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Realmente amore
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E-book376 pagine5 ore

Realmente amore

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Info su questo ebook

Samantha Rousseau sa bene che cosa vuol dire lavorare sodo. Si sta impegnando al massimo per ottenere la sua laurea in Scienze naturali e si prende cura di suo padre, ammalato da anni. Non ha tempo per gossip, vestiti costosi o vacanze di lusso. Così, quando riceve un invito a cena da parte di una duchessa nel piccolo regno di Lilaria, non può credere ai suoi occhi. Possibile che sia rimasta colpita dal suo programma di ricerca e voglia fare una donazione all'università? La verità va oltre ogni immaginazione ed è destinata a sconvolgere per sempre la vita di Samantha. Alex D'Lynsal sta cercando di ripulire la sua reputazione. Il suo ruolo di erede al trono di Lilaria, infatti, gli impone di mettere la testa a posto una volta per tutte. Ma per uno come Alex non è semplice rinunciare al fascino di una bella donna.
Specialmente una come Samantha...

Nichole Chase
è un'autrice bestseller di New York Times e USA Today ed è anche una divoratrice seriale di libri. Ama sognare a occhi aperti, scrivere e dipingere. Vive nel sud della Georgia con il marito, la figlia, un cane e due gatti. 
LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2019
ISBN9788822731227
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    Anteprima del libro

    Realmente amore - Nichole Chase

    Capitolo 1

    I benefattori reali mandano in subbuglio l’università

    College Daily

    Dire che la mia giornata non stava andando bene è un po’ come dire che per Maria Antonietta la Rivoluzione francese fu una scaramuccia. Il furgone aveva arrancato borbottando per tutto il tragitto fino all’università. Almeno metà degli studenti avevano disertato la mia prima lezione e, oltretutto, io non riuscivo a trovare i compiti che avevo corretto durante il fine settimana. La mia giornata si stava trasformando in una pessima canzone country. All’ora di pranzo non vedevo l’ora della pausa. Agguantai un sandwich e lo mangiai mentre andavo in biblioteca. Nel nostro edificio la linea Internet non funzionava e dovevo fare delle ricerche.

    Fu così che mi imbattei in tutta quella gente. Sembrava che gli studenti si fossero dati appuntamento nel bel mezzo del campus per festeggiare il pre-partita. Sciami di matricole ridacchiavano e spingevano per arrivare in prima fila e uno di loro mi dette una gomitata, facendomi cadere il quaderno che avevo in mano. Le associazioni studentesche avevano appeso agli alberi dei cartelli che avevano preparato per dare il benvenuto a qualcuno. Feci una smorfia di disgusto quando mi accorsi che avevano usato anche un lenzuolo non proprio pulito. Spostai lo sguardo dai cartelli alla folla e capii che non sarei mai riuscita ad arrivare in cima alle scale della biblioteca. A metà della gradinata c’era un gruppo di persone, ma mi soffermai su un uomo alto e biondo. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Stava scherzando con una ragazza che sbatteva le ciglia e si rigirava un ricciolo tra le dita.

    Cercai di capire come mai fossero tutti così esaltati, ma non c’era niente che lo lasciasse intuire. I benefattori venivano al campus di continuo e la maggior parte degli studenti, tutti presi da se stessi, non se ne accorgeva. L’uomo sulle scale era abbastanza attraente da poter essere una stella del cinema e probabilmente era per quello che erano usciti tutti.

    «Sam, lo hai visto? Il principe!». Una delle ragazze della prima classe mi tirò per un braccio.

    «Principe? Ah, sì».

    Un principe? Un principe in carne e ossa con una corona e un trono? Non c’era da meravigliarsi che tutta quella gente fosse lì fuori con la neve. Un benefattore regale avrebbe fatto uscire chiunque. Le stelle del cinema erano una cosa, ma un principe! Non è qualcosa che ti capita tutti i giorni. Mi chiedevo come mai un reale contribuisse con una donazione alla nostra scuola, ma starmene fuori al freddo a guardare un tipo che faceva il cascamorto non rientrava nei miei piani. Avevo troppo poco tempo prima di dover andare al centro di ricerca e un sacco di cose da fare.

