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Tutto questo non può finire bene
Tutto questo non può finire bene
Tutto questo non può finire bene
E-book472 pagine6 ore

Tutto questo non può finire bene

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Info su questo ebook

Riccardo torna a Nuoro per il matrimonio della sorella sapendo due cose: odia tutta la sua famiglia e il vero motivo per cui continua ad averci a che fare è sua nonna, vera figura materna della sua esistenza. Ma al suo arrivo lo accoglie la notizia che l’amata nonna è morta. Un rocambolesco fine settimana, tre giorni di avvenimenti, persone, momenti imbarazzanti, comici e drammatici. La discesa negli inferi di un uomo che cerca disperatamente di capire la sua vita, nonostante la sua vita sembri remargli contro.
LinguaItaliano
EditoreBlonk
Data di uscita31 gen 2024
ISBN9791222498768
Tutto questo non può finire bene

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    Anteprima del libro

    Tutto questo non può finire bene - Fabrizio Casu

    - 1 -

    Avrei serie difficoltà a spiegare perché odio la mia famiglia.

    Ci sono ragioni, alcune serie, altre molto meno, che mi hanno condotto alla situazione attuale. Sicuramente, lo dico onestamente, anche io ho fatto la mia parte non dico per evitare, ma neanche per cercare di attutire e rallentare l’inesorabile disgregazione della nostra relazione.

    Se morissimo tutti nello stesso istante e ci trovassimo davanti al Signore, sempre ammesso che ne esista uno, e ci chiedesse be’? Che avete combinato? sono quasi certo che nessuno di noi saprebbe spiegare i singoli passi che ci hanno condotto a quel punto.

    Quindi siamo così: persone che si conoscono, che dovrebbero volersi bene e amarsi e preoccuparsi l’una per l’altra e, invece, da una parte ci sono loro, con il loro malanimo e neanche tanto velato fastidio quando mi vedono, e io, con il mio rancore e il mio disprezzo quando ci ho a che fare.

    Ai tempi dei romani, quando un ricco voleva lasciar andare uno schiavo e renderlo un uomo libero, gli batteva sulla spalla con un ramoscello di olivo e ripeteva una formula davanti a un giudice nella quale declamava che lo rendeva un uomo libero e che, da quel momento, non sarebbe mai più stato lo schiavo di nessuno. I romani erano un popolo intelligente e avanti con i tempi e mi chiedo se non dovremmo fare la stessa cosa con i nostri familiari. Arrivati a una certa età, diciamo trent’anni, il padre della famiglia dovrebbe batterti sulla spalla e dirti "vai, sei libero. Non sei più tenuto ad avere a che fare con noi. Potrai farlo, ma sarà tua libera scelta, ma se questo Natale preferirai stare sul tuo divano a mangiare cibo precotto e a guardare l’ennesima replica di Una poltrona per due, anziché passarlo con noi, non avremo ragione per volertene". Anzi, a dirla tutta, credo che pure loro dovrebbero essere contenti della cosa, ecco.

    E invece no. Siamo ancora qui, a frequentare parenti che non sopportiamo fino a quando non tirano le cuoia. A fare finta di trovare simpatici zii e cugini che, se potessimo, butteremmo nel primo fossato che troviamo.

    Non è vita, vero?

    Sono seduto al bar dell’aeroporto e sorseggio un bicchiere di whisky, mentre rigiro una sigaretta tra le dita. Sono praticamente il cliché dell’investigatore da romanzo hard boiled senza essere un investigatore o essere in un romanzo hard boiled. O anche solo essere un personaggio degno di essere raccontato, se per quello.

    Do un’occhiata distratta alla televisione, sintonizzata su un canale di news ventiquattr’ore al giorno, che sta parlando dell’ennesima crisi politica di questo o quel partito, nell’indifferenza generale. La ragazza che serve al banco, una venti-e-qualcosa-enne con dei capelli ricci e le lentiggini, è brava, con i clienti. Sorride, ride alla battute, riesce a scambiare più di due frasi di fila senza sembrare impaziente di smettere o annoiata. Mi nota, mentre la guardo, e si avvicina.

    - Qualcos’altro?

