto.»

    «Ero già uscito di casa, non sono dovuto nemmeno tornare indietro. Allora, che è successo?»

    «Vieni» lo invitò tornando a un tono professionale, «lei è Lara Baroni, la volontaria che ha trovato la valigia contenente le ossa. Lara, lui è Christian Santacroce, il magistrato titolare dell’indagine.»

    «Buongiorno, signorina» salutò educatamente il PM. «Si sente bene?» le chiese dolcemente, vedendola terribilmente pallida.

    «Sì, grazie, sto bene» mormorò lei distrattamente, colpita dalla sensazione di averlo già visto. Pensò che la sua eleganza impeccabile, il taglio sartoriale del completo firmato che indossava, stonasse con quel posto umido e malandato, ma poi la sua attenzione fu attratta dall’anello che portava all’anulare della mano destra, una fedina d’oro bianco larga circa mezzo centimetro e piuttosto spessa. Intravedeva un’incisione, ma non riuscì a capire di cosa si trattasse.

    «Preferisci vedere la cantina, prima di parlare con Lara?» fece il commissario indicando la porta, ma Christian scosse la testa.

    «Ci sono già stato. Ho visto le ossa e ho dato il nulla osta per trasferire il tutto all’Istituto di Medicina Legale, ma… è una mia impressione o voi vi conoscete già?»

    Marco De Angelis annuì. «È vero, sono rimasto sorpreso anch’io quando sono arrivato e l’ho trovata qui. Lara è un’amica di mia sorella Marina, viene spesso a casa dei miei genitori, è praticamente di famiglia, ma non sapevo che facesse la volontaria qui.»

    «Be’ sono cose che capitano» commentò evasivo Christian. «Avrei solo una domanda per la signorina Baroni, poi potrà andare a casa.»

    La ragazza lo guardò sforzandosi di sembrare calma. Ma dove l’aveva già visto? Aveva le spalle larghe e gli occhi color del mare incorniciati da ciglia scure. Era alto e nonostante il cappotto si capiva che era un tipo ben piantato. Il naso dritto, i capelli folti e scuri, la mascella squadrata scurita dalla barba che accentuava l’aspetto minaccioso. Nel complesso emanava un senso di potere e autorità. Per quanto strano, se la situazione non fosse stata spaventosa, lo avrebbe trovato attraente.

    «Mi perdoni l’indelicatezza della domanda, ma non ho avuto tempo di consultarmi con il commissario.»

    Quegli occhi azzurri, duri come l’acciaio, erano freddi, remoti, intensi.

    «Dica pure.»

    «Quanti anni ha?»

    «Ventitré.»

    «Grazie, è tutto» concluse Christian accennando un sorriso, ma il duro scintillio dello sguardo rivelò che non aveva alcuna voglia di scherzare. «Vada pure.»

    La ragazza lasciò la stanza in un attimo e Marco lo fissò alzando un sopracciglio. «Di solito hai una sfilza di domande da fare a caldo.»

    Christian gli lanciò un fugace sguardo. «È troppo giovane, non c’entra niente con questa storia. Di un cadavere restano le ossa dopo sette, dieci anni. Qualsiasi cosa sia successo, lei faceva le medie o al massimo il liceo.»

    «Potrebbe aver sentito storie, vecchie dicerie…»

    «E vorresti farmi credere che non gliel’hai già chiesto tu?»

    Il magistrato gli diede una pacca sulla spalla e si avviò verso la porta gettando uno sguardo sprezzante allo squallore della stanza. Lui e Marco si conoscevano da circa tre anni, ossia da quando Christian era stato trasferito a Roma dalla Procura di Milano. Si erano occupati insieme di un caso di omicidio molto complesso e tra loro si era instaurato immediatamente un ottimo rapporto di collaborazione. Marco era capace, competente, discreto, ma soprattutto affidabile. Aveva un curriculum nel quale spiccava uno stage a Quantico, in Virginia, all’Unità di Scienze Comportamentali dell’FBI e le sue capacità come profiler erano davvero notevoli.

    «Chi gestisce questo posto?» chiese Christian affacciandosi sul corridoio per poi ritornare sui suoi passi.

    «Lo coordinano le volontarie, ma l’edificio appartiene alla Chiesa e il parroco è di fatto il responsabile.»

    «Come si chiama il parroco?» continuò il magistrato aggirandosi per la sala con le mani affondate nelle tasche.

    «Padre Quirino Roversi. È un tipo sulla sessantina, di poche parole, piuttosto coriaceo oserei definirlo. Non è un tipo facile.»

    «E cosa pensa dell’accaduto? Come spiega una valigia con uno scheletro, nei sotterranei di un edificio annesso alla sua chiesa?»

    «Non ha battuto ciglio. Ha dichiarato da subito di non essere in grado di spiegare un fatto così terribile. Ho avuto l’impressione che fosse molto più preoccupato per lo scandalo, che per la sorte della povera vittima.»

    Christian sbuffò annoiato. «Hai già una lista dei residenti e dei frequentatori a vario titolo?»

