Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Storie e segreti delle grandi famiglie italiane
Storie e segreti delle grandi famiglie italiane
Storie e segreti delle grandi famiglie italiane
E-book340 pagine5 ore

Storie e segreti delle grandi famiglie italiane

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Dagli Agnelli ai Versace, dai Manzoni agli Olivetti: fortune e protagonisti delle dinastie più potenti

Quali sono le dinastie che hanno influenzato la sto­ria del nostro paese?
Questo libro raccoglie venticinque ritratti di famiglie che, per meriti o fortune avverse, si sono distinte dall’Unità d’Italia a oggi. Un per­corso alla scoperta dei misteri, dei segreti, delle curiosità e degli occul­tamenti che per interessi politici, economici o di etica personale sono stati taciuti o sono passati in secon­do piano. Gli uomini e le donne rac­contati in questo libro sono simboli delle fasi della storia d’Italia e han­no contribuito a scriverla, in diversi ambiti e periodi: dalla costruzione delle città moderne ai primi voli, dai neonati tentativi di progresso industriale alla smaterializzazione di capitali e idee. Dalla Terra allo spazio, dai sacrifici allo spreco, dal­la malattia alla cura, dalle libertà alle chiusure, andata e ritorno.

La storia delle grandi famiglie italiane di ieri e di oggi

Tra le storie presenti nel libro:

L’ultimo volo di Edoardo Agnelli
I Crespi, il villaggio operaio e il sogno di vincere la morte
Leonardo del vecchio, una vita di regole per un futuro incondizionato
La famiglia Feltrinelli e la storia dell’orso
Enzo e Dino Ferrari: quando un padre eredita da un figlio
Michele Ferrero, Beppe Fenoglio e la macchina del cioccolato
L’omicidio di Maurizio Gucci tra rappresentazione e realtà
Gioacchino Lauro e il “colpo alla napoletana”
Umberto Marzotto: navigare intorno al mondo per la libertà
Gianni Versace e la capsula del tempo
Rossella Monaco
È nata a Vaprio d’Adda nel 1986. Scrive e traduce libri. Ha tradotto inediti di Dickens, Thoreau, Verne e Fitzgerald e lavorato a profili bio­grafici di scrittori e uomini politi­ci, del presente e del passato. Con la Newton Compton ha pubblicato I grandi eroi della montagna, scritto insieme a Pietro Garanzini, e Storie e segreti delle grandi famiglie italiane.
LinguaItaliano
Data di uscita18 feb 2021
ISBN9788822745606
Storie e segreti delle grandi famiglie italiane

Leggi altro di Rossella Monaco

Correlato a Storie e segreti delle grandi famiglie italiane

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Storia europea per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Storie e segreti delle grandi famiglie italiane

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Storie e segreti delle grandi famiglie italiane - Rossella Monaco

    I Manzoni

    e la nevrosi moderna

    Nel 1862, se la guardavi dall’alto, Milano era un cuore. Non di quelli che si disegnano stilizzandoli per le persone che ami: un cuore di quelli pulsanti di sangue, fatto di carne e di ritmo, che infonde vita ai vasi sanguigni delle vie; un cuore solcato dai corsi che dal centro si irradiavano verso le porte cittadine, e lungo i quali si addensavano le costruzioni. Solo in apparenza si trattava di un organo sano. Gli orti e i giardini tutti intorno lasciavano di anno in anno lo spazio a nuovi edifici. Era un cuore che pericolosamente cresceva.

    I canali, di un blu petrolio che ormai virava al nero, erano diventati la linfa alimentare dell’ingrossamento disordinato di questa struttura urbana; circondavano il cuore, lo delimitavano insieme alla piazza d’Armi e alle mura spagnole, e lo sostentavano e lo sovraccaricavano nondimeno: c’erano la cerchia interna, che scorreva nei suoi due bracci da nord a sud, accresciuta dalla Martesana attraverso il Tombone di S. Marco; il ramo della Conca del Naviglio che sfociava nella Darsena, rubinetto dei Navigli e dell’Olona; la Vettabbia, che scivolava verso sud. E poi il Redefosso, vero bypass della Martesana, a limitare i più grossi danni.