    «È bellissimo», disse la ragazza tutta agitata, mentre le sue amiche facevano cenni di apprezzamento.

    «Sì, non è male». Alzai gli occhi al cielo.

    «Nemmeno tu puoi negare che è sexy», mi disse ridendo.

    Che accidenti voleva dire? Non ero mica cieca. Certo che lo vedevo che era sexy. Ma chi se ne infischiava, non lo avrei più rivisto. Era un rarissimo principe!

    Girai sui tacchi e mi diressi verso un’entrata laterale, ma dopo poco mi accorsi che era bloccata dalla polizia.

    A denti stretti mi trascinai in mezzo alla neve fino all’entrata posteriore. Ci misi un secolo perché dovevo scansare frotte di gente. Per poco non inciampai su un cavo e un giornalista mi gridò dietro. Gli rivolsi il mio migliore sguardo da sparati e muori, ma non se la prese. Non ero ancora arrivata ai gradini sul retro che ero già pronta ad ammazzare qualcuno.

    Davanti all’entrata c’era un gruppo di poliziotti, ma non mi importava. Andai dritta a testa alta verso l’ingresso.

    «Non può entrare, signorina».

    «Perché no? Pago la retta, quindi posso usare la biblioteca».

    «In questo momento è chiusa. Riaprirà tra un’ora circa».

    «Tra un’ora ho un altro impegno». Gli feci gli occhioni da angioletto. «Devo solo usare Internet e prendere in prestito dei libri. Per favore? Sarò rapida. Uno di voi può venire dentro con me».

    «Mi dispiace, non è permesso».

    Feci un bel respiro, sentii l’aria fredda pizzicarmi i polmoni e mi diressi al parcheggio. Girai la manovella per mettere in moto il furgone e andai al centro. Era destino: non avrei fatto quello che mi serviva, quindi tanto valeva buttarsi nell’altro aspetto del lavoro.

    Stare con gli uccelli mi metteva di buonumore. Dopo aver controllato che non ci fossero problemi nelle gabbie, passai a pesarli e misurarli. Quando fu il turno di Dover, una civetta che era stata investita da una macchina, le sussurrai per rassicurarla. Aveva perso un occhio, quindi tendeva a essere nervosa quando le persone si avvicinavano alla sua voliera.

    «Ehi, tesoro. È l’ora della pappa». Aprii la gabbia ed entrai piano piano. Sciolsi il filo che la legava al posatoio e le detti un’occhiata per vedere come stava.

    Una volta portata nel mio studio, la pesai e con precisione annotai sui registri tutti i dati.

    «Mangia tutto, dài che ti piace». Le portai il topo fino al becco, ma si girò dall’altra parte. «Su, forza, Dover. Sono delle interiora di topo da leccarsi i baffi. Il tuo piatto preferito».

    Alzò le piume e soffiò. Dover era graziosa ma farla mangiare era sempre motivo di frustrazione. Le riavvicinai il topo al becco, per essere sicura che vedesse il cibo con l’occhio buono. Con delicatezza, come se mi stesse facendo un favore, prese un piccolo morso.

    «Ecco fatto», mormorai. «Su, continua a mangiare».

    Con calma alzò un artiglio e afferrò il topo. Sospirai sollevata. Doveva mangiare per non perdere peso. Era anche il modo in cui le somministravamo le medicine. Dover era un uccello intelligente e sospettavo che sapesse che le mettevamo qualcosa nel cibo.

    Quando ebbe finito, la misurai e la rimisi nella voliera. Detti una rapida controllata alla gabbia e pulii tutta la cacca che aveva fatto. Controllai i registri per essere sicura che ci fosse tutto, scrissi degli appunti su una poiana di Harris che aveva un’ala ferita e chiusi lo studio.

