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Milo: Detective per amore
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E-book221 pagine3 ore

Milo: Detective per amore

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Info su questo ebook

La madre di Milo è stata uccisa, e il ragazzo, nonostante le cure amorevoli del padre e degli zii, si rifugia nella lettura, con immediata predilezione per i romanzi gialli. Forse è proprio per questa passione che non riesce ad accettare che il colpevole dell’assassinio di sua madre possa restare impunito, e comincia a investigare, scorrazzando per la città sulla sua bicicletta rossa.
Si tuffa così, all’insaputa dei suoi familiari, in un’indagine difficile quanto dolorosa, ma che affronta col piglio deciso del detective, come tanti suoi colleghi di carta.
Eppure, i colpevoli che individua di volta in volta, spesso sulla base di ingenui pregiudizi, non sembrano essere realmente coinvolti nell’omicidio, costringendo Milo a disperarsi per le sue ripetute sconfitte, rifiutando anche l’aiuto della dottoressa Laurenzi, la neuropsichiatra infantile alle cui cure è stato affidato fin dal primo giorno.
Ma Milo non è tipo da arrendersi. 
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788832783087
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    Anteprima del libro

    Milo - Giancarlo Vitagliano

    logogufo

    Giancarlo Vitagliano

    Milo

    Detective per amore

    logofrontespizio

    Dieci

    La selezione di narrativa italiana di Homo Scrivens.

    Dieci volumi ogni anno, con le prime 50 copie numerate a mano.

    Homo Scrivens

    Direttore di collana: Aldo Putignano

    Editing: Aldo Putignano

    Revisione bozze: Dontella De Tora

    Copertina: Ugo Ciaccio

    Autori: Giancarlo Vitagliano

    Titolo: Milo

    Detective per amore

    ISBN 9788832783087

    I edizione Homo Scrivens, aprile 2017

    I edizione ebook novembre 2022

    ©2016 Homo Scrivens s.r.l.

    via Santa Maria della Libera, 42

    80127 Napoli

    www.homoscrivens.it

    Riproduzione vietata ai sensi di legge

    (art. 171 della legge 22 aprile del 1941, n. 633)

    Coincidenze.

    Molti non credono alle coincidenze, eppure esistono.

    Quando cominciai a scrivere questo libro mi venne subito in mente il nome Milo: mi sembrava proprio adatto per un ragazzino svelto e curioso, ma ancora ingenuo.

    Un giorno, tornando da un breve viaggio, mia moglie e io trovammo un nuovo amico in casa: nostra figlia Valentina aveva preso un piccolo trovatello, bianco e nero, con un’aria furbetta e rapido come una saetta. La cosa più incredibile è stata che, assolutamente all’oscuro di ciò che stavo scrivendo, aveva chiamato il cagnolino Milo!

    A lui e ai cuccioli di ogni specie che non hanno più la mamma è dedicato questo libro.

    I

    Ero in aula, quel giorno, come tutti gli altri. Beh, tutti tranne il sabato e la domenica che non si andava perché la scuola era chiusa. Avevo studiato tutto, il pomeriggio precedente, ma questo non bastava a tenermi tranquillo: avvertivo una sudorazione strana, come se avessi paura che l’insegnante mi chiamasse a conferire alla cattedra. Ma io non avevo mai avuto paura di essere interrogato perché studiavo sempre, giorno per giorno, e la mamma mi aiutava a ripetere.

    A volte lo faceva anche papà, quando non era fuori per lavoro o a giocare a calcetto. Lui era proprio bravo a tirare calci al pallone, l’avevo visto quando giocava. E poi lo dicevano anche tutti i suoi amici che era un grande. Chissà, se non si fosse sposato così presto, sarebbe potuto diventare un buon giocatore di calcio, almeno così diceva la mamma. Lei era molto orgogliosa di papà: diceva sempre a tutti che se ne innamorò subito, la prima volta che lo vide. Papà, invece, raccontava che erano mesi che le andava dietro senza che lei lo notasse. E da questo momento spesso fingevano di litigare, per poi finire tutto tra risate e abbracci.

    Era proprio una bella coppia: lei con gli occhi verde chiarissimo e i capelli lisci e castani, lui occhi e capelli scuri, pieno di ricci. Quando eravamo tutti e tre insieme mi dicevano sempre che si vedeva che ero figlio loro, con i capelli mossi e scuri (ma non come quelli di papà) e gli occhi verdi (ma non brillanti come quelli di mamma) e questo mi rendeva orgoglioso.

    Continuavo a pensare a queste cose, invece di stare attento alla lezione, quando entrò Luigi, il bidello.