    Se con spirito medico ti convincevi a studiare la composizione interna di questo cuore, per meglio indagarne il comportamento, potevi persino accorgerti che il tessuto iniziava a incancrenire. I fontanili e le rogge, quelli rimasti, collegando le vie d’acqua a quelle di terra, provavano ancora a renderlo spugnoso, a dargli respiro, con sempre minor successo.

    Non fosse bastata la vista ad accertarne lo stato, avvicinandosi alla terra, avresti potuto percepirne il battito schizofrenico: i sobbalzi delle carrozze, gli zoccoli ferrati dei cavalli da tiro sull’acciottolato, le frustate dei cocchieri. I tacchi delle scarpe di cuoio sul granito dei marciapiedi, i colpi di tosse dei pedoni asfissiati dalla polvere e dal malodore, che saliva dagli scoli su strada delle case; la notte, il gorgogliare d’acqua nei tubi per la manutenzione delle prime strade in macadam, da tenere sempre umide, e il crepitio della rete del gas per la nuova illuminazione. Poi, il riposo, lo scandire lento dei pendoli nelle camere di piombo. E, di mattina, il risveglio obbligato dall’incedere, sui pioli della scala, del ragazzo che spegneva le lanterne, dai coltelli dei macellai che preparavano i tagli di ossobuco per le massaie, dalle piccozze degli operai che rifacevano il manto stradale, tiravano su case, demolivano parte delle mura, dando nuova forma al cuore, riducendolo in brandelli.

    Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, s’era appena fatta l’Italia anche se vi rimanevano ancora fuori Veneto e Stato Pontificio. Si viveva un’epoca di grande fermento culturale e sociale. Si affermava il capitalismo industriale, venivano portate a termine le prime tratte ferroviarie, si discuteva di una lingua unica, letteraria, e nei salotti prevalevano la fiducia per il futuro e la scienza. Darwin aveva da pochi anni pubblicato L’origine delle specie e I miserabili di Victor Hugo entrava a far parte di quella schiera di romanzi storici in cui la finzione letteraria è un modo per cogliere il particolare, il dettaglio, le abitudini della gente comune, gli aspetti meno ufficiali delle biografie degli uomini noti.

    Per questa Milano in pieno fermento, si racconta sia passato, ricurvo e lento, una mattina del 1862, Alessandro Manzoni, il grande scrittore. Non deve esser stata per lui un’impresa semplice. Con il suo paltò color fumo, le spalle larghe e il collo appena rannicchiato, avrà camminato adagio, controllando l’equilibrio a ogni passo. Timoroso. Don Abbondio, personaggio nato dalla sua penna, è colui che meglio si presta a incarnar la titubanza che Manzoni sperimentava quando si trattava di uscire di casa.

    Però questa volta Alessandro non poteva esimersi dall’essere presente al matrimonio di sua nipote Enrichetta. Così, immaginiamocelo camminare verso la casa del figlio Enrico, con una sua lettera in mano, fermarsi, leggerne un pezzo, poi ripiegarla tenendo al punto in cui è arrivato, per segno, l’indice della mano destra; per trasfigurazione con il suo personaggio letterario, il curato, messa la mano nell’altra dietro la schiena, sempre con la lettera in mano, continua nel suo cammino, guardando a terra. È «un vaso di coccio, in mezzo a tanti vasi in ferro». Ha paura di muoversi, così, in mezzo alla strada, pure soltanto per il tratto breve che dalla carrozza lo porta a casa di suo figlio. Se potessimo leggere quella lettera, di preghiere ne troveremmo diverse; non simili a quelle del breviario di Don Abbondio, ma che gli procurano comunque prostrazione. Se potessimo leggere quella lettera e molte altre che Manzoni custodisce a casa sua, in via Morone, ci renderemmo conto che il fatto di essere presente a quel matrimonio per lui è uno sforzo immane¹. Eppure cammina, e forse pensa a come è cambiata quella zona della città dall’ultima volta che ci è passato, in quegli anni di rivoluzione urbana. E di certo cerca di isolarsi dai rumori della strada, dalle visioni disturbanti.