    Quando fui pronta per andarmene, mi sentivo già molto meglio. Le scocciature di prima non sembravano più così gravi e non vedevo l’ora di arrivare a casa. Dopo aver controllato due volte medicine e cibo per il giorno seguente, spensi le luci e uscii. Mentre mi avvicinavo all’ingresso tirai fuori le chiavi per chiudere il cancello. Nessun altro sarebbe passato fino alla mattina seguente.

    «Samantha Rousseau?».

    Vidi l’uomo che stava davanti al cancello del mio centro di ricerca. Pantaloni scuri su una giacca nera e una cravatta altrettanto noiosa. L’unica cosa che dava nell’occhio era un paio di costosi occhiali da sole sul naso e un piccolo congegno infilato nell’orecchio, con un filo a spirale che scendeva nel colletto della camicia.

    «Sì?». Finii di chiudere la parte bassa del cancello e mi alzai. Non era altissimo, probabilmente aveva l’età di mio padre, ma irradiava potere. Dal momento che tendo ad avere delle grane con le autorità, fin da subito non mi risultò simpatico. Non mi aveva dato nessuna ragione per non piacermi, ma quelli che pensano di essere meglio di te o di saperne di più mi danno ai nervi.

    «È lei Samantha Rousseau?», domandò di nuovo. Non si era presentato né si era sforzato di apparire amichevole. Nessuna stretta di mano.

    «Chi mi cerca?». Mi misi la borsa sulla spalla incamminandomi verso il mio vecchio camioncino. Il Signor Comando Io mi seguì a distanza ravvicinata, irritandomi ancora di più.

    «Se è lei Samantha ho bisogno di parlarle in privato».

    Buttai la borsa sul retro del furgone e mi voltai a guardarlo. Non mi presi il disturbo di mascherare l’espressione di fastidio che mi causò quando mi accorsi di quanto fosse vicino.

    «Bene, allora, se io sono Samantha tu sei un tipo fortunato. Non c’è nessun altro qui intorno». Feci un cenno verso il parcheggio deserto. C’eravamo solo noi due.

    La sua espressione fredda per un attimo sembrò incrinarsi e mi rivolse una smorfia che poteva quasi passare per un sorriso. «Signorina Rousseau, mi farebbe piacere se venisse con me. C’è una persona in città che vorrebbe parlarle».

    «Ehm, sì. Non credo proprio, Signor Gelo. Guarda, se sei qui per le parcelle mediche di mio padre, ho pagato una percentuale oggi. Se mio padre potesse pagare tutto lo farebbe, ma dal momento che non può lavorare dubito che succederà a breve».

    Aprii la porta del furgoncino con uno strattone e feci per salire. Sentii una mano sulla spalla e reagii senza pensare. Gli afferrai le dita e gliele torsi mentre mi voltavo, poi cercai di colpirlo con l’altro braccio. Purtroppo sembrava aspettarsi questa mossa e reagì con prontezza. Riprendendosi la mano, si piegò per schivare il colpo.

    «Chi ti credi di essere?». Mi tolsi i capelli dagli occhi e lo fissai. Il fatto che sorridesse con quell’aria misteriosa mi irritava ancora di più.

    «Mossa graziosa, signorina Rousseau. Mi aveva quasi preso». Il Signor Comando Io annuì in segno di approvazione. Strinsi i pugni lungo i fianchi per trattenermi dal ridurlo in poltiglia. Che insolente…

    «Questo è il mio biglietto da visita. Mi chiamo Duvall. Al mio superiore farebbe molto piacere se venisse a cena con noi stasera. Alloggia al Parallel e ha prenotato un tavolo alle otto e mezza al ristorante al piano inferiore». Guardai prima il biglietto, poi la sua faccia. Di cosa si sarebbe mai potuto trattare? Il Parallel era l’albergo più lussuoso della città. Notai uno strano stemma in cima al biglietto da visita, raffigurava un uccellino che si riposava su un albero avvolto in uno scudo blu. Chi era questo tipo misterioso con un auricolare all’orecchio?

