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Due tempi all’unisono
Due tempi all’unisono
Due tempi all’unisono
E-book275 pagine3 ore

Due tempi all’unisono

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Info su questo ebook

Dopo la battaglia contro il demone Ciardha, Caleb è scomparso. La famiglia O’Neil teme che possa essere successo il peggio, ma Bent sa che è ancora vivo, glielo conferma il legame che lo unisce al ragazzo. Infatti Caleb sta bene, ma non si trova più in Inghilterra. Si è risvegliato in un villaggio di un’epoca in cui i Servi degli Angeli combattono i demoni e in cui si è devoti alla purificazione dell’anima per la reincarnazione. Così, se da una parte Bent e Richard si ritrovano a seguire nuove piste paranormali che coinvolgono persino Duncan Webb, dall’altra Caleb intraprende un viaggio alla ricerca di un sacerdote che sappia comunicare con gli angeli, nella speranza che possano riportarlo a casa. Tra passato e presente, nuove alleanze e vecchi legami, i due ragazzi faranno di tutto per tornare l’uno tra le braccia dell’altro e per fare in modo che i loro tempi scorrano di nuovo all’unisono.
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2022
ISBN9791220703895
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    Anteprima del libro

    Due tempi all’unisono - Elena Mauro

    1

    NON ARRENDERSI

    Fatico ad aprire gli occhi, ma quando ci riesco la prima cosa che vedo è un anonimo soffitto bianco. Purtroppo, non è altrettanto anonimo il resto attorno a me. Ci sono le coperte ruvide che mi soffocano e che scalcio via, c’è l’odore dei farmaci, c’è il vociare delle innumerevoli persone che camminano fuori, nel corridoio. C’è il mio compagno di stanza, Henry, che legge un libro reggendolo con una sola mano.

    Mi metto a sedere, combattendo lo stordimento. Henry mi dà il buongiorno senza staccare gli occhi dalle pagine, ma quando ricambio esce soltanto una voce arrochita.

    Tossisco e poi mi guardo intorno.

    Ciò che è avvenuto stanotte era un sogno? Considerato che mi trovo in ospedale, direi di sì, nonostante avverta qualcosa di diverso in me, un peso non indifferente che non mi è mai appartenuto. Ma se fosse stato un sogno, sarebbe grandioso! Nigel non sarebbe la reincarnazione di Ciardha, io non l’avrei ucciso… e Caleb non sarebbe scomparso.

    Pieno di entusiasmo, prendo il cellulare sul comodino e apro la chat di Caleb. Strano, mancano i messaggi di ieri sera. Non era venuto in ospedale per badare a me, invisibile grazie ai poteri di Richard? Anche quello era un sogno? No, qualcosa non va. L’ultimo messaggio è mio e dice: Sei arrivato a casa? ma non c’è risposta. Com’è possibile che Caleb non mi abbia ancora risposto?

    Mi porto una mano alla gola e mi schiarisco di nuovo la voce, mentre il cuore comincia a galoppare nel petto.

    Torno all’elenco delle chat. Appena sotto, c’è quella di Richard con l’ultimo messaggio che ci siamo scambiati ieri pomeriggio. Controllo le altre e, con mio grande stupore, noto che manca quella di Nigel. È svanita. Non c’è nemmeno nei miei contatti. Nemmeno il suo numero in rubrica.

    Ho ancora più caldo, il sudore che cola sulla schiena. Mi manca l’aria.

    Sto forse sognando adesso? Se è così, allora spero di svegliarmi in fretta, perché non è divertente. Non capisco più nulla, cos’è reale e cosa no? Ho bisogno di risposte.

    Non faccio in tempo a sbloccare di nuovo il telefono che prende a squillare.

    «Pro…»

    «Per fortuna hai risposto!» mi interrompe Richard, agitato. «Sei a casa?»

    «No, in ospedale.»

