Gay after
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Info su questo ebook
Il dibattito diviene acceso quando interviene Gianni, (omosessuale risolto e dichiarato), nell’ammettere il suo preponderante desiderio di paternità. Sorgono importanti considerazioni e soprattutto emergono interessanti quadri psicologici, tesi a sottolineare la difficoltà estrema dell’accettazione della genitorialità gay da parte del senso comune, la tendenza all’omologazione e il concetto astratto di uguaglianza e diversità che infidamente conduce all’omofobia.
Il racconto prosegue in modo intricato e, come nelle scatole cinesi, ogni personaggio legato alla situazione nasconde una condizione di natura entropica, la quale, di seguito, conduce a un altro aspetto della vicenda, esplodendo così in una trama caleidoscopica.
Un enorme feuilleton, con tutte le caratteristiche narrative, che tende, al di là dell’intreccio, a mettere in luce le grandi problematiche risolte e non della condizione psico-sociale dell’essere gay.
Gay after, di Alessandro Manganozzi è l’ultimo libro del ciclo Feuilleton.
Cinico e a volte impietoso, l’Autore si serve delle aberrazioni caratteriali per rimarcare i sordidi aspetti di una condizione che tende a tutt’oggi all’emarginazione.
Alessandro Manganozzi è nato il 13 agosto del 1962 a Roma, città in cui vive e svolge l’attività di medico di base e nutrizionista. Sposato con due figli, ha all’attivo quattro romanzi pubblicati rispettivamente nel 2002 (Lo scalino di Janet), nel 2005 (Blog: catarsi pop di un assassino), nel 2020 (L’algoritmo dell’amore) e nel 2021 (Feuilleton).
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Anteprima del libro
Gay after - Alessandro Manganozzi
Alessandro Manganozzi
Gay after
© 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-6412-8
I edizione settembre 2022
Finito di stampare nel mese di settembre 2022
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Gay after
Nuove Voci - Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
Presentazione dell’opera
Gay after segue a ruota l’algoritmo dell’amore (2020) Feuilleton (2021), Gli immobili (2022) e Ritratto di uomo (2022) chiudendo il ciclo denominato "Feuilleton".
È un romanzo meno letterario
dei precedenti, sia per tematica sia per struttura, ma in compenso ricco di azione e di dialoghi, così da avvicinarsi al mainstream novel, con generosa dose di thrilling.
Il tema della paternità domina l’intero scritto ed è declinato in chiave omosessuale, argomento ancora tabù in Italia e altrove. Non me ne vorranno perciò i gay autentici se ho osato, da etero, interpretare un loro sentimento profondo e controverso.
L’impianto è quello tipico del feuilleton, con un po’ tutti gli ingredienti. La differenza sostanziale dalla forma classica è l’estetica pop, dove i personaggi sono tutt’altro che definiti, non essendosi mai davvero individuati. Esprimono un cinismo feroce maneggiando neonati come pacchi postali. Infrangono a tal punto l’etica narrativa da disorientare un lettore che non sa più in quali panni calarsi. Osando un paragone musicale potremmo dire che quest’opera riecheggia una composizione dodecafonica. O una piccola babele, dal momento che gli attori sono intenti ad affermare sé stessi. Forse qualcuno si illude di uscirne incolume?
*****
Il fumo sale in quattro colonne filiformi e infrangendosi sulla lampada rettangolare si rompe in piccoli cirri sacciformi che accennano a una breve risacca verso il basso prima d’invertire di nuovo la marcia verso l’alto dove, come un’anima non pentita a sufficienza, si estinguono per sempre in una fitta penombra cimiteriale. A questi si mescola il fumo sbuffato dai quattro commensali ai lati del tavolo, risultandone una confusa, pollockiana nuvolaglia attraverso la quale è una vera impresa distinguere i tratti del volto. In questa atmosfera sospesa e convettiva, dove le teste sembrano galleggiare su vapori sollevati da un fiume sacro e ribollente, ferve da qualche minuto un’accesa discussione.
Fabio, l’antropologo, è pronto a scoccare il primo dardo.
«Adesso vi sparo un paradosso, ragazzi! – fa un po’ su di giri – Per me… per me non c’è diversità più infida dell’uguaglianza!».