    «Chi è il tuo capo?»

    «La duchessa Rose Sverelle di Dollange».

    Lo guardai un attimo per capire se stesse scherzando. No, era ancora immobilizzato in quell’espressione fredda e seria. Incredula, continuavo a spostare lo sguardo dal biglietto al suo viso.

    «Mi sa che hai sbagliato Samantha. Non c’è nessun motivo per cui una duchessa dovrebbe cercarmi». Mi sistemai al posto di guida e una volta che ebbi tirato dentro la gamba lui mi chiuse la porta, sforzandosi di accennare un sorriso. Sul suo viso faceva un effetto strano, come se non ci fosse abituato. Tirai giù il finestrino e cercai di restituirgli il biglietto da visita, ma agitò la mano per dirmi di tenerlo.

    «È Samantha Rousseau, dottoressa in Biologia, specializzata in fauna selvatica, in particolar modo in rapaci? Figlia di Martha Rousseau?»

    «Ehm, sì, ma…». Scossi la testa mentre si avvicinava al finestrino.

    «Sono molto bravo nel mio lavoro, signorina Rousseau. Mi hanno detto di trovare Samantha Rousseau, e io l’ho trovata. I motivi della duchessa sono affare suo». Mi guardò con aria di scusa. «Certo, la falconeria è uno sport diffuso nel nostro Paese. Forse ha a che fare con quello».

    «E di quale Paese si tratta?». Riguardai il biglietto da visita come se potesse suggerirmi una risposta.

    «Lilaria». Si allontanò dal furgoncino soddisfatto. Per un attimo lo fissai in confusione, infine buttai il biglietto sul sedile di fianco e girai la chiave nel quadro.

    «D’accordo, Duvall. Provo a venire, ma sono parecchio impegnata. Devo prima controllare l’agenda». A quelle parole, ingranai la retromarcia.

    «Certo». Lui annuì mentre mettevo la prima e uscivo dal parcheggio.

    Dall’espressione che aveva fatto, ero sicura che sapesse che stavo mentendo riguardo all’essere parecchio impegnata.

    Lo osservai salire sulla sua berlina, accorgendomi solo in quel momento delle bandierine sul cofano. Ma cosa vorrà mai una duchessa da me? Accesi la radio e mi appoggiai allo schienale. Non la smettevo di rimuginare sul perché qualcuno di un Paese di cui conoscevo a malapena l’esistenza volesse parlarmi. Forse era interessata al centro di ricerca. Ma perché contattare me? Non avrebbe avuto più senso parlare con il dottor Geller? Era lui che avrebbe gestito le donazioni o qualsiasi altro tipo di partecipazione da parte sua. In realtà non era in città, forse si era dimenticato di dirmi che sarebbe venuta questa signora?

    Il furgoncino arrancava mentre cambiavo marcia e mi immettevo in autostrada. L’orologio sul cruscotto segnava quasi le cinque e mezza. Il dottor Geller era ancora sul campo, quindi era inutile chiamarlo per capire cosa stesse succedendo. Non mi rimaneva che improvvisare. Infastidita, accelerai. Non avevo molto tempo per cambiarmi e tornare in città.

    In effetti non è che avessi altro da fare e alla fine la duchessa avrebbe potuto aiutare il centro di ricerca. Il personale si arrangiava con la metà del materiale necessario per riabilitare i rapaci feriti. Le gabbie erano assai più piccole del dovuto e i medicinali costosi. Cercavamo di tagliare via di tutto dal budget per poterci permettere più farmaci e attrezzature per la riabilitazione.