    «L’ho stilata di fretta con l’aiuto del parroco, ma non ho avuto tempo di controllarla. Comunque, oltre a Padre Quirino, c’è l’aiuto parroco, Don Alberto Colagiani, quarantacinque anni, un tipo eccessivamente ossequioso, al limite dell’appiccicoso; poi c’è il secondo aiuto parroco, Padre Victor Dubois, trentasei anni, di origini francesi. Al momento è ad Avignone, sua città d’origine, in visita alla famiglia; e il sacrestano, Cosimo Bonifazi, sessantacinque anni, pensionato. Su questo foglio c’è l’elenco degli ospiti della casa famiglia e del personale che lo gestisce.»

    «Anche della Baroni?» chiese Christian con noncuranza, mentre si guardava intorno.

    «Sì, anche lei. Comunque, se vuoi avere informazioni che la riguardano, ti posso aggiornare io. Si è laureata in psicologia nell’ottobre scorso insieme a mia sorella, anche se Lara è un anno più giovane.» Fece una breve pausa, distratto da alcune voci provenienti dal corridoio, poi riprese. «Oltre a fare la volontaria qui, ha un contratto di collaborazione con i Servizi Sociali del Comune di Roma. Si occupa del recupero di un gruppo di giovani con precedenti penali presso il Municipio Roma IV.»

    Christian ci pensò qualche istante, poi disse: «Rebibbia?» «Già.»

    «Coraggiosa!» osservò sorpreso. «E come se ne occupa?»

    «Si è inventata delle riunioni sullo stile degli alcolisti anonimi. Invece d’incontrarli singolarmente con il normale programma di recupero, li mette a confronto. Mia sorella Marina mi ha raccontato che coinvolge i ragazzi in discussioni su temi d’attualità, li stimola a interessarsi alle questioni sociali, a dire la loro su alcuni casi di cronaca. Di recente sta trattando alcuni aspetti della religione cattolica e della Chiesa.»

    Christian annuì pensieroso. «Dunque, la Baroni fa volontariato in una Casa Famiglia gestita dalla parrocchia e segue un gruppo di ragazzi a cui parla di religione. Dev’essere una fervente cattolica, tutta casa e chiesa.»

    Un sorriso scettico apparve sul viso di Marco De Angelis. «Non credo che la descrizione le renda giustizia. Da quel che so io non è molto religiosa, ma ammetto di non avere informazioni precise in merito. Una cosa invece la so.»

    «Sentiamo.»

    «Marina mi ha detto che il suo corso è seguito con crescente interesse.» Sorrise, poi aggiunse. «E non solo per gli argomenti che tratta, sembra che la maggior parte dei partecipanti siano ragazzi, più che ragazze. Piace molto, insomma.»

    Christian fece una smorfia storcendo la bocca e Marco gli rivolse uno sguardo sorpreso.

    «Non farti fuorviare dalle apparenze. Personalmente ritengo che sia una delle più belle ragazze che abbia mai visto.»

    «Addirittura!» esclamò il magistrato sorpreso. «Allora è vero che la bellezza è una questione soggettiva. È evidente che abbiamo gusti diversi, perché a me sembra alquanto insignificante.»

    Alcuni passi provenienti dal corridoio misero fine a quella conversazione. Un istante dopo, Lara Baroni, insieme a una ragazza giovanissima dall’aspetto dimesso, passarono davanti alla porta aperta, dirette verso l’uscita.

    Christian lanciò loro uno sguardo sardonico, poi le ignorò completamente. La possibilità che avessero potuto udire la conversazione non lo interessava minimamente.

    «Di’ un po’, che tipologia di ospiti ha questa Casa Famiglia?» chiese cambiando discorso.

    «Adolescenti rimaste sole o allontanate dalle famiglie, ragazze madri, ma nessuno con problemi di droga. Sembra che il parroco, Padre Quirino, non ce li voglia.»

    «E cosa mi dici degli altri due sacerdoti?»

    «Don Alberto è originario di Monterotondo e ci devi scambiare due parole per renderti conto che hai davanti un prete. Parla quasi esclusivamente romano e sembra più che altro un comico da cabaret. Sai chi mi ricorda? Antonio Giuliani. Uguale. Su di lui ho trovato qualcosa di curioso. Ci sono quattro esposti a suo carico. Sembra che abbia preso troppo a cuore alcuni casi di fedeli disturbati e i familiari si sono rivolti alle forze dell’ordine.»

    «Ho capito, non hanno apprezzato la sua simpatia! Ci voglio parlare, convocali.»

    «Ok, d’accordo. Comunque è strano, perché è davvero un tipo esilarante e diretto se posso aggiungere, ma come ti ho detto prima è un po’ appiccicoso, ma i preti lo sono tutti, chi più chi meno. È qui a Santa Croce da circa otto anni, ma anche prima, spesso si appoggiava a questa parrocchia per seguire alcuni casi un po’ più problematici.»

    «E quali sarebbero i casi problematici?»