    Alessandro Manzoni era pieno di nevrosi² e avrà controllato di non trovarsi davanti qualche pozzanghera, di cui aveva grande paura, mentre si sforzava di rammentare vecchi cortili, rimpiazzati da facciate grigie, strade sterrate sostituite dalla pietra. Leggere la lettera del figlio poteva essere un modo per provare a distrarsi dalle fobie che di tanto in tanto arrivavano a prenderlo, una maniera di riuscire a mettere un piede davanti all’altro. All’indirizzo che rileggeva in quelle pagine, puntato lo sguardo in avanti, a un certo punto, proprio come don Abbondio con i Bravi, avrebbe dovuto incontrare un ostacolo, se l’aspettava, ma non l’avrebbe voluto vedere: era suo figlio Enrico, che l’attendeva davanti al portone dello stabile dove abitava.

    Le cronache dell’epoca descrivono Enrico Manzoni come un uomo non troppo alto di statura, con la tuba sempre sul capo, e un lungo sigaro in bocca. L’incontro non doveva essere per Alessandro troppo piacevole considerato che, nonostante fosse suo figlio, aveva sempre da proporgli qualche nuovo problema.

    È esperienza di chi abbia sofferto di attacchi di panico sentirsi crescere da dentro una sorta di bolla, che attutisce i sensi e incrementa il disagio interiore, quando si è posti di fronte a delle difficoltà. E siccome il grande Alessandro Manzoni soffriva di ogni genere di panico e spesso perdeva l’equilibrio in situazioni di forte stress, affrontare quella visione così sgradita avrebbe potuto essere per lui fonte di inevitabile instabilità.

    Nelle ultime lettere, Enrico era stato per lui pieno di ringraziamenti e di richieste. Nell’agosto del 1861, ad esempio, gli scriveva parlandogli dei figli e dello stato della sua famiglia:

    Carissimo, Pappà. Quanto sei buono per me, e quanto l’affettuoso invio che mi hai fatto mi ha penetrato di riconoscente tenerezza. Caro Pappà te ne sono con tutta l’anima riconoscente, e non saprei dirti la gioia che arrecò a tutta la famiglia ed a miei poveri convalescenti quelle belle pollastre, le anitre e quelle tante mele. Oh caro Pappà cosa dirai se nel momento che ricevo un altro pegno della tanta tua bontà per me, ardisco richiederti d’un nuovo favore? Ho fatto di tutto per non disturbarti, ma non vi sono riuscito. Dopo l’ultimo invio di legna, che hai avuto la bontà di farmi in aprile, e della quale ho cercato di farne tutta la più possibile economia, da qualche tempo ne sono senza affatto… Non ardirei pregarti di favorirmi delle stecche, ma qualche fascina, qualche po di schegge, infine un po di fondaccio di legnaia, tutto sarebbe buono ora per far bollire la pentola. In questo trimestre fui bersagliato da mille guai; le malattie, e la mancanza d’acqua che mi obbliga ad una spesa giornaliera per averne solo da bere… Perdonami, te ne supplico, se ho ardito tanto… Oh! Se tu potessi leggere nel mio povero cuore!³

    Enrico era solito portare a suo vantaggio le spese che aveva dovuto sostenere e le difficoltà che con una moglie e nove figli aveva dovuto affrontare. Non aveva un lavoro e scialacquava il sussidio trimestrale che riceveva dal padre. Il fatto che fosse affetto da ludopatia cronica non era più un mistero per nessuno, ed era il motivo per cui a un certo punto Alessandro aveva preso a donare giocattoli e vestiti ai nipoti, a mandare cibo, piuttosto che soldi, nella speranza che il suo operato fosse più utile che dannoso a quel disperato ramo della famiglia. Il sussidio economico veniva invece consegnato a Enrico per tramite di un prete, perché potesse meglio disporre di quei denari tanto pericolosi.