    Finisco quello che ho nel bicchiere e glielo mostro, annuendo. Lei sembra un attimo interdetta e la posso capire: sono solo le due del pomeriggio, del resto, e io sono già attaccato ai super alcolici.

    - Mi aspetta un fine settimana molto duro – dico, semplicemente.

    - Capisco – risponde e, se lo fa solo per educazione, lo fa molto bene.

    Recupera la bottiglia e mi riempie un’altra volta il bicchiere.

    - Torno a casa – dico.

    - Dove vive?

    - No, no, io vivo qui. Sto tornando dai miei genitori, dove sono cresciuto – mi affretto a precisare.

    - E non è contento? - chiede, mentre rimette a posto la bottiglia.

    - No, non lo sono – dico, prima di bere un sorso.

    - Dove vivono, i suoi?

    - Sardegna.

    - Bella la Sardegna, ci sono stata, una volta.

    - Lasciami indovinare – dico, alzando la mano: – viaggio con le amiche, un’estate.

    Sorride e non dice nulla.

    - Lunghe giornate ad abbrustolirvi in spiaggia, serate fuori a bere e a ballare e a flirtare con altri turisti che poi non avete più rivisto, finite le vacanze – sorride ancora. - E, ovviamente, del sesso consumato a casaccio, dove capitava, mentre vi organizzavate per chi si portava a casa la preda della serata. Come sono andato?

    - Non bene. Ci sono stata con il mio fidanzato.

    - Era la mia seconda opzione – ammetto.

    - Quindi la sua prima opzione era vacanze con le amiche e la seconda era vacanze con il fidanzato? E pensava di avere intuito? Lei non fa l’indovino, per vivere, vero?

    Ridacchio e le lancio un’occhiataccia, allo stesso momento.

    - No, per tua tranquillità no, non faccio l’indovino.

    - Bene così.

    Allungo la mano verso di lei.

    - Riccardo.

    - Daniela – dice, stringendola.

    Si allontana e va a preparare caffè e a far pagare dei clienti. Le due e cinque. Il tempo sembra non passare mai e ho ancora quaranta minuti di attesa, prima che chiamino il mio volo. Atterraggio all’aeroporto di Olbia, mi passa a prendere mio fratello, poi si va a casa e comincia il delirio.

    Guardo la sigaretta e cerco di capire se mi pesa maggiormente non fumare o l’idea di alzarmi e dover trascinarmi la valigia fuori per accenderla. Decido che la mia pigrizia vince su tutto e rimango lì. Guardo ancora la gente lì intorno e cerco di capire chi sono, di cosa si occupano nella vita; mi invento le loro storie e il motivo per cui sono lì. Una volta mi divertiva un sacco, passare il tempo così, poi qualcosa si è perso per strada e ora lo faccio di rado.

    Prendo il cellulare e controllo se ci sono messaggi, ma nessuno ha pensato di scrivermi. Allora apro l’applicazione di Amazon e cerco il titolo del mio libro per controllare se ci sono nuove recensioni e, siccome non mi ricordo a quando risale l’ultima, leggo le tre o quattro più recenti. Ne trovo una che non avevo letto o che mi sono dimenticato di avere letto e che dice che il libro è bello, che gli piacerebbe leggere un seguito e io mi trattengo dal rispondergli che è un libro motivazionale su come prendere le redini della propria vita e liberarsi di quello che ci rende infelici e diventare dei vincenti e cosa diavolo ci dovrei mettere nel seguito, stupido imbecille?

    Improvvisamente mi ricordo perché il mio agente mi ha pregato di non leggere le recensioni online.

    Daniela torna e mi mette davanti una coppetta con delle noccioline. Ringrazio con un cenno del capo e me ne infilo una manciata in bocca.

    - Un funerale – dice lei, mentre sciacqua bicchieri e piatti che ripone nel cestello della lavastoviglie.

    - Come hai detto, scusa? - chiedo.

    - Va a un funerale. Per questo sta tornando a casa, perché è morto un suo parente e sta andando al funerale. Questo spiegherebbe perché è così di cattivo umore.

    - Promettimi che anche tu non lascerai il tuo lavoro per cominciare la carriera di veggente.

    Sorride e con pochi gesti precisi chiude la lavastoviglie e la fa partire.