    Mi sembrò che mi cercasse tra gli altri alunni, come se volesse assicurarsi che fossi presente, prima di avvicinarsi all’insegnante e di mormorarle qualcosa all’orecchio; anche lei mi guardò e capii subito che dovevo andare con lui. Mi alzai dal banco e stavo per seguirlo, quando mi disse di prendere tutta la mia roba perché sarei dovuto ritornare a casa.

    Rimasi per un attimo sorpreso: era la prima volta che succedeva.

    In altre occasioni Luigi era entrato a chiamarmi perché c’era uno dei miei che era venuto per portarmi la merenda oppure per consegnarmi un libro o un quaderno che avevo dimenticato a casa; questo succedeva perché facevo colazione di fretta, mentre riponevo nello zaino quello che mi occorreva per la giornata a scuola, e qualche volta lasciavo sul tavolo della cucina qualcosa senza proprio accorgermene. Anche perché era sempre papà che mi accompagnava, all’andata, e lui aveva fretta di andare presto in ufficio, anche se nessuno lo sorvegliava.

    Papà era un ingegnere e lavorava in proprio, cioè non aveva superiori; però, mi diceva sempre che il primo capo di te stesso sei tu e se vuoi che la tua azienda vada bene devi darti da fare. Mamma sorrideva sempre, quando lui faceva queste affermazioni e gli lanciava uno sguardo di complicità. A proposito di mamma, era con lei che tornavo da scuola ed era sempre una bella passeggiata a piedi con lei che mi chiedeva cosa avevo fatto a lezione, se fossi stato interrogato: insomma voleva sapere come mi erano andate le cose e io, con la mia mano stretta nella sua, gliele raccontavo, a volte esagerando un po’ i miei meriti.

    Luigi mi aveva accompagnato dal preside e mi aveva detto di aspettare davanti alla porta dell’ufficio. Che avessi combinato qualcosa?

    Beh, ero andato nei bagni delle ragazze, però solo per inseguire quella stupida di Lucrezia. Lo so che non era permesso, ma se una si ruba la tua penna che devi fare, lasciargliela?

    Glielo avrei spiegato al professor Stefani, come erano andate le cose; lui di certo avrebbe capito: non era un uomo anche lui?

    La porta si aprì, ma il preside non era da solo: c’erano anche due poliziotte. Se quella grossa, con corti capelli biondi e piccoli occhi blu, era proprio come mi aspettavo fossero le donne poliziotto l’altra, bassina, bruna e rotondetta, mi sembrava tutto tranne che un’agente di polizia.

    A ogni modo, erano poliziotte ed erano lì per me, altrimenti che ci facevano nell’ufficio del preside?

    Addirittura! pensai. Mica era una cosa così grave.

    Vabbè, anche se femmine avrebbero capito anche loro: erano grandi, mica come quella stupida di Lucrezia che mi aveva ficcato in questo guaio.

    Sentii la faccia che mi si infiammava mentre Luigi mi spingeva dentro.

    Vidi il preside che si piegava sulle ginocchia per parlarmi faccia a faccia.

    Doveva essere proprio peggio di quel che avevo immaginato: non glielo avevo mai visto fare!

    «Milo» mi chiamò con un sorriso increspato sulle labbra. A quel punto incominciai proprio a preoccuparmi, non aveva mai chiamato nessuno per il diminutivo, e drizzai la testa spalancando gli occhi. «Devi andare con queste… signorine».

    Mentre lo diceva, incrociò lo sguardo con le poliziotte, quasi a scusarsi di come le aveva chiamate, e alzò per un attimo le sopracciglia per giustificarsi prima di proseguire.

    Mi guardai intorno, come per cercare una ragione di quello che stava succedendo.

    «Ma… mamma… papà… che diranno?»

    Lo sguardo del professor Stefani cadde per un attimo in basso, verso il tappeto. Poi lo vidi fissarmi con gli occhi che dicevano qualcosa di diverso dalle parole: «Non preoccuparti, loro sanno già tutto».

    Mentre uscivo, mi girai verso il preside e gli chiesi: «Professore, se sono andato nel bagno delle femmine è perché inseguivo Lucrezia, non volevo andarci davvero, ma dovevo riprendermi la penna».

    Mi sembrò di vedere una luce umida vagare negli occhi del preside prima che mi rispondesse: «No, non è per quello, stai tranquillo».

    Mi sentii un po’ più sollevato: se non era per quel motivo, non c’era nulla di peggio che avessi fatto e, allora, di certo non era nulla di importante. E sorrisi.

    Fu l’ultima volta che lo feci in quel giorno e in quelli a seguire.