    «Okay, sei in ospedale. Sì, ha senso,» borbotta tra sé. Non riesco a comprendere cosa potrebbe avrebbe senso, sto ancora aspettando che qualcuno me lo spieghi. «È tutto normale lì?»

    «Normale?»

    «Tipo vetri al loro posto e non sul pavimento o infermiere attive e sveglie.»

    Guardo di sbieco la finestra, è intatta. Perché non dovrebbe esserlo?

    «È tutto in ordine, sì…» dico, incerto. «Ric, ma che cosa succede?» domando poi pieno d’angoscia, abbassando la voce per non farmi sentire da Henry.

    «Non ne sono sicuro, ma sembra che gli avvenimenti delle ultime ore siano stati cancellati.»

    Deglutisco a vuoto. «Questo… questo significa che stanotte…»

    «Sì, è successo davvero.»

    «Come fai a dirlo?»

    «Perché Caleb è scomparso, non ho più tracce di Nigel sul cellulare e l’ospedale è in ordine. Dato che possiedo poteri angelici ormai da qualche mese e che un demone ha voluto ucciderci dopo aver maledetto le nostre anime, direi che è più probabile che sia scattato qualche specie di incantesimo collaterale dopo che Ciardha è morto, piuttosto che ci siamo inventati tutto dall’inizio,» afferma con risolutezza, forse troppa. È ciò di cui avevo bisogno. «Non ho nemmeno più le ferite. La battaglia però c’è stata, non possiamo aver avuto la stessa visione. Solo che all’improvviso ci siamo ritrovati nel posto in cui dovevamo essere, forse perché abbiamo spezzato la maledizione. Io a casa e tu in ospedale.»

    «Tranne Caleb,» dico.

    «Tranne Caleb,» ripete lui.

    E probabilmente anche Nigel non è dove dovrebbe essere. Il suo cadavere sarà ancora nella cascina abbandonata? Vorrei chiederlo a Richard, ma non mi sembra il caso di farlo al telefono, con un compagno di stanza che potrebbe aver già origliato troppo della nostra conversazione.

    «A proposito di Caleb,» riprende lui, «forse è meglio se vengo a trovarti appena è orario di visita, ci sono cose che preferirei dirti faccia a faccia.»

    Il suo tono di voce mi preoccupa, ma acconsento e chiudiamo la telefonata. Sbuffo, scalpito per l’ansia. Non so se riuscirò ad aspettare l’orario di visita, sono tutto un fremito, tra l’impaurito e il colpevole, perché sono stato io a coinvolgere gli altri, a cominciare da Caleb. Chissà dov’è e cosa gli è successo. E cosa è successo a Nigel? Sapere che anche Richard non ce l’ha più in rubrica mi dà da pensare, ma sono ancora troppo sballottato dalle emozioni degli ultimi minuti per riflettere a dovere.

    Sblocco il cellulare e provo a chiamare Caleb. Risulta irraggiungibile. Così, costretto in questo schifo di posto fino alla fine della giornata, mi rimetto sotto le coperte, fregandomene del caldo che ancora avvolge il mio intero corpo, e mi rannicchio mentre lascio che le lacrime prendano il sopravvento e diventino uno sfogo a questa situazione assurda.


    «Incredibile, è davvero come se non fosse successo niente.» Richard gira il cucchiaino di plastica nel caffè, in un bicchiere anch’esso di plastica. «Ti giuro che erano tutti addormentati e che…»

    «Sì, me lo hai già raccontato. Ti credo,» ribatto, poi bevo un sorso della mia cioccolata.

    Non ho intenzione di ascoltare di nuovo nel dettaglio gli avvenimenti di questa notte. Dato che Ciardha mi ha rapito mentre ero intrappolato in un incantesimo del sonno, come l’intero ospedale, Richard ha voluto aggiornarmi, ma non è ancora giunto al punto focale del perché è qui, e io sto fremendo nell’attesa.