    Così Alessandro Manzoni arrivato davanti alla dimora del figlio, in via San Vittore, avrà di certo constatato lo stato di miseria in cui viveva insieme a sua moglie Emilia e ai figli. Al pian terreno operava una trattoria, dalla quale arrivava ogni giorno un delizioso odore di polenta e carne bollita, così intenso che a Enrico e ai suoi figli, nei giorni di magra, dovevano fermarsi le parole nella bocca per deglutire.

    Se Manzoni avesse deciso di descrivere l’abitazione di suo figlio in una sua opera, l’avrebbe fatto forse con una di quelle sue belle scene corali. Entrando nello stabile, oltre il portone, c’era un cortile attorno a cui giravano, simmetrici, dei ballatoi comuni. Gravavano sui muri delle case come apparecchi odontoiatrici fissati su denti cresciuti troppo storti. Il figlio abitava al terzo e ultimo piano.

    Così ecco che salgono le scale, Enrico e Alessandro, nella nostra immaginazione. Li aspetta, affacciato alle sbarre di legno del balcone, i calzoni rattoppati, i capelli spettinati, Lodovico, uno dei piccoli di casa.

    Al primo gradino che fanno, dalla parte opposta del cortile, al secondo piano, si affaccia una sartina fresca di figliata e accortasi della presenza di quell’uomo distinto che mai ha visto, subito si figura chi possa essere, giacché voci già circolavano da diverso tempo che il grande scrittore Alessandro Manzoni sarebbe stato presente al matrimonio della giovane Enrichetta. Vedendo che si accompagna con Enrico, la sartina manda la sua primogenita ad avvisare la vicina, confidente dei pomeriggi passati a cucir sottovesti e a far l’orlo a pantaloni, la quale, affacciatasi a sua volta e verificato il fatto, non riesce a non passare l’elettrizzante notizia al figlio in visita nella stanza adiacente, il quale si affaccia, anche lui, verso le scale, e così, di bocca in bocca, di finestra in finestra, tutti prendono a far congetture su chi sia quell’uomo distinto che va a trovare i Manzoni, e il bisbiglio diventa un’eco e l’eco un chiacchiericcio. E tutti si dicono che, sì, per forza, deve essere lui. Il grande Manzoni, senatore d’Italia, autore de I promessi sposi. È anziano e più basso di quel che pensavano, ed è lento e incurvato, ma deve esser lui, colui il quale, applaudito con Giovanni Battista Giorgini⁴ e Cavour, senza saper che la gloria era tutta sua, aveva battuto le mani pensando che fosse un omaggio alle due grandi personalità con cui si accompagnava: sempre modesto. La sua presenza certo stona un po’ con la grandezza della fama, ma è ben vestito e il portamento è decoroso. Dunque, alla fine, deve esser lui. Ha deciso di presentarsi. Di render felice quella povera ragazza dei Manzoni che mai si direbbe possa avere nobili origini dal momento che è costretta a dividere con la sorella il vestito buono della domenica, per andar a messa con decoro. Quando Alessandro fa l’ultimo gradino, si gira per guardare il cortile dall’alto, sopraffatto dalla fatica, e il chiacchiericcio si spegne. Alessandro ed Enrico, insieme a Lodovico, entrano.

    Nel buio se ne stanno, in riga, i nove figli di Enrico: Enrichetta, Alessandro, Matilde, Sofia, Lucia, Eugenio, Bianca, Lodovico ed Erminia. Lo salutano con affetto, abbracciandogli chi le gambe chi il busto. Poi dall’ombra compare Emilia Redaelli, i capelli raccolti in un toupet, il portamento che gli deriva dalle sue nobili origini.