    Le due poliziotte non parlarono per nulla per tutto il tragitto; di tanto in tanto, mentre quella più bassina guidava, la bionda si girava verso di me e mi rivolgeva un sorriso che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto tranquillizzarmi, mentre io mi chiedevo che ci fosse di così urgente per portarmi via da scuola se non era stato per la faccenda del bagno delle ragazze.

    Dopo parcheggiato, mi fecero entrare in un edificio grigio e mi condussero al primo piano. Una di loro bussò con le nocche al vetro della porta. Dall’interno, una voce di donna disse avanti e la poliziotta bruna, facendo capolino nella stanza, disse: «Dottoressa, il ragazzo è qui».

    La stessa voce di poco prima, in tono calmo e rassicurante, disse: «Lo faccia entrare e, per favore, almeno una di voi rimanga con noi mentre gli parlo».

    Entrai tranquillo: la mamma mi portava spesso dalla dottoressa per farmi vedere la gola o sentire le spalle. Una volta le chiese anche di vedere se mi erano scese le palline; lei mi visitò e disse che era normale che ogni tanto salissero quando faceva freddo o che scendessero più giù se avevo la febbre e aggiunse anche che ero proprio un maschietto in tutto e per tutto. Questo mi lasciò stupito: perché, non lo ero già prima della visita? Mah!

    «Ciao, Emilio. Sono la dottoressa Gina Laurenzi. Siediti, per favore» e accompagnò l’invito con un morbido gesto della mano. Aveva le dita lunghe e le unghie con uno smalto di un bel rosso lucido.

    Risposi al saluto e scelsi la poltroncina sulla destra, lasciando l’altra alla poliziotta bionda che, però, non si sedette, rimanendo vicino alla porta.

    La dottoressa inforcò gli occhiali e prese a parlare: della vita, delle sue difficoltà, del perché le cose non sono eterne e di un sacco di altri fatti, ma di tutto questo non ricordo nulla. Ricordo solo che a un certo punto mi disse, guardandomi fisso, che la mamma non c’era più, che era volata in cielo. Io spinsi i miei occhi nei suoi e le chiesi: «Perché?»

    Per un attimo gli occhi castani della dottoressa vagarono per la stanza, poi si fermarono su di me e sentii che scrutavano i particolari: il mio viso, le mie labbra, il mio sguardo, le mie mani.

    Solo dopo aver osservato tutto questo, la dottoressa mi rispose: «Qualcuno è stato molto cattivo con la tua mamma e lei non ce l’ha fatta a sopportare tutto questo».

    Avrei voluto piangere per far vedere quanto mi dispiaceva, ma non riuscii a fare neanche questo: mi guardai le ginocchia che cercavano di sbucare attraverso i jeans, tanto ero magro io e tanto erano consumati loro, e pensai a come sarebbe stato strano cenare soli io e papà.

    Alzai lo sguardo e chiesi: «E papà, anche lui…»

    La dottoressa mi sorrise e inclinò appena la testa mentre mi rispondeva.

    «Sta bene. È di là con un altro dottore che si sta occupando di lui come io sto facendo con te».

    Girai il capo verso la parete divisoria, come se avessi potuto vedere dov’era.

    «Fra poco sarai con lui. Devo solo accertarmi che tu stia bene».

    Mi voltai verso la dottoressa a occhi sgranati; fissai prima lei e poi lanciai uno sguardo in tralice verso la poliziotta.

    «Deve visitarmi?» domandai, con la mente che tornava alle visite della mia dottoressa e pensavo che allora mi ero spogliato con mia madre e lei presenti, e che ora c’erano queste due donne che non avevo mai visto e questo mi scocciava non poco.

    «Non preoccuparti, io sono una dottoressa che visita parlando e ho già visto che è tutto a posto. Almeno per ora. Però ti lascio il mio numero e puoi chiamarmi ogni volta che ne avrai voglia. D’accordo?»

    Guardai il biglietto da visita che mi stava dando e lessi: dott. Luigia Laurenzi, neuropsichiatria infantile. Lo riposi nella tasca esterna dello zaino e mi alzai in piedi, con la voglia di vedere mio padre che mi scoppiava dentro.

    Uscimmo quasi nello stesso momento dalle stanze poste l’una di fronte all’altra; gli corsi incontro e lui lasciò cadere per terra la borsa che aveva in mano per abbracciarmi. Solo allora riuscii a piangere e a mormorare: «Papà, mamma…» e nient’altro.

    Quando mi staccai dal suo abbraccio, vidi che anche il suo volto era bagnato dalle lacrime. Mi strinse la mano e quel contatto mi calmò un po’.