    «Suppongo quelli che seguono i preti di solito. In ogni caso, glielo chiederemo più specificatamente quando verrà in Procura per le sommarie informazioni.»

    «D’accordo, voglio leggere sia gli esposti che le denunce però.»

    «Ho inserito tutto nel fascicolo.»

    «Grazie. E l’altro aiuto parroco?»

    «Il francese, Victor Dubois. Anche lui è qui da circa sette anni, prima ricopriva incarichi di rilievo all’interno delle mura vaticane. Padre Dubois, a differenza di Don Alberto, si appoggia solamente qui alla basilica, perché in realtà continua a svolgere incarichi per il vaticano.»

    «Va bene, però ci voglio parlare, perciò convoca anche lui in Procura. Se necessario fallo tornare dalla Francia, poi disponi un esame del DNA delle ossa e scopri quanto tempo ha quello scheletro. Hai notato che gli indumenti trovati nella valigia erano ammucchiati da una parte?»

    «Sì» confermò Marco, «si tratta di abbigliamento femminile, una quaranta o una quarantadue, mi pare, e niente scarpe. Potevano essere della vittima, ma non l’indossava

    quando è stata chiusa nella valigia.»

    Christian uscì sul corridoio. «Voglio fare un giro delle stanze.»

    Marco l’accompagnò a visitare la casa, entrarono in cucina, nelle stanze da letto, anche nei bagni e l’opinione che si fece fu che i fondi a disposizione per la gestione di quella struttura fossero davvero pochi o utilizzati male. Al momento ospitava una quindicina di giovani donne e quattro volontarie, inclusa Lara Baroni, che si occupavano di loro.

    Al termine del giro, Christian prese le chiavi della macchina dalla tasca e disse: «Ok, qui abbiamo finito, perciò me ne vado in Procura. A dopo, ciao.»

    CAPITOLO 3

    Aula bunker del carcere di Rebibbia Terza sezione della Corte d’Assise del Tribunale di Roma Udienza dibattimentale, 6 novembre 2017

    Il processo era arrivato al dibattimento e il pubblico ministero si apprestava all’escussione dei testimoni. Quella mattina, nell’aula presieduta dal dottor Maurizio Romano, era salita al banco Alessia Belforte, una giovane donna rimasta coinvolta, suo malgrado, nell’indagine per l’omicidio di dieci ragazze e un ragazzo.

    Lei non c’entrava niente con gli omicidi, ma il suo caso era emblematico per descrivere le attività insolite dell’imputato e, pur tuttavia, perfettamente legali.

    Alessia Belforte era una testimone ostile per il pubblico ministero, poiché non riteneva l’imputato colpevole e, men che meno, che avesse commesso mancanze nei suoi confronti. Al contrario, lo sosteneva e gli era grata per tutto l’aiuto a suo dire ricevuto.

    Nell’aula era sceso il silenzio mentre la teste prendeva posto nel banco riservato ai testimoni, una postazione in legno di noce a metà tra i giudici e gli avvocati, ma più spostata verso il muro laterale. Il suo atteggiamento tradiva l’evidente fastidio di dover rispondere a delle domande su una faccenda che riteneva assolutamente privata e slegata dai reati ascritti all’imputato.

    Non era difficile immaginare il suo stato d’animo in quel momento, al centro dell’attenzione, di fronte a tutti, con la consapevolezza che le risposte che avrebbe dato a breve, avrebbero raccontato un periodo della sua vita durante il quale aveva sofferto molto.

    «Buongiorno signora Belforte» esordì il pubblico ministero in tono cortese, ma professionale, «ci dica come ha conosciuto l’imputato.»

    Il PM era un uomo dalla figura maestosa, la sua altezza incuteva soggezione. Era incredibilmente abile con i testimoni, specie quelli ostili. Non dava loro tregua e possedeva una gamma di retorica degna dell’opera lirica. Era capace di adottare modi raffinati e subito dopo di passare a un’oratoria aggressiva da predicatore televisivo. Se era lui a rappresentare la Procura, raramente i giudici notavano che in aula ci fosse anche l’avvocato della difesa o di parte civile.

    La donna si sforzò di restare calma. «L’ho conosciuto nella parrocchia del mio quartiere.»

    «Quanto tempo fa?»

    «Da molto tempo. Non ricordo quanto.»

    «Un’idea almeno. Dieci anni? Venti? Due, tre?»

    «Un po’ più di dieci anni.»

    Prima di porre la domanda successiva, fece volutamente una pausa. Non gli avrebbe chiesto se fosse in buoni rapporti con l’imputato e perché. Quelle domande, poste a un testimone ostile, avrebbero raccontato di un uomo dedito alla propria missione, un bravo pastore che segue le sue pecorelle. A disegnare quel quadro ci avrebbe pensato la difesa e lui non aveva nessuna intenzione di renderle le cose facili.