    Non è più l’Emilia che, a ventitré anni, aveva sposato suo figlio Enrico portando in dote la considerevole cifra di 300.000 lire e una sontuosa villa a Renate. È tutto perduto, insieme alla giovinezza. E del resto lei non può non dirsi complice delle imprese di suo marito, avendolo spesso incoraggiato nelle ambizioni. Il commercio di bachi da seta che Enrico aveva messo in cantiere non aveva funzionato, così come non avevano funzionato le sempre più ardite imprese commerciali⁵. Il tenore di vita che avevano mantenuto e la grazia di far figli, uno dopo l’altro, avevano rafforzato il colpo, e a un certo punto si erano ritrovati a chiedere anticipi sull’eredità della nonna Giulia Beccaria, madre di Alessandro.

    Adesso Emilia assomiglia all’involucro di quel che è stata, un involucro pieno soltanto di salamelecchi e frasi codificate e lamentele per il suocero. Alessandro Manzoni ne ha passate di disgrazie. A partire dalla salute cagionevole, la sua e quella dei suoi parenti. In pochi anni ha visto morire la seconda moglie, Teresa Borri, le due gemelle⁶, le figlie Giulietta, Sofia, Cristina, Clara e Matilde, la madre Giulia Beccaria e la prima moglie, Enrichetta Blondel. Ha scritto più epigrafi sulle tombe altrui che opere letterarie.

    Le sue vertigini non l’hanno lasciato in pace fin dal 2 aprile del 1810. Manzoni e sua moglie Enrichetta erano a Parigi, in Place de la Concorde, per assistere ai festeggiamenti del matrimonio di Napoleone con Maria Luisa. Ironia della sorte, un altro sposalizio. In mezzo alla folla, schiacciati dalla foga dell’entusiasmo altrui, si trovarono in una situazione di pericolo. Enrichetta svenne tra le braccia di Alessandro. Tra il fumo provocato dai petardi, il calpestio confuso delle persone attorno, temette per un attimo di perderla. Furono quelle ondate di paura a provocargli le vertigini, per la prima volta, e tornarono a farlo ogni volta che si trovava per le vie e per le piazze.

    Come raccontava ad amici e parenti⁷ si sentiva mancare il terreno sotto i piedi come nel bel mezzo di un terremoto, le case sembravano crollare all’improvviso. Stefano Stampa, figlio della seconda moglie Teresa Borri, riferisce di un malore avvertito per strada (sempre a Parigi) e di come Alessandro Manzoni avesse trovato rifugio in una chiesa, riprendendosi grazie alla quiete del luogo⁸. Una terza testimonianza⁹, simile ad altre riportate da amici, vuole che il giorno di questo malore di Alessandro coincidesse con quello dello svenimento in piazza di Enrichetta e che lui, smarrita la sua giovane sposa, si fosse recato in chiesa per chieder preghiera di ritrovarla, cosa che poi era accaduta. Un lieto fine, se non fosse per il fatto che le vertigini e gli attacchi di panico, da allora, non lo avevano abbandonato mai e dal 1815 Enrichetta prima, Teresa dopo, gli amici e i figli dovettero sempre accompagnarlo quando intendeva uscire di casa.

    Il 25 marzo del 1816 era lo stesso Manzoni a scrivere al suo caro amico Claude Fauriel:

    Si tratta di inquietudini, di angosce, che causano in me un singolare scoraggiamento, ogniqualvolta non mi è possibile avere dei soccorsi rapidi, ho timore di mancamenti e mi trovo in uno stato di agitazione insopportabile, di maniera che il mio male mi rende possibile il solo rimedio efficace, le lunghe passeggiate. Vedo molto bene che l’immaginazione ha un grosso ruolo nei miei timori, ma questo nemico non basta conoscerlo per averlo vinto¹⁰.

    Il 28 aprile 1819 la madre di Manzoni, Giulia Beccaria, scriveva, ancora a Fauriel: «Si trova sempre nel suo stato di attacchi nervosi, sempre da diversi anni, incapace di muovere un solo passo fuori di casa senza essere accompagnato, sempre infaticabile se si tratta di correre, ma, dato che non può uscire con chiunque sia disposto a fare parecchie leghe in un giorno, allora molti giorni sono giorni di angoscia»¹¹.