    - Sto andando al matrimonio di mia sorella. E già questo sarebbe un ottimo motivo per essere di cattivo umore, concordi?

    - Perché? Non è felice che si sposi?

    - Sono molto felice che si sposi e questo per la semplice ragione che l’argomento allora, Teresa, quando vi sposate? che salta fuori a ogni pranzo di famiglia finirà finalmente in archivio.

    - Però – dice lei, alzando un dito – ora cominceranno a chiederle quando farà dei figli.

    - Oh no, quello non mi preoccupa. È già incinta. Al quarto mese, per la precisione.

    - Ah.

    - E no, non si sta sposando per quello.

    - Non lo pensavo.

    - Invece sì. E non devi sentirti in colpa per essere stata così banale e allusiva, è normale, lo hanno pensato tutti. L’ho pensato anche io che so che non lo fa per quello.

    - Va bene – dice, ma non sembra convinta. - Allora come mai non è contento?

    - Perché odio la mia famiglia. Davvero. Non è una posa, non è un modo di dire. Non li sopporto. Nessuno. I miei genitori, i miei fratelli, i miei zii, giù fino all’ultimo parente acquisito. Non sopporto nessuno di loro.

    - Non è possibile.

    - Giuro.

    - Nessuno odia tutta la sua famiglia.

    - Hai davanti a te il primo esemplare della specie, allora. Dovresti farmi una foto e aprire una pagina Wikipedia su di me.

    Mi studia con attenzione, poi va da un cliente per fargli pagare il conto e io bevo ancora al mio bicchiere, rendendomi conto di essermi sbagliato. Quando fa ritorno, attiro la sua attenzione con un cenno della mano.

    - No, in effetti, aspetta, non aprire la pagina di Wikipedia.

    - Ah ecco, mi sembrava strano.

    - Amo moltissimo mia nonna paterna.

    - Vede? Nessuno odia tutta la sua famiglia.

    - Sì, è vero, mi sbagliavo.

    - Quindi dovrebbe essere contento di vedere almeno lei.

    - Lo sono. Lo sono – ripeto, annuendo. - È una persona splendida e la amo da morire. Ho sempre detto che, invecchiando, sarei voluto diventare come lei che è saggia e amabile e amata.

    - E invece... - dice lei.

    - OK, tanto per cominciare mi offendo moltissimo che tu dica e invece perché sottintende che tu non mi riconosca nessuna delle tre caratteristiche qui sopra.

    Non dice nulla e arriccia le labbra.

    - Almeno saggio, forza. Passino gli altri, ma non puoi sapere se sono saggio o meno, ci conosciamo appena.

    Continua a non dire niente e sospira, paziente.

    - E invece sto diventando come mio padre – ammetto, alla fine, sconfitto.

    - Suo padre non può essere così male.

    - Come puoi dirlo? Non sai neanche com’è fatto.

    - L’ha tirata su e, nonostante lei lo odi, non l’ha ancora uccisa. Deve avere dei lati positivi.

    Finisco il whisky, poggio il bicchiere, il ghiaccio che tintinna.

    - Ho deciso che ti odio, Daniela. Scordati la mancia.

    - Non me l’avrebbe data lo stesso.

    - È vero – ammetto.

    Sbuffa e va a servire altri clienti, mentre rimango lì a guardare la mia sigaretta. Con il passare degli anni mi sono accorto che non odio i miei genitori, che il senso di fatica all’idea di averci a che fare è semplice noia e fastidio e che vivrei meglio se non dovessi parlarci, ma non si può, perché le convenzioni sociali non ce lo permettono, apparentemente.

    Avrei difficoltà a spiegare tutte le ragioni per cui ce l’ho con loro e, se per questo, loro con me. Si parla di delusioni delle loro aspettative, del fallimento di non uno, ma di due matrimoni, della mia fuga dalla mia città e del mio assoluto rifiuto di tornarci, dei rapporti scarsi, quasi inesistenti con mio fratello e mia sorella. O del fatto che non ho mai fatto niente per mascherare queste cose, ma, anzi, non ho mai perso occasione per sottolinearle.