    «Dalle sue dichiarazioni» riprese il PM, ponendo la prima di una serie di domande blindate che non avrebbero permesso al teste di dire ciò che voleva, «sappiamo che lei e suo marito avete cercato di avere dei figli per molto tempo, ma senza riuscirci. È corretto?»

    «Sì.»

    «Lei è una persona religiosa?»

    «Sì.»

    «Praticante?»

    «Sì, anche.»

    «E ha parlato di questo suo desiderio inappagato di maternità con l’imputato?»

    «Sì.»

    «Questi fatti a che periodo risalgono?»

    La donna avvicinò la bocca al microfono e rispose: «Mi pare… era il 2011, sì, nel 2011.»

    «E ne ha parlato con l’imputato in quel periodo?»

    «Più o meno, sì.»

    «E quando lo ha fatto, aveva già eseguito accertamenti medici atti a escludere patologie mediche sia sue che di suo marito?»

    «Sì, e quando glielo dissi lui mi suggerì di sentire più di un parere. Insistette molto su questo punto.»

    «Certo, naturalmente» accordò il PM impassibile. «È vero o non è vero che l’imputato le suggerì uno studio medico di sua fiducia?»

    Il significato subdolo di quella domanda le esplose nella testa come un fuoco d’artificio.

    «Se sta insinuando…»

    «Io non insinuo niente, signora, le sto chiedendo e lei deve rispondere.»

    La teste non apprezzò il tono del pubblico ministero, ma dovette inghiottire il rospo.

    Alzò il mento e rispose: «Sì, mi suggerì uno studio medico.»

    «Ci può dire come si chiamava?»

    Lei esitò alcuni istanti, ma poi rispose. «Il Rosario Medical Center.»

    «Rosario…» ripeté il PM lentamente.

    «Non è inteso come termine religioso» replicò piccata la donna. «Il nome è Ro. Sa. Rio. Dai cognomi degli specialisti che ci lavorano.»

    «Stavo per dirlo, ma non è questo il punto. Lei sapeva che questo studio medico è finanziato dalla Chiesa e che i medici che ci lavorano sono tutti obiettori di coscienza?»

    «No. Non ne avevo idea.»

    «E quale è stata la loro diagnosi?»

    «Che ero perfettamente sana e anche mio marito.»

    «Indipendentemente da questa problematica, il suo stato di salute generale, invece, com’era a quel tempo?»

    La teste esitò di nuovo. «Abbastanza buono, a parte dei mal di testa e un po’ d’insonnia.»

    «Aveva mai sofferto di questi disturbi?»

    «Non in modo particolare.»

    «Allora possiamo dire che in quel periodo questo stato di malessere si era acuito?»

    «Sì, direi di sì.»

    «E lei ne parlò con l’imputato?» chiese il PM sempre più incalzante.

    «Sì, gliene parlai.»

    «E lui cosa le disse?»

    «Che voleva approfondire il mio problema, perché a suo giudizio i malesseri non erano solo di natura organica, potevano essere anche di tipo spirituale.»

    «E cosa le suggerì di fare?»

    «Mi diede un libretto di preghiere da recitare ogni giorno e mi propose degli incontri per parlare con lui.»

    «Che tipo di libretto? Uno come questo?» Il PM le mostrò un libricino di una ventina di pagine.

    La teste lo guardò per un istante. «Sì.»

    «E lei sapeva cosa fosse?»

    «In principio, no. Me ne ha parlato dopo alcuni incontri.»

    «E cos’era?»

    «Preghiere di liberazione.»

    «Liberazione da cosa?»

    Ci fu un breve momento in cui il silenzio invase l’aula.

    «Dal diavolo» ammise la donna alzando fieramente il mento.

    CAPITOLO 4

    Milano, 6 ottobre 2012

    Christian parcheggiò la berlina scura non troppo lontano dal portone dell’ormai ex collega, Tommaso D’Elia. Si erano conosciuti lavorando insieme presso la Procura della Repubblica di Milano e le affinità caratteriali avevano favorito un solido rapporto d’amicizia anche fuori dalle aule dei tribunali. Tommaso aveva un paio d’anni più di Christian ed era sposato con Elena, un’insegnante di origini liguri che aveva il pregio di essere una cuoca impareggiabile.

    Fu proprio lei ad aprirgli la porta e ad accoglierlo con un abbraccio affettuoso e carico di significati. La sua decisione di lasciare Milano per tornare a Roma l’aveva terribilmente rattristata, ma ne comprendeva i motivi. In compenso, aveva ottenuto la promessa che sarebbe tornato a trovarli a ogni occasione propizia.

    «Come stai?» mormorò stringendogli le braccia al collo con calore. Era così affezionata al collega del marito che non riusciva a immaginare di non vederlo più tanto spesso. «Hai già fatto le valigie?»

    «Ho preparato una borsa» rispose lui stringendola così forte da farle quasi male. «E voi tutto ok?»

    «Non ci lamentiamo» fece Tommaso, stringendogli la mano con calore. «Ma potremmo farlo, se non manterrai la promessa di venire spesso» scherzò.