    Tutto era iniziato da un matrimonio e forse Manzoni sperava che tutto finisse con un matrimonio, recandosi dalla nipote, quel giorno del 1862. In ogni caso, si trattava di un’occasione lieta, tanto più che la ragazza, ventun anni da poco compiuti, portava lo stesso nome della sua prima moglie. Quando era più piccola, Alessandro le aveva mandato una copia dei Promessi sposi con dedica: «Enrichetta, nome soave, sacro, benedetto per chi ha potuto conoscer quella, in nome di cui ti fu dato… Possa questo nome… esser per te un consigliere perpetuo, e come un esempio vivente»¹².

    Alessandro nutriva per Enrichetta Blondel un ricordo tanto tenero e virtuoso, che avrebbe passato l’intera giornata a parlare di lei. E del resto, finché era stata in vita, per lui c’era sempre stata. Già il 30 luglio del 1816 la donna scriveva a una cugina di Manzoni:

    La salute incostante del mio caro Alessandro è anche la causa del poco tempo che posso avere per me, perché le angosce nervose che prova non gli permettono di restar solo un momento. Ha tentato di vincersi più volte ma questo sforzo gli fa ancora peggio e una volta mentre si trovava solo nel suo giardino ha sentito che le angosce lo invadevano, ha voluto dimostrarsi superiore ad esse sforzandosi di non prestar loro attenzione, ha sentito che stava sopraggiungendogli uno svenimento e, non avendo potuto avere altro soccorso che sé stesso, ha rischiato di perdere un occhio gettandovisi dentro una quantità di acqua di Lecco…¹³

    Enrichetta aveva risolto per lui tanti problemi: una lista lunghissima di fobie e fissazioni, aggiuntesi dai trent’anni in poi. La paura delle strade aperte, dunque, ma anche la claustrofobia, la paura degli abissi e delle cime, la paura di cadere e la paura dell’acqua. Ecco perché quando si trattava di pozzanghere, le difficoltà per lui si acuivano¹⁴.

    Le virtù di Enrichetta erano sembrate fin da subito, ad Alessandro e a sua madre Giulia, salvifiche. E la nipote, Enrichetta Manzoni, portava la stessa eredità: era stata educata alle buone maniere, alla grazia e alla virtù, così come si intendevano per una donna nell’Ottocento. La ragazza, avendo all’epoca del matrimonio già più di vent’anni, aveva goduto della vita benestante dei genitori, per poi cadere in miseria insieme agli altri. Questo passaggio brusco tra un passato agiato e un presente di stenti le aveva provocato del risentimento sopito che però non manifestava mai; è possibile carpirlo appena, dalle lettere. Potevano aver influito in lei le esperienze inquiete dei genitori, senz’altro, ma era anche il frutto di un’impronta biologica, una tensione, una predisposizione ad ammalarsi di nervi, che aveva origine nei geni. Il suo bisnonno, Cesare Beccaria, aveva sofferto di disturbi nervosi, così anche lo zio di suo nonno Alessandro, Giulio Beccaria. C’era però qualcosa di meno organico, legato alle esperienze vissute.

    Lo scrittore, se avessimo potuto psicanalizzarlo, avremmo detto che fosse vittima di sindrome dell’abbandono. La sua biografia non poteva permettere che accadesse diversamente. Figlio illegittimo di Giovanni Verri, fu abbandonato dalla madre in collegio a sei anni, mentre il padre legale, il conte Pietro Manzoni, non seppe occuparsi di lui se non garantendogli un sostegno economico, a distanza, e quando egli morì, Alessandro non volle nemmeno vederlo.

    Se non bastassero questi dati biologici ed esperienziali del nonno, Enrichetta avrebbe potuto trovare, anche nella vita del padre, Enrico, costellazioni di contrattempi e sfortune che di certo non l’avrebbero resa tranquilla.