    I miei genitori sono brave persone, non ci sono dubbi in proposito. Mio padre lavorava all’archivio comunale e mia madre faceva i salti mortali per gestire un marito, tre figli, una casa e un lavoro come segretaria in uno studio legale. Hanno fatto il possibile per darci un’educazione e una vita il più possibile serena, ma in qualche modo questo non è arrivato gratis. Assieme ai regali di Natale e alle tasse universitarie sono arrivati sotterranei sensi di colpa per i sacrifici che hanno fatto per permetterci una vita agiata, invisibili aspettative di lauree e lavori ben retribuiti, di matrimoni e figli e nipoti e di costanti riconoscimenti per ciò che avevano fatto per noi. Quando io, il figlio di mezzo, ho cominciato a manifestare un certo disagio e un certo fastidio per questo modo di fare, le cose si sono tese.

    Mio fratello più grande, Orlando, si è laureato in giurisprudenza e ha cominciato come avvocato, per poi passare l’esame da giudice e ora vive felicemente con la sua compagna, Monica, a Olbia. Non si sono sposati, credo non intendano farlo, e non hanno figli. Lei è un avvocato divorzista e frequentano solo avvocati e giudici e magistrati e non riesco a non immaginare le loro serate con gli amici come una partita Cluedo dal vivo.

    Mia sorella Teresa, la più piccola della nidiata, invece, è dentista e il suo futuro marito, Pasquale, è anche lui dentista. E frequentano un sacco di dentisti e di medici.

    Non voglio sembrare snob, anche se so di esserlo, ma questa cosa che si accoppino per categorie professionali e vivano solo frequentando gente che fa il loro stesso mestiere mi fa vomitare. Come se un insegnante delle medie o un muratore o un pittore impressionista non potessero essere altrettanto interessanti, come se passare una sera al mese senza parlare di malattie e di schifezze nelle bocche della gente potesse ucciderli.

    Mio fratello è, ovviamente, quello saggio dei tre, quello maturo, quello posato, quello affidabile. E in effetti non posso negare che Orlando sia il genere di persona che qualsiasi madre vorrebbe vedere accanto alla propria figlia. Se io avessi una figlia, per dire, anche io vorrei che si scopasse Orlando. Cioè, non proprio lui, ma uno uscito dallo stesso stampo.

    Mia sorella Teresa è sempre stata un po’ la nostra mascotte, quella che cercavamo di proteggere dal mondo esterno, cosa che l’ha sempre infastidita anche se, sotto sotto, le faceva piacere avere due fratelli maggiori che la guardavano da lontano e la proteggevano. Pur essendo un medico con la mentalità scientifica, ha anche un suo lato artistoide che sfoga dipingendo dei quadri fatti di macchie di colore che sembrano sia inciampata sui secchi di vernice, ma che dicono siano belli. A me non piacciono e non ne ho mai comprato uno. Lei non l’ha presa bene.

    Pago il conto e lascio un cinque euro extra per Daniela, che, sorpresa, mi sorride.

    - Grazie – dice.

    - Prego.

    - Non si preoccupi, vedrà che si divertirà, alla fine. È un matrimonio, mangerà un sacco, berrà e prima che se ne accorga sarà finito.

    -È un matrimonio sardo, Michela. Durerà una ventina di ore e ci saranno trecento invitati. È la cosa più vicina all’inferno che io conosca e solo un elicottero che getta del napalm sulla folla potrebbe salvarci tutti.

    - Va bene, forse non si divertirà molto.

    - No, infatti.

    - Però ci sarà sua nonna.

    - Sì – sorrido, - almeno ci sarà lei.

    La saluto con un cenno del capo e vado all’imbarco. Mi infilo le cuffie nelle orecchie e ascolto un po’ di musica, mentre sto in fila, in attesa di imbarcarmi, con vecchi e bambini che mi spintonano e ficcano i gomiti nelle costole perché non importa se abbiamo tutti il posto assegnato, dobbiamo arrivarci prima degli altri, perché non si sa mai, magari dei cecchini appostati sulla torre di controllo ci uccideranno, se non andiamo abbastanza veloci. Mi concentro su Blur che cantano The universal e attendo.

    Decolliamo puntuali, stranamente, e mi addormento appena siamo in aria. Vengo svegliato dalle ruote dell’aereo che toccano la pista d’atterraggio e cerco di emergere dal sonno, rammaricandomi di non avere approfittato delle bevande offerte dalla compagnia aerea. Non che la vita venga in qualche modo cambiata da un bicchiere di succo d’arancia, ma è gratis e le cose gratis, si sa, migliorano sempre le giornate.