    Quando arrivai di fronte alla casetta che condividevo con Jess, sospirai e parcheggiai lungo il marciapiede. Il suo ragazzo mi aveva di nuovo rubato il posto, ma in ogni caso sarei dovuta ripartire subito. Sfilai la chiave, saltai fuori e afferrai la borsa dal cassone. Quando aprii la porta, fui assalita dal profumo del chili con carne e mi venne subito l’acquolina in bocca. Dall’odore sembrava uno sballo. Lasciai cadere la borsa e con un calcio mi tolsi gli stivali, poi entrai in cucina.

    Bert indossava un grembiule a fiori e girava il chili con un mestolone mentre Jess era seduta sul piano di lavoro lì accanto. Lui glielo fece assaggiare e Jess si mise a ridere quando le cadde un po’ di chili sulle gambe. Il piccolo televisore era sintonizzato su una specie di notiziario, ne rimasi sorpresa. A Jess piaceva guardare tutti i programmi pre-partita.

    «Abbiamo preparato il chili! Pronta per la partita?». Quando mi vide sorrise e mi salutò con la mano.

    «Mi sono dimenticata della partita». Guardai il chili oltre la spalla di Bert e il mio stomaco brontolò. «Ho preso degli impegni».

    «Sam!», mi rimproverò Jess. «È la più importante dell’anno».

    «Ogni partita è sempre la più importante dell’anno per te». Con espressione sconsolata, mi voltai verso il televisore. «Cosa guardate?».

    «Non…», sussurrò Bert. Troppo tardi.

    «Uno stupido principe e una duchessa sono in città e tutti i canali stanno trasmettendo la notizia come se fosse un grande evento». Jess fissava il vecchio televisore. «A quanto pare non vengono nemmeno da un Paese molto noto. Voglio dire, sto perdendo il punteggio delle altre partite!».

    «Ah». Mi rimisi a guardare la televisione con interesse. Lì, sui gradini del nuovo museo dell’università, c’erano il ragazzo attraente e una donna più anziana, con un portamento nobile, che tagliava un nastro rosso con un paio di forbici dorate e con la mano salutava la gente intorno a lei. Il principe parlava con una studentessa bionda vicino alla porta principale. Senza dubbio, non era un tipo trasandato. Capelli corti e biondi, gambe lunghe e spalle larghe. Perfino senza il titolo reale avrebbe catturato l’attenzione femminile. E, dal sorrisetto presuntuoso, era ovvio che lo sapesse. Speravo proprio che a cena non ci fosse. Non volevo ritrovarmi a fissarlo come una scema. Ero già abbastanza nervosa per dover incontrare una duchessa.

    «Allora?», la voce di Jess mi risvegliò da quei pensieri e distolsi lo sguardo dallo schermo.

    «Cosa?»

    «Allora, che impegni hai?», mi domandò Jess incuriosita. «Piantala di guardare il principe Slurp Slurp e ascoltami».

    «Principe Slurp Slurp?». Bert si tolse il grembiule e lanciò un’occhiataccia a Jess. Mi sforzai di non scoppiare a ridere.

    «I laureandi lo chiamano così. È fastidioso ma mi è rimasto in testa». Jess saltò giù e abbracciò Bert. Non era una ragazza bassa, ma accanto al suo ragazzo sembrava minuta. Feci per andarmene ed evitare le loro smancerie, ma Jess non era pronta a lasciarmi scappare. «Non mi hai risposto!», esclamò con aria di rimprovero.

    «Vado a cena con la cara vecchia zia del principe Slurp Slurp». Sorrisi davanti alla sua espressione basita e mi ritirai nella mia cameretta.

    Stavo passando in rassegna i vestiti nell’armadio, quando la porta della camera si spalancò con un colpo. Jess mi stava guardando come se fossi pazza, così mi strinsi nelle spalle.

    «Dici sul serio?»

    «Sì. Devo essere al Parallel fra meno di tre ore».