    Un episodio, in particolare, ricorre nelle lettere e nei racconti degli amici. Una di quelle storie che racconti a distanza di anni come aneddoto delle fortune avverse della vita e che, a riferirlo, perde gli attributi di trauma per diventare eredità familiare condivisa. Chissà se quel giorno, mentre Enrichetta si preparava per andare all’altare, Enrico o Alessandro l’hanno raccontato ai bambini, per scaricarli dalla tensione del grande evento!

    Era la metà di luglio del 1825 e Manzoni, sua madre, sua moglie e i figli erano partiti tutti, tranne il piccolo Filippo, per Livorno, per far fare qualche bagno in mare a Enrichetta Blondel, visto che la sua salute era sempre così cattiva. Erano felici di quel viaggio e non vedevano l’ora di stare un po’ all’aria aperta e veder nuovi paesaggi. Lo era soprattutto Manzoni, perché a seguito del successo de I promessi sposi non aveva fatto altro che far correzioni e discutere con amici e gente di lettere e legger recensioni sui giornali. Così partirono ed erano in tredici in due carrozze. Fecero sosta a Pavia per il pranzo, poi ripresero a viaggiare. Li colse la pioggia, nel frattempo. Passarono tranquilli il Po e i suoi eterni sabbioni ma le condizioni peggiorarono e furono costretti a fermarsi in un orrido albergo, con letti pieni di cimici, sicché non riuscirono quasi a dormire. Ripartirono alle 5 e a Tortona li sorprese un temporale. Così fu necessaria un’altra sosta per farlo diminuire. Il capo famiglia, a disagio quando si trattava di viaggiare, non era felice di tutta quell’acqua. I temporali gli mettevano ansia e fino a quel momento il meteo non aveva fatto che rallentarli. Come un presagio che scacci e ritorna rafforzato dall’impeto della spinta, dopo Arquato, in una discesa che cammina lungo un precipizio nel torrente Scrivia, le giongole dei cavalli della carrozza dei ragazzi si ruppero. Dalla carrozza davanti, i genitori sentirono delle grida, Giulietta, l’unica dei figli nella carrozza insieme ad Alessandro ed Enrichetta, guardò fuori e vide la carrozza dei fratelli rovesciata. Lo spavento dei due coniugi fu grande. Per fortuna, si era ribaltata addosso a un rialto. Solo quattro passi più avanti e li avrebbero persi tutti. Sarebbero finiti tutti nello Scrivia ingrossato dalla pioggia. Invece ne uscirono illesi.

    Enrico aveva solo sei anni all’epoca dell’incidente ma ricordava di esser stato gettato su una collinetta vicina da Pietro Luigi, suo fratello più grande. L’essere sopravvissuto e salvato da suo fratello aveva provocato qualche influenza sul suo futuro? La vita è un caso, frutto della Provvidenza, direbbe Manzoni. Quel che conosciamo per certo sono i problemi che Enrico ha provocato in seguito alla sua intera famiglia.

    Alessandro Manzoni provava per il figlio amore paterno e al tempo stesso grande dispiacere. Un’occasione come quella del matrimonio di Enrichetta avrebbe potuto riavvicinarli ma anche allontanarli del tutto.

    È facile immaginarseli in imbarazzo, in uno stato di confusione relazionale, trovatisi per un attimo soli prima della cerimonia. Enrico avrà fatto finta di sistemare oggetti sul tavolo e Alessandro avrà atteso, già conscio della tempesta in arrivo. Sarebbe bastato un lampo negli occhi dello scrittore per dar fuoco all’erba secca ammucchiata nel cuore del figlio.

    Se leggiamo le lettere familiari, scopriamo infatti che Enrico imputava al padre molto più di quel che lui stesso riusciva a intendere. Credeva che amasse molto di più i suoi fratelli, che il fatto che non gli mandasse più denaro ma oggetti di prima necessità e cibo fosse una mancanza di fiducia nei suoi confronti.