    Mentre cerco di rilassarmi ascoltando qualcosa degli U2, aspetto pazientemente il mio turno per uscire dalla fila e recuperare la mia valigia dallo scompartimento in alto. Non ho tutta questa fretta di scendere dall’aereo, tutto sommato. Quindi non sbuffo, non brontolo a mezza voce, non dico niente alla signora davanti a me che si ferma per far uscire dalla fila chiunque si trovi davanti.

    Quando scendo, mi fermo sulla pista a godermi un po’ il sole che mi accoglie. Quando accendo il cellulare, trovo una chiamata persa di Roberto, il mio agente.

    - Ciao – dico, quando risponde.

    - Ciao. Dove sei? - chiede lui.

    - All’aeroporto.

    - Stai partendo?


    - No, sono arrivato.

    - Arrivato dove?

    
- Olbia.

    - Che ci fai a Olbia? Tu non vivi a Olbia.

    - No, ma come forse saprai, se hai letto la mia biografia sulla quarta di copertina, sono di Nuoro.

    - Sì, mi pare di ricordare qualcosa del genere.

    - Bene.

    - Il matrimonio di tua sorella, giusto? Ricordo che me ne avevi parlato.

    - Per questo mi piaci, Roberto, perché ti ricordi delle nostre conversazioni.

    - La cosa, come potrai ben immaginare, mi riempie di gioia.

    - Lo speravo – dico, mentre mi infilo gli occhiali scuri.

    - Parliamo di lavoro, ora?

    - Posso evitarlo?

    - No.

    - Va bene. Dimmi pure.

    - Ti sto organizzando una serie di incontri in libreria, per parlare del tuo manuale. Ti ho mandato una mail con date e luoghi, fammi sapere se vanno bene.

    - Mi fido di te.

    - Io no. Guardaci.

    - Va bene – sospiro.

    - Poi sto lavorando a una cosa che potrebbe essere interessante.

    - Di che si tratta?

    - Incontri aziendali come motivatore e life coach.

    - Sul serio?

    - Giuro su Dio.

    - E perché dovrei farlo?

    - Perché ti pagherebbero. Che ne dici, è una buona motivazione?

    - Abbastanza, sì, ma fatico a credere che qualcuno voglia pagarmi per questo.

    - Figurati. Se pagano per il tuo libro...

    - Trattieni tutto questo entusiasmo verso quello che scrivo, Roberto, mi metti in imbarazzo.

    - Lo sai che non ho niente contro. Potrebbe andare peggio, potresti essere uno di Scientology o il socio di Wanna Marchi.

    - Va bene, direi che per oggi abbiamo parlato abbastanza.

    - Sì, dai, può andare così. Ci sentiamo, divertiti al matrimonio e fai gli auguri agli sposi da parte mia.

    - Non lo farò mai.

    - No, certo, lo so. Ciao caro, salutami le pecore.

    - Salutami tua sorella.

    Chiudo la conversazione mentre entro in aeroporto, cortesemente invitato da un tecnico della pista di atterraggio che mi fa presente che mi devo levare dalle palle.

    Attraverso l’aeroporto Costa Smeralda, ricordandomi di quando era un buco con un’edicola buia dove andavo a sbirciare le copertine dei fumetti, mentre aspettavo parenti in visita, assieme ai miei genitori. A vederlo ora, sembra pure un posto di gran classe.

    Poso la valigia e mi guardo in giro, tra scene di ricongiungimenti a base di abbracci e baci e amore vario: non c’è nessuna traccia di mio fratello, che doveva essere quello che mi aspettava, all’arrivo. Prendo il cellulare e sto per telefonargli, quando sento una voce femminile che mi chiama. Mi volto e vedo Arianna, che ha appena varcato la soglia dell’aeroporto e sta salutando con la mano.

    - Ehi... - dico, avvicinandomi.

    Lei sorride e sposta dietro alle spalle i lunghi capelli rossi che le si sono appiccicati sulla faccia, rendendo visibili gli occhi verdi. Mi sorride e mi abbraccia, dandomi un bacio sulla guancia. Profuma di buono, non di qualcosa di comprato in una profumeria, quanto di sole e vento.