    Appena è arrivato siamo usciti dalla stanza 314, mi sentivo claustrofobico lì dentro, e siamo andati a fare un giro per i corridoi dell’ospedale. Per fortuna non ho divieti o controlli serrati; il pericolo l’ho scampato ieri dopo i risultati della TAC. Per via dell’incidente provocato da Duncan Webb, al parco, che mi ha fatto cadere dalle scale insieme a lui, ho rischiato un trauma toracico che avrebbe avuto gravi conseguenze sul mio cuore malandato, ma un miracolo deve avermi protetto. Quindi sono semplicemente sotto osservazione. Oggi è l’ultimo giorno. Di Duncan non ho alcuna notizia e, a questo punto, non so se voglio averne.

    Mi ha reso la vita un inferno più di quanto già non la credessi. È anche a causa sua se più volte, nell’ultimo anno, ho pensato di farla finita.

    Poi è arrivato Caleb, che mi ha fatto capire che vivere per se stessi è meglio che non vivere affatto.

    «Avanti, dimmi di Caleb,» lo sprono, impaziente. «Sai dov’è?»

    «No.» Enfatizza con un cenno del capo. «Ma la situazione è più grave del previsto.»

    Stringo il bicchierino, deformandolo lievemente sotto le mie dita.

    «Sua madre ha chiamato la mia. Ha detto che Caleb, ieri, le ha mandato un messaggio dicendo che avrebbe dormito da me. Indovina? Caleb non ha mai dormito da me, solo che mia madre mica poteva mentirle! E poi la signora O’Neil ha voluto parlare con me.» Beve in un solo sorso il caffè, poi prende dalla tasca dei jeans qualche altra moneta. Mi fa cenno di tornare alle macchinette, così lo seguo mentre lui continua a raccontare. «Al contrario, io qualche bugia ho dovuto dirla anche se non mi piace mentire. Poi le ho detto che Caleb non mi ha mai chiesto di dormire da me e che, a casa mia, non ci è proprio stato.»

    Inserisce le monete nella macchinetta e pigia i pulsantini per un altro caffè, questa volta lungo e con tre zollette di zucchero. A me invece si è chiuso lo stomaco, non credo che finirò la cioccolata, sarebbe stata meglio una tisana per rilassarsi.

    «I genitori di Caleb credono sia scomparso,» afferma ancora Richard. «Andranno alla polizia.»

    «Alla polizia…» bisbiglio.

    Richard fa un mugugno d’assenso. «E la polizia dovrà indagare. Si tratta di scomparsa di minore!»

    Ripenso alla fuga d’amore organizzata da Caleb soltanto una settimana fa: siamo scappati per tre giorni, prima di essere ritrovati, ma sono stati i giorni migliori della mia vita. Il ricordo della nostra prima volta è vivido in me, non mi sono mai sentito completo come in quel momento, avrei voluto viverlo per sempre. In ogni caso, prima di andarcene avevamo lasciato dei biglietti per i nostri genitori e, per quanto si siano preoccupati, sapevano che eravamo insieme. Invece adesso…

    «Hai capito cosa intendo?» Richard si siede di nuovo, e io scuoto il capo accomodandomi accanto a lui. «Se la polizia indagasse, potrebbe scoprire più del necessario. Mettiamo che si sia cancellato proprio tutto, di questa notte, allora non ci sarebbe una pista e Caleb non sarà mai ritrovato, perché non potranno tracciare i suoi spostamenti.»

    Annuisco, anche se poco convinto. Non so come Caleb riuscisse a stare dietro ai ragionamenti di Richard, io mi sento uno stupido di fronte alla sua intelligenza.

    «Se invece non fosse proprio tutto tutto cancellato, in quella cascina, Bent…»

    Fa una pausa, ammiccando, e io sgrano gli occhi.

    «Potrebbe esserci Nigel!» esclamo.