    «Non siete stanchi di avermi tra i piedi?»

    I due coniugi scoppiarono a ridere ed Elena lo prese sotto braccio. «Non hai fame?»

    «E me lo chiedi? Che hai preparato?» chiese con quell’aria da ragazzino che riusciva sempre a incantarla .

    «Qualcosa di speciale, solo per te» gli rispose lei dandogli un colpetto sul braccio. «Dai, togliti l’impermeabile, che è pronto.»

    Christian se lo tolse e la seguì nel soggiorno, avvertendo il succulento profumo che si sprigionava dalla cucina. «Rimpiangerò le tue cene tutte le sere e due volte la domenica, lo sai questo?»

    «O magari troverai qualcuno che ti cucini questi manicaretti!» replicò la donna con aria sognante.

    «Mia cara moglie…» s’intromise Tommaso cingendole le spalle con un braccio, «stai cercando di nuovo di accasarlo. Lo so che non ti arrendi, ma almeno stasera risparmiagli la solita tiritera sui piaceri della vita domestica.»

    «Lo sai che voglio solo il meglio per lui, ma se continua a frequentare solo quelle giraffe con la testa vuota, non incontrerà mai una brava ragazza.»

    Christian le diede un bacio sulla tempia e la prese in giro.

    «Sì, mamma.»

    Lei gli lanciò un’occhiataccia e corse in cucina ad apportare gli ultimi ritocchi al suo manicaretto.

    «Sedetevi a tavola» ordinò in tono allegro ai due uomini, «sto arrivando.»

    Tommaso gli diede una pacca sulla spalla e fece strada verso la sala da pranzo. Non gli sorrideva l’idea di perdere un collega come Christian, ma dopo tutto quel che era successo comprendeva il suo bisogno di allontanarsi da Milano e lo condivideva.

    Elena aveva preparato delle squisite tajarin al burro di cacao e tartufo e quando gli servì la sua porzione, studiò il bel viso di Christian che ormai aveva imparato ad amare come un fratello minore.

    «Negli ultimi tempi, i Santacroce sono su tutte le pagine mondane dei quotidiani» fece la donna con un sorriso incerto. «Le nozze di tuo cugino stanno diventando un evento simile ai matrimoni dei reali inglesi. Quando si sposa?»

    «L’anno prossimo, a luglio» chiarì Christian, poi aggiunse: «D’altra parte, un Santacroce che sposa una Orsini è la celebrazione di un’alleanza che dura da seicento anni.»

    «Posso immaginare il fervore di tua zia Giuliana per l’evento.»

    Elena aveva conosciuto personalmente Giuliana Augusta Falconieri, marchesa di Santacroce, e l’opinione che si era fatta di lei non era stata delle più lusinghiere, ma se l’era tenuta per sé, temendo di offendere Christian. Sapeva che il giovane magistrato era profondamente legato alla sua famiglia, benché non ricordasse di averlo mai sentito spendere parole affettuose per la zia, la cui fama di arcigna decana poteva certamente giustificarne i motivi.

    Giuliana Augusta Falconieri era cresciuta tra le mura secolari di Palazzo Santacroce ai Catinari, nel Rione Sant’Angelo. Aveva sposato giovanissima lo zio di Christian, Onofrio, primogenito di Antonio Santacroce, erede del titolo nobiliare. Era una donna dotata di grande carisma, capace di mantenere alto il prestigio di una delle più antiche famiglie di Roma, anche dopo la morte del compianto marito.

    I Santacroce erano un antico casato romano del Quattrocento che doveva la sua fortuna alla Chiesa della Roma dei Papi e sul quale lo scorrere dei secoli non aveva sortito il benché minimo cambiamento. Era stato della marchesa il merito di aver conservato intatte le tradizioni di famiglia, favorendo la costante vicinanza agli alti prelati che amava tanto intrattenere nei lussuosi salotti di Palazzo Santacroce.

    Elena assaggiò il Barbera della riserva personale del marito e ne apprezzò il gusto non troppo corposo, poi sorrise. «Credo, però, che tuo cugino non avrà apprezzato che tutte le attenzioni dei giornalisti fossero rivolte a te, piuttosto che a lui.»

    «Non ho avuto l’impressione che sia andata così» replicò Christian minimizzando, benché fosse perfettamente consapevole di aver rubato la scena al cugino e la cosa lo aveva divertito un mondo. 

    Il resto della cena trascorse in un’atmosfera simpatica, come sempre quando erano insieme, persino quando parlavano di lavoro seduti comodamente in salotto.

    Mentre Elena era impegnata a preparare i caffè, Tommaso ne approfittò per scambiare qualche parola con l’amico.

    «Mi dispiace» gli disse rattristato. «Il GIP non ha concesso la proroga delle indagini, ho dovuto presentare istanza di archiviazione.»

    Christian non batté ciglio. «Me l’aspettavo» mormorò.

    «In diciotto mesi, neanche un indagato. È incredibile!»