    «Oh mio Dio. Vai a cena con la duchessa? Ci sarà anche il principe Slurp Slurp?». Sgranò gli occhi e ricambiai con un’occhiata truce. Forse sarebbe stato meglio se alla cena ci fosse andato qualcuno tipo Jess. Lei era meravigliosa e piaceva immediatamente alla gente. Io, d’altro canto, di rado mi vestivo elegante e non mi ricordavo l’ultima volta che mi ero passata lo smalto. Che senso aveva se poi raschiavo via lo sporco da sotto le unghie dopo un paio d’ore?

    «Non so se ci sarà il principe Slurp Slurp». Scossi la testa. Dovevo scoprire come si chiamava per evitare di sbagliarmi e riferirmi a lui con quel nome.

    «Perché?», si sedette sul mio letto e mi guardò mentre tiravo fuori i pochi vestiti che avevo. Presi un abito vivace ed estivo e Jess mi fece segno di no con la testa.

    «Non lo so. Un tipo si è presentato al lavoro e ha detto che la duchessa vuole vedermi per cena. Immagino che il dottor Geller si sia dimenticato di dirmi che sarebbe venuta». Guardai i vestiti che avevo in mano e rimisi a posto quello blu. Il nero probabilmente era la scelta migliore. Così se mi fossi rovesciata addosso qualcosa non avrebbe dato troppo nell’occhio.

    «Un tipo ha detto che la duchessa vuole vederti per cena. E come ti è venuto in mente che c’entra il dottor Geller?». Jess incrociò le gambe e io capii che non si sarebbe schiodata di lì. «Sembra un po’ sospetto. Sei sicura che è chi dice di essere?». Jess aveva senso pratico quando si trattava di andare al nocciolo delle questioni.

    «Credo di sì. E se non lo fosse, al massimo avrei sprecato una serata», risposi senza troppo interesse. «Per quale altro motivo una duchessa dovrebbe parlarmi? Oggi è venuta a scuola. Forse è una benefattrice o qualcosa del genere». Poggiai il vestito sul letto e passai a concentrarmi sui gioielli. «Non ho idea di come rivolgermi a lei. Voglio dire, dovrei chiamarla duchessa? Mia signora? Sua Altezza?». Non era qualcosa che avevo imparato crescendo.

    «Internet è nostro amico!». Jess prese il computer che era sul comodino e lo aprì. Batté qualcosa sulla tastiera, poi mi guardò. «Vengono da Lilaria, vero? Qui dice che sono appassionati di uccelli, quindi avrebbe senso».

    «D’accordo. Cosa dice della loro regalità?». Tornai a guardare l’armadio, rendendomi conto di non avere una giacca appropriata.

    «Le solite cose. A un principe ci si riferisce come Sua Altezza Reale». Jess diede una scorsa all’articolo che stava leggendo. «Alla duchessa come duchessa Tal dei Tali. Ma dice che dovresti attenerti al loro tipo di formalità».

    «Quindi non dovrei chiamarlo Signor Principe o Regal Signora?»

    «Mi sa che ormai ti si è conficcato in testa». Jess chiuse il computer. «Andrà tutto bene. Devi solo essere la persona affascinante che so che puoi essere».

    «Promemoria: non mangiare con le mani né ruttare. Ricevuto». Sorrisi e Jess scoppiò a ridere.

    «Ti lasciamo un po’ di chili da parte». Si alzò e mi guardò negli occhi. «Mandami un messaggio quando sei lì e fammi sapere se lui è presente».

    «Certo». Mi voltai per sorriderle mentre andavo in bagno. Dovevo rendermi presentabile. Grazie a Dio, mi rimaneva il tempo di una doccia.

    Capitolo 2

    Reali straccioni

    The Chicago Gazette

    Il furgoncino sembrava che stesse per rompersi da un momento all’altro quando accostai davanti all’albergo. Ero rimasta imbottigliata nel traffico, quindi non ebbi il tempo di trovare parcheggio per conto mio ed evitare scene imbarazzanti con il posteggiatore. Imprecando tra me e me, cercai di infilare un po’ di spazzatura sotto il sedile prima che il posteggiatore mi aprisse la porta. Alzai lo sguardo e sorrisi al ragazzo.