    Abbasso la testa e socchiudo le palpebre, l’odore del sangue è ancora intenso, è da tutto il giorno che ho flash della battaglia: gli occhi di Ciardha in cui brillava il desiderio di vendetta, la spada che si è infilzata nella carne e il cadavere di quello che ormai era solo un contenitore vuoto. Senza spirito, senza anima. Il problema è che io fatico a vederlo solamente come Ciardha. Per quanto Nigel non esista più da tre anni, è difficile per me.

    Richard fa un cenno di assenso. «Nigel, il motorino di Caleb, il suo DNA, il nostro.»

    «Cosa facciamo?» chiedo, affannato.

    «Non possiamo tornare in quella cascina. Sarebbe sospetto e non so neppure dove si trovi.»

    «Quindi facciamo come se nulla fosse?»

    «Per ora sì, poi vedremo come si evolverà la situazione e agiremo di conseguenza.»

    Invidio la sua compostezza, non so come faccia a mantenere la calma, io sono un insieme di panico e terrore; inoltre c’è una domanda che mi tortura e che penso lo farà fino a quando non avrò una vera risposta.

    «Dov’è Caleb?»

    «Non ne ho idea.»

    «Nemmeno una teoria?» tento ancora, disperato.

    «Nemmeno una.» Richard butta giù ciò che rimane del caffè. «Spero soltanto che…»

    «Non è morto!» esclamo, forse a voce troppo alta. Sono costretto ad abbassarla per non farmi sentire da tutto il personale dell’ospedale. «Ne sono sicuro, più che sicuro. Non può essere morto, altrimenti lo sarei anch’io.»

    «Giusto. Condividete il cuore.»

    Annuisco.

    Cerco di liberare la mente dalle troppe informazioni dell’ultima giornata, anche se risulta difficile. Sono soltanto un sedicenne dalla salute precaria che è stato maledetto da un demone e che è riuscito a sconfiggerlo, malgrado ciò significhi avere ucciso anche un mio amico d’infanzia che tuttavia era già morto. Che casino! Per di più, la persona che amo è scomparsa e io non ho alcun potere per farla tornare.

    Sollevo la testa e guardo fisso di fronte a me. Non è vero. Non è vero che non posso. Come faccio a dirlo se non ci ho neanche provato? Ho persino un Angelo Protettore dalla mia parte, il mio amico Richard Munday, reincarnazione dell’angelo Raska. Non mi posso arrendere così. Ho promesso a Caleb che non l’avrei più fatto, che avrei combattuto e che ne sarei uscito vincitore. È ciò che farò proprio adesso.

    Mi rivolgo nuovamente a Richard, questa volta non c’è traccia di timore o confusione nel mio sguardo.

    «Abbiamo una missione.»

    Lui mi scruta al di là degli occhiali quadrati con i suoi occhi limpidi.

    «Riportare Caleb a casa.»

    2

    NON È POSSIBILE

    Ho le palpebre troppo pesanti per provare anche solo a svegliarmi del tutto. Credo che mi farò un’altra dormita, tanto sono cominciate le vacanze estive e della scuola se ne riparla tra un po’. Quindi mi giro sul fianco con un mugugno, o almeno credo, il corpo non risponde ai comandi.

    Cavolo, devo avere davvero sonno.

    «Papà, si sta svegliando!»

    Dannazione, Sammy! Quante volte ti ho detto di non entrare in camera mia? Lasciami dormire!

    «Papà!»

    Una debole luce mi fa socchiudere le palpebre, le strizzo ed emetto un altro lamento. «È domenica?» borbotto con voce arrochita, non sembra neanche la mia. «Voglio dormire, vattene.»

    Tento di agitare il braccio, con il solo risultato di sbatterlo contro il materasso. Adesso che ci faccio caso, è più scomodo del solito; forse mi sono addormentato sul divano. Socchiudo le palpebre. Quattro occhi sono fissi su di me, scuri, e appartengono a due volti che non riconosco. Scatto a sedere assalito dal panico, ma una fitta alla testa mi costringe a tornare sdraiato.