    «Sai cos’è veramente incredibile? Che una ragazza sparisca in un aeroporto pieno di gente, senza che nessuno abbia visto o notato niente.»

    «È stato furbo.»

    «La Polizia Giudiziaria ha controllato tutti i ricettatori, tutti i collezionisti, ogni transazione. Dell’anello dei Santacroce che Beatrice portava al dito non c’è alcuna traccia» fece Tommaso accennando a quello identico che portava al dito Christian. «Ecco, tieni, ti ho fatto una copia dell’intero fascicolo. Leggilo, per favore.»

    Lui prese il faldone con gesti lenti. «Grazie.»

    «Di niente. Non mi è mai capitato un caso in cui non sono riuscito a trovare neanche il benché minimo indizio. Questo bastardo è un fantasma.»

    «Un giorno scopriremo quale errore ha commesso, perché ne commettono sempre e lui non è diverso dagli altri.»

    «E quel giorno sarò lì a godermi la scena, puoi scommetterci» replicò gelido.

    CAPITOLO 5

    Roma, 19 gennaio 2015

    Lunedì mattina Christian arrivò in Procura mezz’ora più tardi del solito. Stava attraversando l’atrio affollato, quando il cellulare si mise a vibrare nella tasca della giacca.

    Il Procuratore.

    «Buongiorno, mi dica» salutò in tono piatto.

    «Santacroce, forse lei è l’uomo giusto per questo caso, anzi, direi che è stata proprio una fortuna che fosse di turno. Sto parlando della Casa Famiglia, ha capito? Mi raccomando, però, massima discrezione o questa storia ci scoppierà in mano come un candelotto di dinamite.»

    «Che intende dire, mi scusi?»

    «Come, cosa intendo dire! Uno scheletro ritrovato nello scantinato di una chiesa, non immagina che polverone alzerà? Non credo che ci sia bisogno che glielo dica io, no? Tanto più che i vestiti ammucchiati con le ossa sono da donna. Da una parte avremo la stampa e dall’altra la Curia di Roma e noi saremo proprio nel mezzo.»

    Christian sospirò. «Procuratore, non ho l’abitudine di pesare la discrezione a seconda dei casi.»

    «Per questo dovrà essere rigidissimo.»

    «Lo sono sempre.»

    «Tanto meglio. Mi tenga informato, d’accordo?»

    «Va bene.»

    Prima di fermarsi nel suo ufficio al secondo piano, salì fino al settimo negli uffici della Polizia Giudiziaria. Lo faceva tutte le volte che arrivava più tardi, così da avvisare il commissario  De Angelis che era arrivato. Lo trovò immerso in un fascicolo pieno di carte, fotografie, referti e appunti, ai quali stava cercando di dare un senso.

    «La vuoi sentire la novità?» chiese Marco con aria allegra, vedendolo entrare.

    «Dipende.» «Da cosa?»

    «Dalla novità. Hai scoperto qualcosa?»

    Il commissario si abbandonò contro lo schienale della poltrona. «Te la ricordi Barbara Sbaffi?»

    «No. Chi è?»

    «La ragazza scomparsa l’anno scorso dalle parti di Piazza Navona.»

    Christian piegò la testa di lato. «Ah, sì. Be’, è tornata?»

    «Per ora solo i vestiti. Per le ossa, prima di darti la conferma, aspetto il referto del DNA.» «Si può sapere di cosa parli?»

    «Questa mattina la madre di Barbara Sbaffi ha chiamato il 113. Dice di aver visto un servizio al telegiornale in cui hanno fatto vedere il vestito ritrovato con le ossa nella valigia. Sostiene che sia quello che aveva Barbara quando è scomparsa.»

    «Ed è vero?» chiese perplesso.

    «Ho controllato. Sembra che sia vero.»

    «Ricordami qualcosa di questa Barbara Sbaffi»

    «Aveva ventiquattro anni quando è scomparsa senza lasciare traccia» raccontò Marco consultando il suo tablet. «Gli Sbaffi sono benestanti, infatti la ragazza studiava alla Luiss. Dopo un anno d’indagini, il caso è arrivato a un punto morto. L’unico dato certo è che Barbara, un pomeriggio di ottobre, è uscita senza dire dove sarebbe andata e nessuno l’ha più vista. Nessun indizio, nessun testimone, nessuno ha visto niente.»

    «Quindi, se la Scientifica dovesse confermare che quelli ritrovati nella cantina della Casa Famiglia sono i suoi resti, la sua scomparsa diventerebbe un caso di omicidio.»

    «Esattamente.»

    «Raccontami tutto mentre scendiamo nel mio ufficio» fece Christian con un cenno del capo. «Voglio posare la borsa.»

    «Non c’è molto da dire, Barbara era una ragazza timida e non aveva molti amici. Ho letto il fascicolo e non ci sono lati bui nella sua vita, non aveva un fidanzato e non usciva la sera. Per ora si pensa che si sia allontanata di sua spontanea volontà.»