Gli occhi degli astanti sono tutti puntati sul Wilde redivivo. Ombretta azzarda una domanda:
«Perché infida, scusa?».
«Perché dietro l’uguaglianza si nascondono mille diversità. Uguaglianza è un concetto astratto, retorico. Cioè… chi lo usa, che sia in buona o in cattiva fede, fa solo demagogia – precisa Fabio prima di riprendere subito dopo: – Rischio l’ossimoro? Okay, allora vi racconto una storiella. C’era una volta un piccolo, insignificante frocetto che si dava arie da intellettuale e amava stupire. Lui era sposato e la moglie gliele dava tutte vinte. Un giorno decise che era giunto il momento di imporre la sua diversità, e visto che tutti lo prendevano in giro per il suo vizietto, pensò che fosse più igienico prendere le distanze. S’isolò fino a diventare asociale. Chinò la testa sui libri fino a leggerne migliaia. E più studiava – più si erudiva – più avvertiva netta la differenza, una differenza tangibile, dolorosa: quella tra il sé più profondo – il gay – e il Sé sociale, quello sposato e bramoso d’uguaglianza. Qual è la morale della favola? Che il frocetto aveva capito che la differenza da sconfiggere non era tra lui e gli altri, ma tra lui e se stesso».
«Ti riconosci nella storiella, Fabio?» domanda Alberto malizioso.
«Forse sì, ma non è questo il punto. Cioè… ad essere sincero sto parlando di me, okay, ma mi piacerebbe interpretare il pensiero di tutti i gay. Poi verrò al tuo quesito, Alberto».
Fabio allude al tema che Alberto ha proposto per la serata: "Lo spirito paterno del gay" e non si fa problemi a prenderla tanto alla larga. Continua così la sua disquisizione:
«Voglio dire che sono a metà del guado: mezzo frocio perché vivo male la mia omosessualità; mezzo etero perché scimmiotto gli altri mariti. Sono diverso e uguale allo stesso tempo, capito?».
«Scusa, Fabio, – interviene Gianni, il personal trainer – ma allora, se ho ben capito, se tu fossi completamente gay, saresti diverso, giusto?».
«E no! Sarei uguale, perché sarei uguale a me stesso!».
«Quindi chi è risolto, – ragiona Ombretta – chi si è, come dire, individuato, è uguale a tutti quelli nelle stesse condizioni…».
«Esatto! Il paradosso che ho lanciato prima è per dire che uguaglianza e diversità, in quanto astrazioni, possono essere usati indifferentemente. Il dualismo, in realtà, non esiste».
«Non ci capisco niente, Fabio» sbotta Ombretta.
«Ascoltami, Ombretta, è facile. – fa pedagogico Fabio – Anche il più illuminato dei filantropi ci considera diversi. Ed è sbagliato, cazzo! Perché è lì che nasce l’omofobia, capito? La cosiddetta diversità è soltanto il risultato di un insufficiente confronto delle uguaglianze. Se un gay risolto, cioè, si confrontasse con un eterosessuale risolto… se entrassero in relazione, voglio dire… beh, si scoprirebbero uguali».
«E tu, allora?» chiede Gianni interessato.
«Io non sono né carne né pesce, Gianni, ed è giusto allora che venga discriminato. Sono un ibrido, un promiscuo del piffero, ecco cosa sono! Lasciamo stare poi le pippe mentali sull’omofobia interiorizzata, ché io non ho avuto mai paura della mia omosessualità… l’ho… l’ho sempre giudicata semplicemente sconveniente. Ne uscirei indenne se non avessi questa pazza voglia di un figlio».
«Alludi a tua moglie? A Charis?» chiede Ombretta con lecita impertinenza.
Fabio fa sì con la testa a labbra serrate. Si comincia sempre con velleità universalistiche per finire poi col parlare di se stessi. Guai, perciò, ad autocelebrarsi. A lui basta tener desta l’attenzione.
Le due pipe in azione bruciano senza sosta. La cortina di fumo è così densa che preme sugli occhi. Hanno tutti i lucciconi. Adesso poi che Ombretta scopre il piatto del consommé c’è l’apoteosi: una nuvola di vapore si alza come un sinistro cumulonembo e scava nello spessore del fumo creando grigiastre turbolenze. Si annunciano piovaschi…
Fabio l’ha presa alla lontana. Vuole un po’ sdottoreggiare. O forse vuole soltanto far scena agli occhi del nuovo arrivato, Gianni. E infine, porta davvero acqua al suo mulino se afferma di avere uno spiccato spirito paterno? A giudicare dall’espressione rapita del personal trainer si direbbe di sì. E non è ancora entrato nel vivo!