    «Attento, non fare movimenti bruschi,» mi dice uno dei due, dalla voce deve avere suppergiù l’età di papà, «potrebbero riaprirsi le ferite.»

    È un lampo. No… una lama di luce folgorante. La mente si riempie delle immagini della battaglia contro Ciardha: il volto di Nigel trasmutato in cattiveria pura, le immense ed eteree ali d’angelo di Richard, la spada benedetta comparsa tra le mie mani, la sfera di luce nera che si è scontrata con la forza della mia anima e… E poi cosa? Non ricordo. C’è solo il buio e il grido di Bent che risuona nelle orecchie.

    «Bent!» urlo mettendomi di nuovo a sedere. «Bent è in pericolo!»

    «Stai delirando, ragazzo, forse hai la febbre,» dice ancora l’uomo.

    Mi obbliga a sdraiarmi, tuttavia io mi divincolo con il cuore che scalpita pieno d’ansia. Devo tornare da Bent. Quanto tempo è passato da quando sono svenuto? Sarà finita la battaglia? Avranno ucciso Ciardha? Non lo so, non so niente, mi sento soltanto pesante dalla punta dei capelli a quella dei piedi.

    Mi sforzo di tenere gli occhi aperti nonostante brucino, e finalmente posso mettere a fuoco l’uomo e il ragazzo. Si assomigliano, ne deduco che siano padre e figlio: capelli neri, sopracciglia così folte da far invidia a un cespuglio e stazza niente male; il ragazzo è grosso il doppio di me. Però dovrebbe andare da un barbiere più spesso, ha la barba più sconnessa e a chiazze che io abbia mai visto. La coda bassa in cui tiene raccolti i capelli completa il quadro, assomiglia a un boscaiolo sperduto tra le selve.

    Proprio lui mi osserva con aria incerta, anche se credo di essere io a meritare il premio per Il ragazzo più confuso della giornata, dato che non so dove sono, cosa sia successo e che fine abbiano fatto Bent e Richard. Forse il colpo di Ciardha mi ha sballottato così lontano da farmi finire nei pressi di un’altra cascina, una non abbandonata, e la sua famiglia mi ha trovato svenuto all’esterno e mi ha prestato soccorso. Sì, deve essere così.

    Appoggio i piedi sulle assi in legno del pavimento, è freddo e pieno di polvere (ma non puliscono in questa casa?), poi mi alzo nonostante i rimproveri dell’uomo che tenta in tutti i modi di costringermi ancora a letto.

    «Mi lasci!» sbotto, barcollando verso l’uscita. «Devo andare da Bent, devo salvarlo!»

    Riesco a uscire dalla stanza. Non presto attenzione a nulla attorno a me, nemmeno al dolore che mi rende complicato mettere un passo davanti all’altro. Mi limito a cercare la porta d’ingresso, e quando la trovo mi ci butto a capofitto sperando non sia chiusa a chiave. Per fortuna non lo è, ma appena la spalanco vengo tramortito dalla puzza di bestiame e da un altro tipo di odore che non riconosco e che proviene da tutt’intorno, dalle case disposte a casaccio lungo la strada sterrata sulla quale sbucano ciuffetti d’erba. Le persone che la percorrono sono vestite in maniera ridicola. Chi, nel ventunesimo secolo, va in giro con tuniche e sandali ai piedi? Quale uomo indossa calzoni dal tessuto così grezzo? Che nemmeno riconosco, tra l’altro.

    Le gambe mi cedono e cado all’indietro, sedere a terra.

    «Ma cosa… dove…» Mi manca l’aria e sono costretto a fare respiri profondi con la bocca. «Che posto è questo?»

    Perché di certo non può essere Birmingham.