    «Va bene» commentò Christian entrando nell’ascensore, «allora dobbiamo trovare un collegamento tra lei e la Casa Famiglia. Se i suoi vestiti sono finiti in quella cantina, significa che conosceva qualcuno che frequentava quella struttura. Sei riuscito a procurarti una lista degli ospiti della Casa Famiglia?»

    «Sì, ce l’ho.»

    «Anche dei volontari che ci hanno lavorato?»

    «Anche quella. Stiamo facendo i controlli, se salta fuori qualcosa t’informo subito, ma c’è una cosa che non mi torna.»

    Christian lo guardò alzando le sopracciglia. «Ossia?»

    «Tu hai detto che un corpo impiega sette, dieci anni per diventare scheletro, ma Barbara è scomparsa solo l’anno scorso. Mi sembra difficile che possano essere sue, quelle ossa.»

    «Convengo» fece Christian grattandosi la guancia accigliato. «E ti dirò che non sembrano neppure troppo recenti, ecco perché per il momento preferisco concentrarmi sul vestito. La scientifica potrà dirci se sono rimaste tracce biologiche che possano rivelare se sia effettivamente di Barbara.

    Le utenze telefoniche sono sotto controllo?»

    «Già da venerdì.»

    «Bene. Si sa niente del DNA delle ossa?»

    Marco lo fissò con gli occhi sbarrati. «Ma dove credi di essere, all’FBI?»

    Christian sorrise sedendosi sulla sua poltrona.

    «C’ho provato!»

    E scoppiarono entrambi in una sonora risata.

    ***

    Quella sera Lara Baroni stava seguendo i vari notiziari per sentire se c’erano novità sul caso dello scheletro che aveva trovato nella valigia, quando il telefono prese a squillare.

    «Pronto?» rispose con calma.

    «Ehi!» brontolò Marina De Angelis. «Cos’è questa storia che hai trovato uno scheletro nella cantina della Casa Famiglia e non mi chiami per dirmelo? Ho dovuto saperlo da mio fratello.»

    «Ciao amica mia, hai già cenato?» chiese sorridendo.

    «Dimentica la mia cena. Allora? Quando pensavi di dirmelo?»

    «Mari, cosa volevi che ti dicessi? Che ho trovato uno scheletro umano in una valigia?» rispose sbuffando.

    «Ecco, esattamente questo, invece ho dovuto saperlo da mio fratello stamattina. Si può sapere perché non me l’hai detto? Santo cielo! Ti sarà venuto un colpo.»

    «Infatti e non c’era motivo che lo facessi venire anche a te, perciò lasciamo perdere questa storia, ok?»

    «Va bene, ma in compenso hai conosciuto l’affascinante magistrato che lavora con Marco. Che ne pensi? Bello vero? Lo sai che è un vip

    «Davvero? Perché vip

    «Ma dai, non dirmi che non sai chi è Christian Santacroce.»

    «Al momento mi sfugge. Chi sarebbe?»

    «Appartiene a una delle famiglie più antiche e ricche di Roma. Devi averlo visto per forza sulle pagine mondane dei giornali.»

    Lara ci pensò qualche istante. Era quello, forse, il motivo per cui aveva l’impressione di averlo già visto? Poi si ricordò di un matrimonio diventato un evento mondano internazionale e forse era lì che l’aveva visto! Lui però non era lo sposo, solo il testimone, anche se i flash dei fotografi erano stati quasi tutti per lui.

    Ricordò che tutto quello sfarzo l’aveva urtata parecchio, soprattutto considerando la miseria di quei giovani che assisteva alla Casa Famiglia. Aveva pensato che esistessero davvero due mondi che non si sarebbero mai incontrati.

    «Be’, che ne pensi?» le chiese tutta gasata Marina.

    «Di cosa?»

    «Di lui, ovvio!» chiarì esasperata.

    «Non capisco per quale motivo me lo stai chiedendo.»

    «Per nessun motivo in particolare, Lara! Dio! Sei esasperante! Era solo per dire, in fondo è una celebrità.»

    Lei sorrise. «Lo sai che non guardo molto queste cose, anzi, se proprio devo essere sincera, non mi piace per niente, penso che sia un uomo particolarmente irritante e pieno di sé. Invece tu lo conosci?»

    Questa volta fu il turno di Marina di sorridere. «L’ho incontrato diverse volte, ma non è un tipo che parla molto, anzi, è piuttosto taciturno, perciò so solo quello che mi ha raccontato mio fratello. Anche se non è molto che lavorano insieme, lui dice che è un tipo davvero in gamba.»

    «Può darsi che lavorativamente lo sia, ma a mio modesto parere resta un presuntuoso e nient’altro.»

    «Ma perché ti sta così antipatico? Cos’è successo, vuoi dirmelo?»

    Lara le riassunse brevemente la conversazione che aveva sentito per caso nel corridoio della Casa Famiglia e di come si era sentita umiliata dalle parole sprezzanti del magistrato, ma le assicurò che non le importava niente dell’opinione di Christian Santacroce, perciò non si era fatta cattivo sangue.