Alberto, il padrone di casa, marito di Ombretta nonché scrittore di feuilleton, s’improvvisa moderatore. Non ama le divagazioni.
Ammonisce dolcemente l’amico.
«Perché non resti in tema, eh, Fabio? Parlaci dello spirito paterno del gay, no? È una vita che ci fai una testa così sull’argomento…».
E benché per l’antropologo quello sia un invito a nozze, nondimeno indulge nelle sue digressioni.
«Ma che non lo sai che esco sempre dal seminato? – fa tra il serio e il faceto – Solo che stavolta era necessaria una premessa, capito? Perché c’è gay e gay, e non tutti i desideri sono legittimi, mi spiego? C’è chi se li merita e chi no. Insomma, bisogna essere all’altezza dei propri desideri. E io, da abusivo, cosa pretendo? Charis dice che la chiarezza di idee è il primo passo verso la scoperta del Sé. Insomma, secondo lei sto per diventare pienamente gay, dopodiché spiccherò il volo».
«Chi allora meglio di te può… parlare di spirito paterno del gay?» interviene Alberto spazientito, sillabando nervosamente le ultime parole. Fabio, pur cogliendo il richiamo di Alberto, va avanti per la sua strada lastricata di premesse.
«Io mi sto dipingendo come una pecora nera, okay? Ma mi rivolgo a te, etero, – fa serio verso Alberto – non sei forse anche tu un… irrisolto? Perché scriveresti i tuoi feuilleton altrimenti? Cerchi un ordine, un antidoto all’entropia, ecco che fai. Gli altri invece prendono la scorciatoia comprandosi questo – fa afferrando lo smartphone di Ombretta poggiato sul tavolo –, si omologano per sentirsi uguali».
Ombretta fa una faccia colpevole. Gianni sorride. Alberto si sente preso in giro. Fabio continua dando una lunga inspirazione.
«Adesso, dopo lungo peregrinare, entriamo nel tema. Sarete tutti d’accordo, spero, che per entrare nello spirito paterno del gay bisogna prima parlare della paternità tout court, non siete d’accordo? Da antropologo culturale vi posso dire che lo spirito paterno non è genetico. Cioè, mi spiego meglio. Anticamente non si era consapevoli del legame di consanguineità coi figli, semplicemente perché non si conosceva la proprietà fecondativa dello sperma. Cioè, l’identità paterna non esisteva, chiaro? Le società – i clan, meglio – erano a discendenza matrilineare e il padre era poco più di un estraneo, capito?».
«Quindi il padre, cioè il marito della madre viene fatto fuori?» domanda Ombretta divertita.
«No, non è così, Ombretta – corregge Fabio. – Il padre impara ad amare i pargoli frequentandoli, capito? Ma senza sentire alcun legame di sangue. Che poi esistano… rituali per rafforzare il ruolo di padre, questo non fa che confermare il carattere culturale, sottolineo
culturale
, della paternità, mi spiego? Pensate solamente ai figli adottati».
«Vuoi dire che un gay sarebbe un buon padre?» domanda interessato Gianni.
«Non sarebbe, è. Perfino i mezzi gay come me che si sposano sono buoni padri. Perché, alla fine, ci sposiamo, voglio dire? Per avere dei figli. La paternità, insomma, ci riscatta. Ci eleva al di sopra della nostra… meschinità».
«Non tutti i gay fanno questo passo, però. – precisa Gianni – C’è chi vorrebbe essere padre all’interno di un’unione omo».
«E tu come fai a saperlo?» chiede Fabio diffidente.
«Piacere, sono gay» fa Gianni ridendo e allungando la mano a taglio. Continua – Tu che idea ti sei fatto di questa legge che ci penalizza?» chiede sommessamente.