    «Scusi, la Bentley è dal meccanico».

    «Signora, mi sta guardando come se avessi sbagliato persona. È la consuetudine». Mi porse la mano per aiutarmi a scendere. Gli rivolsi un sorriso pieno di gratitudine perché Jess mi aveva convinta a indossare i tacchi alti per la serata. Mi diede il mio biglietto e io gli lasciai le chiavi.

    Cercai di non sprofondare dalla vergogna quando il mio furgoncino cominciò a cigolare allontanandosi. La direttrice di sala mi stava osservando dalla porta a vetri, quindi feci un bel respiro a testa alta e a ogni passo pregavo in silenzio di non finire con il culo per terra per colpa di quelle scarpe odiose. Il portiere mi aprì la porta, ma perfino lui mi rivolse un’occhiata di sdegno non appena mi squadrò.

    Il chili appariva già come un’alternativa migliore. Speravo che almeno la cena fosse decente. E non troppo cara. Avevo appena mandato trecento dollari all’ospedale per la rata mensile di mio padre. Stavo raschiando il fondo del barile. Sorrisi alla direttrice di sala, nella speranza che la cortesia mettesse in secondo piano la figuraccia con il camioncino.

    «Salve, ho appuntamento con la duchessa Sverelle per cena».

    «La duchessa sa che sarebbe venuta?». La sua voce mi stridette nelle orecchie. Era acuta e nasale. Perché avevano scelto lei per fare la prima impressione? C’erano un sacco di altre bionde agghindate da modelle che sarebbero state entusiaste di fare quel lavoro. Assottigliò gli occhi e mi venne incontro con disprezzo.

    «Visto che è stata lei a invitarmi, presumo di sì». L’operazione Gentilezza era terminata.

    «D’accordo, e qual è il suo nome?». Guardò la lista che aveva di fronte con un’espressione così seria che veniva da pensare fosse piena di persone in attesa di un trapianto di cuore.

    «Samantha Rousseau». La osservai mentre guardava prima la lista, poi me. «Sono dell’università».

    «Capisco, solo un momento». Si allontanò e mi chiesi come fosse possibile che i capelli le ondeggiassero sulla schiena come se stesse camminando in una galleria del vento per un servizio fotografico.

    Tornò subito dopo in compagnia di un uomo dall’aria annoiata. Era alto, magro e più vecchio, e mi ricordava Alfred dei film di Batman, ma senza un briciolo del suo umorismo e della sua intelligenza. Lo sguardo gli luccicò dal disgusto quando vide il mio cappottone invernale. Come poteva pensare che fosse strano indossarlo in questa stagione?

    «Signorina…», mi guardò con espressione interrogativa.

    «Rousseau. Samantha Rousseau».

    «Signorina Rousseau, il suo nome non è sulla lista».

    «Sono sicura che si tratti di un semplice errore», risposi risentita. «Magari può chiedere alla duchessa».

    «Sono sicuro che la duchessa mi avrebbe informato se avesse aspettato qualcun altro per cena», mi disse con un sorriso e dovetti inspirare a fondo prima di rispondergli.

    «Be’, per quanto lei sia in confidenza con la duchessa, deve essersene dimenticata». Gli andai più vicino. «Guardi, sto solo cercando di presentarmi a un appuntamento. Non può andare a chiederle se mi sta aspettando?»

    «Temo sia contro le nostre abitudini disturbare gli ospiti durante la cena».

    «Mi prende in giro». Mi tolsi i capelli dagli occhi e fissai il mini-Alfred. «Vada a chiederglielo».

    «Signorina Rousseau, questo è un ristorante molto rispettabile. Le suggerisco di uscire e non fare sceneggiate, altrimenti chiamo la sicurezza».

    «Io le suggerisco di andare a chiedere alla duchessa se mi sta aspettando, oppure vada a chiamare la sicurezza ma si aspetti una sceneggiata. Poi, quando la duchessa vedrà che mi sta portando fuori dal ristorante, dovrà spiegarle come mai mi sta mandando via».