    «È strano, mio fratello ha un’ottima opinione di lui e se fosse un tipo tanto presuntuoso non avrebbero un così buon rapporto.»

    «Comunque sia, Mari, la cosa non ha molta importanza. Con un po’ di fortuna non avrò più l’opportunità di rivederlo, perciò preferisco dimenticarmi tutta questa storia.»

    «Va bene, allora ci vediamo domani come al solito?»

    «Sì, buonanotte.»

    Lara posò il cordless sul comodino e lo sguardo le cadde sul tablet.

    I Santacroce… inspiegabilmente era curiosa.

    Lo prese e digitò su Google il nome dell’antico casato. Trovò innumerevoli riferimenti, ma alla fine identificò la famiglia romana i cui antenati erano stati soggetti alquanto turbolenti, continuamente coinvolti nelle lotte baronali e nelle risse violente del Quattrocento. Il suo esponente più famoso era stato Prospero Santacroce, cardinale sotto Papa Pio V nel 1565. Leggendo la sua storia, apprese che era stato un uomo poco benvoluto, avido e dispotico, che si dedicava al commercio del tabacco dopo averlo importato per primo dalle Americhe. Oggi, i Santacroce erano ancora legati strettamente alla Santa Sede, gestivano gli studi legali più prestigiosi del Paese e operavano nell’alta finanza legata allo IOR.

    Lara fece una smorfia. Non riusciva a immaginare credenziali peggiori. Per quanto la riguardava, Christian Santacroce non era altro che un infiltrato di Santa Madre Chiesa nel sistema della giustizia italiana.

    Su un altro sito scoprì che il matrimonio tanto raccontato dai siti di gossip era quello di Onofrio, figlio di Antonio Santacroce e Giuliana Augusta Falconieri, con Rebecca Maria Vittoria Orsini.

    In un riquadro neanche troppo di secondo piano, c’era anche una foto del testimone di nozze, il cugino dello sposo, Christian Santacroce. Diceva che il figlio maggiore del secondogenito di Antonio, Alessandro, era un noto magistrato della Procura della Repubblica di Roma. Si era laureato in Legge con il massimo dei voti all’università La Sapienza di Roma, invece che in quella Pontificia come quasi tutti i suoi illustri parenti. Successivamente, aveva partecipato al concorso per commissario nella Polizia di Stato arrivando primo nella graduatoria, per poi ottenere il Master di primo e secondo livello in Scienze della Sicurezza alla Scuola Superiore di Polizia. Dopo aver ricoperto per un anno il ruolo di responsabile della Polizia Giudiziaria al Commissariato Ponte Milvio di Roma, aveva deciso d’intraprendere la carriera di magistrato e così, lavorando e studiando, aveva vinto il concorso ed era stato assegnato alla Procura della Repubblica di Milano.

    Trovò alcune foto in cui era in compagnia di donne bellissime che sembravano uscite dalle pagine delle riviste di moda, ad ogni occasione ce n’era una diversa. Noleggiava accompagnatrici? Lara scoppiò a ridere. Se lo sarebbe meritato.

    Su altri siti si parlava dell’efferato omicidio di una certa Beatrice Santacroce, ma Lara non la associò all’odioso magistrato, e comunque era stanca di quelle inutili divagazioni, perciò chiuse il tablet e prese un libro.

    Non le importava niente di un personaggio presuntuoso e maleducato come Christian Santacroce, un uomo che certamente doveva la sua fortuna alla potenza della Chiesa e non a meriti personali.

    CAPITOLO 6

    Roma, 21 gennaio 2015

    Marco aspettava l’arrivo di Christian comodamente seduto nel suo ufficio. Aveva appena ricevuto il referto del DNA e lo stava rileggendo per essere certo che non gli fosse sfuggito nulla.

    «Buongiorno, Marco» salutò il magistrato trovandoselo davanti.

    «Ehi, ciao, ti aspettavo.»

    «Da tanto?»

    «Una decina di minuti.»

    «Mi dispiace. Dimmi, c’è qualcosa di urgente?»

    Marco si appoggiò lentamente allo schienale della sedia e sorrise.

    «Ho il referto del DNA.»

    «È Barbara Sbaffi?»

    «No. Le ossa non sono sue. Il laboratorio ha confrontato il DNA dello scheletro con quello della madre della ragazza e il risultato non ha lasciato dubbi. Non è figlia sua, quindi, quella non è Barbara Sbaffi.»

    «Ok» fece Christian rassegnato. «Non c’è possibilità di errore?»

    «No, direi di no.»

    «Del vestito? Saputo niente?» chiese guardando il referto.

    «Il DNA della madre combacia con quello di un capello trovato tra le fibre, il che significa che Barbara lo ha indossato o ne è stata a contatto.»

    «Dunque il vestito è suo e questo la collega alla Casa Famiglia» concluse Christian in tono deciso. «Senti, facciamo un ultimo tentativo. Fai ripetere il test su un altro reperto osseo e poi deciderò.»

    «Sì, va

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