    Mi rimangono dei ciottoli sui palmi puntellati per terra, che graffio con le unghie noncurante di farmi male, fino a stringere le mani in due pugni. Mi gira la testa e mi sento bollente. Ha ragione quell’uomo, questi devono essere i deliri di un ragazzo febbricitante.

    «Siano benedetti gli angeli!» esclama proprio lui, passandomi le braccia sotto le ascelle per tirarmi su. Il mio corpo a peso morto non lo aiuta. «Hilmar, dammi una mano. Dobbiamo portarlo dal sacerdote.»

    Sacerdoti, angeli. No, non è possibile.

    Scollego il cervello, tanto non funziona in ogni caso, e mi estraneo dal mondo.

    Un mondo che comunque non è mio.

    Lascio che siano quei due a fare tutto, mentre io vorrei urlare ma non ho abbastanza forze per riuscirci. Vengo issato su un carretto trainato da un cavallo. Il ragazzo, che a quanto pare si chiama Hilmar, è seduto al mio fianco e mi regge con una mano sulla schiena; il padre è alla guida e, pochi istanti dopo, mi sento sobbalzare a ogni cavalcata, a ritmo regolare.

    Dove sono le automobili? Dov’è il mio motorino?

    Non è possibile, ripeto lungo il tragitto, perché non ci credo.

    Non voglio crederci.

    Non posso essere tornato indietro nel tempo.


    Non faccio altro che camminare avanti e indietro in questa stanza che non so nemmeno se considerare tale. È un piccolo quadrato con un materasso scomodo e una finestra priva di vetro ma con le grate. Fine. Più austero di così non si può proprio, e io mi sento un animale in gabbia. Un animale confuso, arrabbiato e smarrito.

    Ma come sono finito in quest’epoca? Non faccio che domandarmelo da quando sono sceso dal carretto. Mi sono ritrovato all’esterno di un tempio dalle colonne adorne di drappi bianchi e violetti, costruito in pietra, con le pareti decorate con bassorilievi, molto più appariscente e maestoso rispetto alle altre case del villaggio. Poi davanti a un batacchio che mi ha ricordato le ali di Richard e che il padre di Hilmar ha sbattuto per farsi aprire. Ci ha accolto un anziano dalla divisa stramba e un bastone altrettanto strambo, ed è lì che ho avvertito una sensazione insolita. Fino a qualche ora fa ero convinto di saper riconoscere certe cose che, adesso, non mi paiono più tanto familiari. Che non sia più influenzato dall’anima di Gavin? Oh, ma che mi importa! Il problema principale è: cosa ci faccio qui?

    Non mi do pace, mi viene persino da vomitare, forse perché non mi sono ancora fermato e il sacerdote mi ha raccomandato di riposare. Ma che riposi lui! Non posso riposarmi, se sono davvero intrappolato in questo mondo.

    È un sogno? Ditemi che è un sogno.

    Sospiro e mi passo una mano tra i capelli. Mi brucia la gola, forse è il caso di sedersi ma, appena lo faccio, ecco che scatto di nuovo in piedi e mi dirigo alla finestra. Se qui mi sembra di essere in gabbia, al di là c’è sicuramente la libertà. E a quanto pare la libertà ha la forma di un giardino ricco di alberi dalle fronde immense e tronchi grossi come i muscoli dei bodybuilder. Fiori lilla e blu delimitano un percorso ciottolato che arriva fino a un pozzo che ha tutta l’aria di essere in disuso da quanto è scrostato, ma un secchio è posto proprio accanto. Chissà se anche in quest’epoca c’è il polline. Ci mancherebbe soffocare perché non esistono gli antistaminici!

    Sospiro di nuovo, questa volta all’interno della mano che mi porto al viso. Ma cosa me ne frega dell’allergia, adesso? Sto divagando. Sto impazzendo, tanto per cambiare. Se fino a qualche mese fa, però, mi credevo pazzo per via delle visioni che di tanto in tanto esplodevano nel mio cervello – all’apparenza senza senso, ma che invece un senso ce l’avevano

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