    «Vado. Ma solo per questa volta». Mi guardò a lungo prima di sospirare rumorosamente. «Se viene fuori che non è invitata, torno con la sicurezza».

    «E dovrà scusarsi quando tornerà con la coda tra le gambe». L’ operazione Incazzatura stava entrando in azione. Facevo fatica a tenere a freno la lingua quando entravo in quella modalità.

    Il tizio sbuffò un’altra volta ed ebbi la tentazione di porgergli un fazzoletto, invece mi morsi l’interno della guancia. «Vedremo».

    Si allontanò dalla reception e la bionda prese il suo posto. Mi ignorò come se non fossi lì, e per me andava anche bene. Mi avvicinai per leggere la lista che aveva davanti a sé, e proprio un attimo prima che la coprisse con un braccio, scorsi il mio nome.

    «Ah, questa è proprio maleducazione». Rincorsi l’uomo anziano fino al tavolo al centro della stanza. Quei due stronzetti cercavano di tenermi alla larga perché pensavano che fossi fuori luogo. Per il mio furgoncino o per i miei vestiti?

    Con una falcata furiosa in un attimo arrivai dalla porta al tavolo. Alfred era lì accanto. Arrivai giusto in tempo per sentire le sue ultime parole.

    «Ha un aspetto alquanto discutibile».

    «La donna dall’aspetto alquanto discutibile è proprio dietro di lei». Stupida testa di rapa. Lo gelai con un’occhiata, quasi senza degnare di uno sguardo le persone al tavolo finché non si alzarono in piedi.

    «Mi avevano detto che il Parallel, e pensavo anche il suo ristorante, era abituato a ospitare membri della famiglia reale e dignitari». La voce della donna era calma e fredda. «I suoi toni sono imbarazzanti indipendentemente da chi sia la signora Rousseau».

    Mi chiesi se la duchessa avesse perso la testa. Forse nel suo Paese era normale rivolgersi alle persone con signora o signore. Storse la bocca divertita e osservò il tizio scusarsi e decisi che avrebbe dovuto dargli una lezione. La duchessa sarebbe potuta diventare la mia eroina.

    «Sono mortificato, non avevo idea…». La brutta copia di Alfred farfugliava scuse e mi servì tutta la forza di volontà di cui ero capace per non spazientirmi.

    «No, non si scusi con me. Si scusi con la signora Rousseau». Le si illuminarono gli occhi quando mi vide.

    «Le mie scuse, signorina… Voglio dire, signora Rousseau».

    Inchinai leggermente la testa. «Accettate. Magari la prossima volta dovrebbe pensarci due volte prima di giudicare».

    «Sì, signora. Posso prenderle il cappotto?».

    Proprio mentre mi sfilavo il cappotto sentii il suo sguardo su di me. Mi resi conto che il principe Slurp Slurp era davvero venuto a cena. Jess e gli studenti si erano sbagliati. Non era Slurp Slurp, era prelibato, un banchetto da gustare. I capelli biondo cenere erano un po’ troppo lunghi e gli occhi di un blu così intenso che sembrava guardassero nel mezzo di un ghiacciaio. Il fisico sembrava la statua del David di Michelangelo, mentre il profilo dell’abito metteva in risalto dei muscoli prelibati. Le pieghe intorno alla bocca e agli occhi quando rideva lo riportavano nel regno della realtà e lo rendevano particolare. Poiché mi squadrò con calma, prima in viso poi lungo il corpo, diventai tutta rossa. Quando diedi il cappotto al maître, mi sentii nuda. C’era qualcosa in quegli occhi blu che mi faceva sentire scoperta.

    «Grazie, Alfred», borbottai, colta di sorpresa dallo sguardo che avevo appena ricevuto. Il maître se ne andò senza una parola e sperai con tutta me stessa che non facesse niente di

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