    Manzoni sapeva bene di questo risentimento di Enrico, perché il parroco che si occupava di consegnargli il sussidio trimestrale gli aveva scritto mandadogli una lettera di Emilia. Il contenuto era di palese risentimento per il cognato Pietro che a parere di lei viveva negli agi mentre loro erano costretti a rimanere nella miseria. Inoltre, Emilia accusava Pietro di dire cattiverie sulla loro famiglia per dissuadere il padre ad aiutarli. Ad Alessandro non sembrava di averli fatti vivere così malamente, finché aveva potuto. Aveva sostenuto i figli, in parti uguali, almeno fino a un certo punto. Enrico, però, più di tutti, gli recriminava di non esser stato un padre presente. La scrittura e gli incontri con letterati e politici avevano sempre tolto molto tempo alla famiglia (del resto Manzoni, come abbiamo detto, non aveva esempi paterni degni di questo nome), ma la malattia di nervi che lo limitava negli spostamenti deve aver giocato un ruolo importante nei legami con i propri cari. L’ultima figlia di Manzoni, Matilde, ad esempio, era morta a ventisei anni, in Toscana, ospite dalla sorella Vittoria, ma lontana da suo padre, senza mai riceverne visita, nonostante l’avesse tanto pregato di raggiungerla. Manzoni si era occupato di lei solo dopo la scomparsa, per farla tumulare nel corridoio del chiostro conventuale dei Servi di Maria.

    Finché c’era stata Enrichetta Blondel a compensare, tutto era andato bene, ma poi i ragazzi erano cresciuti e quando Alessandro si era rispostato con Teresa Borri, la situazione era perfino peggiorata. A parere di Enrico, lo scrittore si era messo inutilmente a compilare, con lei e Stefano Stampa, tabelle di termini toscani, invece di andarli a trovare e far sentire il suo calore paterno.

    L’insoddisfazione di Enrico a quel punto doveva esser stata grande, doveva avere un dispiacere profondo, derivato dalla consapevolezza che non ce l’avrebbe fatta a ripagare i debiti che aveva né a sfamare i suoi figli. Del resto si era rovinato con le sue stesse mani, giocandosi a carte o in scommesse i pochi guadagni che riusciva a procurare.

    Il giorno del matrimonio di Enrichetta le recriminazioni, le paure, i sottintesi, i sentimenti violenti covavano ancora tutti sotto la cenere. Non era ancora venuta a mancare Sofia, una delle figlie più piccole di Enrico, ad esempio. C’erano però certi torti, come Enrico li definiva, che non potevano essere taciuti, come il fatto che avesse saputo della morte della matrigna, Teresa Borri, dal giornale, senza che Alessandro lo avvertisse. Enrico di certo non poteva definirsi un bravo amministratore di denari ma c’era molto altro di sepolto nel rapporto con suo padre.

    Si arrivò all’apice nell’estate del 1870, otto anni dopo il matrimonio di Enrichetta. Se Pietro Manzoni risolveva ad Alessandro tutte le preoccupazioni, sobbarcandosi tutti i problemi, dalle bozze dei libri alle questioni terriere e di proprietà, Filippo e, soprattutto, Enrico gli procuravano soltanto dispiaceri. Quell’estate Alessandro Manzoni scrisse al figlio Enrico, che nel frattempo aveva trovato un lavoro e poi l’aveva perso e aveva continuato ad accumulare debiti:

    Dopo tanti anni di sacrifizi e di dolori da parte mia, e di promesse non mantenute e reiterate con la stessa asseveranza, dalla tua; e dopo un più pesante novo sacrifizio e una nova e più solenne assicurazione fattami in quella occasione, non mi sarei dovuto aspettare da te una nova richiesta. Ciò che io ti do annualmente, e che risulta dalle tue ricevute, basterebbe, al giudizio di qualunque onesta e pratica persona, per il mantenimento decente di una famiglia, anche più numerosa della tua, purché regolata… Ho ottantacinque anni; e tu stesso dovresti esser contento di compensare, col lasciarmi morire in pace, il non avermi lasciato vivere in pace per tanti anni, non solo per i dispiaceri che mi vennero direttamente da te, ma per le tante e tante persone che m’hai

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1