«Tu, a quanto ho capito, sei un gay… tutto d’un pezzo. Ora, se vuoi che ti dica la mia, la risposta l’ho già data prima. La nostra sulle unioni gay e sull’adozione è una legge demenziale che premia l’omologazione… vedi matrimonio uomo/donna, ad esempio… premia l’omologazione, dicevo, a scapito dell’uguaglianza. Sicché il percorso interiore dell’omosessuale si ferma a metà strada, là dove conviene più imboccare la strada dell’integrazione e togliersi d’impaccio».
«Ma… e il politicamente corretto che fine fa?» domanda Alberto confuso.
«Il politicamente corretto! – esclama Fabio con uno sbuffo – Certo, nessuno ti dà più del frocio pubblicamente, ma usa invece quel tatto peloso che è peggio del pregiudizio. L’uguaglianza, insomma, non sarà mai un concetto condiviso: rimarrà un valore individuale».
«Ma tu hai figli?» domanda Gianni interessato.
«Io? – fa Fabio trasalendo – Ti ho risposto prima tra le righe, se sei stato attento. Io non sono il classico gay a mezzo servizio assecondato in tutto e per tutto dalla moglie. Io sono stato messo in riga, capisci? Perciò, pur amandomi, Charis mi ha detto chiaro e tondo che lei con un gay non procrea. E il bello è che non posso darle torto. Se avessi avuto il coraggio della mia identità, non avrei dovuto sposarmi. Mi sarei scelto invece un compagno e magari, come ha fatto Nichi Vendola, sarei andato in Canada a fare un figlio con la maternità surrogata o qualcosa del genere. Invece ho come paura che gli uomini, sul piano sentimentale, mi schifino».
«Dai, Fabio, che sei il prototipo del gay due punto zero! – tuona Alberto con allegra baldanza – Il gay duro e puro… granitico… forse, è archeologia».
«No, Alberto. Qui non si tratta di essere trendy o cose del genere. Io mi sono messo contro me stesso, capito? Ho tentato perfino le terapie riparative, fallendo miseramente. E poi… poi me lo insegni tu stesso che un torto fatto a se stessi è doppiamente imperdonabile. Io ho lasciato le cose a metà».
«Tu dici che quelle sull’omofobia interiorizzata sono cazzate» ribatte Alberto.
«Ma no, figurati! Forse nel mio caso sarà pure vero. È che non dovevo adagiarmi, capito? L’odio va combattuto in ogni caso, perché ci separa dalle cose. Come la paura».
«Tu non credi che potresti ricrederti a seguito di un’esperienza positiva?» osserva Gianni sempre più interessato.
«Forse. Forse. – farfuglia Fabio possibilista – Forse se riuscissi a vedere la mia omosessualità come un valore e non come una diversità, se riuscissi cioè a fare quanto dico, forse allora riuscirei a fare lo switch».
È una storia che si ripete. Da sempre. Sempre gli stessi discorsi. Come se il mondo fosse duro di comprendonio e si dovesse ogni volta riaffermare la propria verità. Chissà se Fabio ha ragione quando dice che il politically correct ha peggiorato la condizione già precaria dei gay. Non è forse vero che il pregiudizio serpeggia sottotraccia e al momento buono esce fuori con tutti i suoi veleni?
Gianni è già da un po’ che osserva Fabio. La franchezza dell’antropologo muove quasi a compassione. C’è un che di pulito in quell’uomo combattuto. È come se fosse solo al mondo e sfidasse i titani. Sa di cosa ha bisogno ma non sa dove cercarlo, come un ché di paranoico lo mettesse al centro di un complotto.
Intanto, la cena prosegue e si serve la carne. Il vapore sfuma i volti come in una foto flou. Le pareti sono in penombra. Il tavolo è illuminato come un palcoscenico sotto la luce bianca e fredda della lampada led. Sul muro perfino il fumo proietta l’ombra di una mutevole evanescenza.
«Sapete perché ho proposto questo tema?» fa Alberto.
«Dai che è facile!» esclama Ombretta informata.
«Sarà il tema del prossimo feuilleton» tira a indovinare Gianni.
«Già, indovinato – conferma Alberto. – Ce la posso fare?».
«Se mi posso permettere… – si intromette Fabio – Vedi di non metterci in ridicolo, mi raccomando. Niente luoghi comuni».
«Secondo me, tu, Fabio, puoi dare molto in una storia» rassicura Alberto.
Ombretta sorride. Fabio è sempre più incuriosito.