    Uscimmo dal quel palazzo grigio; aveva smesso di piovere, ma la luce del sole non mi riscaldò neanche un po’ mentre andavamo verso l’auto.

    Non era la prima volta che sedevo sul sedile anteriore, ma sentii il disagio che mi cresceva dentro e tornai a piangere. Papà mi accarezzò la testa senza dire nulla; capii che, se avesse parlato, avrebbe ricominciato a piangere anche lui e non sarebbe stato più capace di guidare.

    Quella sera ci misi del tempo ad addormentarmi, anche se papà era rimasto nella mia camera per farmi compagnia. Durante la notte, mi svegliai più volte, ma una strana debolezza mi faceva ricadere subito in uno stato di dormiveglia. Solo una volta, penso a notte fonda, sentii delle voci e mi alzai dal letto; a piedi nudi arrivai vicino alla porta del soggiorno e, senza entrare, ascoltai quel parlottio sommesso. Riconobbi la voce di zia Lucy, la sorella di mamma, e del marito, Franco; li sentii mentre si rivolgevano con dolcezza a papà, mentre tentavano di confortarlo. Mi sporsi appena e lo vidi disteso sulla poltrona, le mani con le dita unite davanti alle labbra, che guardava fisso davanti a sé, ma non mi sembrava proprio che stesse ascoltando le parole degli altri due. Allungai un po’ il collo e intravidi appena le sedie poste di fronte alla sua poltrona; riuscivo a malapena a distinguere il profilo della zia e del marito.

    Me ne tornai a letto, senza che si accorgessero della mia presenza.

    Sotto le coperte pensai: E se fosse tutto un sogno? Non può essere che adesso sto dormendo e sto sognando che sia accaduto tutto questo? Non può essere che la mamma sia viva, che domani mi sveglierò e la troverò in cucina che ha già preparato la colazione?

    Del resto, mi era già accaduto di svegliarmi d’improvviso nel cuore della notte, tutto sudato, affannato, con il cuore impazzito che picchiava contro il petto e di sbarrare gli occhi nel buio per alcuni minuti, prima di capire che quella che stavo vivendo non era una brutta realtà, ma solo un incubo. Quel pensiero, così colmo di speranza, mi permise di scivolare di nuovo nel sonno.

    Al mattino, quando mi svegliai, ricordai di essermi addormentato con papà vicino e lo cercai, senza trovarlo; poi le immagini di ciò che avevo visto quella notte riaffiorarono e corsi in salotto. Lo trovai sulla poltrona con gli occhi sbarrati nel vuoto, da solo: sulle sedie che aveva di fronte non c’era più nessuno.

    Mi distesi sul divano per fargli compagnia e guardarlo mentre dormiva: il suo viso aveva un’espressione cupa e, di tanto in tanto, si contraeva in una smorfia dolorosa.

    I miei occhi furono attratti dalla bottiglia che era sul tavolo tra di noi: di liquore, ne rimaneva solo un fondo.

    II

    Il bisbiglio di alcune voci mi svegliò, ma non aprii gli occhi. Mi sentivo la testa confusa come quando iniziavo a studiare subito dopo pranzo e non smettevo fino all’ora di cena.

    Tentai di capire chi fosse a parlare; riuscii subito a riconoscere la voce di papà, anche se era fioca e, di tanto in tanto, s’interrompeva per qualche secondo prima di riprendere. La voce femminile sembrava quella della mamma, ma io sapevo che non era la sua. Tesi le orecchie e capii che era zia Lucy a parlare. L’ultima voce era di zio Franco.

    Mentre continuavo a sforzarmi per cogliere il significato di quelle parole sommesse e spezzate, feci correre la mano sulla superficie sulla quale ero e non sentii il lenzuolo ma la stoffa vellutata del divano.

    Di colpo ricordai tutto: la morte della mamma, papà sulla poltrona e io che mi ero steso sul divano per potergli essere utile se ne avesse avuto bisogno. E, invece, mi ero addormentato.

    Ero sul punto di saltare su per andare di corsa ad abbracciarlo e per farmi consolare dagli zii, quando sentii il cicalino del campanello che trillava e rimasi fermo in attesa, trattenendo il respiro, con gli occhi spalancati nella penombra.

    E se fosse tutto un sogno? Forse adesso la mamma sta tornando dalla spesa e sentirò la sua voce appena entra in casa.

    D’improvviso ricordai che avevo fatto lo stesso pensiero la sera prima e capii che era solo una speranza, che era tutto vero: la mamma era morta!

    «Buongiorno, signor Rossi. Sono l’ispettore Guidi della mobile. Se permette, dovrei farle alcune domande. Sa, sono prassi

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