    - Ciao – dice, facendo un passo indietro e lanciandomi un’occhiata.

    Mi passo una mano sul volto, la barba lunga di due giorni, sicuramente grigia, deve contrastare con i capelli che tingo di un nero con riflessi bluastri.

    - Come stai? - chiedo.

    - Bene, grazie.

    - Mi fa piacere.

    C’è un attimo di silenzio e lei sembra in difficoltà. Arianna è la migliore amica di mia sorella, prima di tutto, ed è stata una mia breve storia, quando eravamo infinitamente più giovani di così. Mi guardo in giro e poi scrollo le spalle.

    - Sei qui per me o...

    - Sono venuta a prenderti – si affretta a dire, come se l’avessi strappata da pensieri profondi. - Quindi, se ti va bene, andiamo.

    - Dov’è Orlando? Doveva esserci lui, qui.

    Arianna assume un’espressione seria e serra le labbra.

    - Ci sono brutte notizie, Riccardo.

    - Cosa? Che succede?


    - Tua nonna. È morta stamattina.

    Rimango lì, fermo, a guardarla. Lei mi abbraccia subito, io resto con le braccia lungo il corpo a fissare il vuoto. Arianna dice qualcosa, ma non la ascolto, non sono interessato a quello che ha da dire. So solo che, per qualche ragione, mi torna in mente quello che mi ha detto Daniela, la cameriera dell’aeroporto. Che tornavo a casa per un funerale, per la morte di un parente, e io l’avevo presa in giro, dicendole di non rinunciare al suo lavoro per iniziare a darsi alle previsioni.

    Un punto per te, Daniela. Puoi diventare una cazzutissima veggente.

    - 2 -

    Dopo quindici minuti di viaggio mi scuoto dal mio silenzio e guardo Arianna che guida, in silenzio anche lei. Quando siamo saliti in macchina e ha acceso il motore, l’autoradio si è attivata e nell’aria è stata sparata la canzone di Titanic. Ha spento di fretta, scusandosi, imbarazzata, io le ho detto che non era successo niente e mi sono messo a fissare fuori, in silenzio.

    - Secondo una indagine statistica fatta in Inghilterra, quella canzone lì, My heart will go on, è la più suonata, ai funerali inglesi.

    - Sul serio? - dice lei, sorpresa, probabilmente, dal fatto che stia parlando di questa cosa.

    - Sì. Sai qual è la seconda?

    - Quale?

    - Wake me up, before you go go degli Wham!.

    - Scherzi?

    - Giuro che è vero.

    - Ma è una canzone allegra, da festa.

    - Che ti posso dire? Magari la gente, in Inghilterra, è felice, quando tira le cuoia. Del resto con il cibo di merda che hanno...

    Improvvisamente Arianna rompe il riserbo.

    - Come ti senti?

    Non rispondo subito, limitandomi a continuare a guardare davanti a me.

    - Non lo so.

    - Non hai mai avuto un lutto? Intendo nell’età per capirlo, non quelle cose che succedono quando sei piccolo e i tuoi ti spiegano le cose indorandotele.

    Ci rifletto su. In effetti ho avuto un paio di zii morti, quando ero già adulto e vaccinato, ma non mi è mai dispiaciuto molto. Ho fatto la faccia colpita, ho abbassato gli angoli delle labbra, ho balbettato qualche frase falsamente dispiaciuta ed è tutto finito lì. Non sono uno che sente particolarmente i legami, quelli con i parenti, poi, ancora meno.

    - È una persona la cui morte mi colpisce molto, se è questo che stai chiedendo.

    - No, non lo è. Lo so che ti colpisce molto. Mi chiedevo solo se lo hai mai affrontato, se sai come

    reagire, se hai un’idea di come la prenderai…

    - No, non ne ho idea. Improvviserò sul momento, credo.

    - Va bene.

    - Non credo ci sia un manuale su come si affronta il lutto, no?

    - In realtà ce ne sono un sacco – mi dice, scrollando le spalle. – Ma non è che li trovi nella sezione best seller.

    - È una velata accusa al fatto che, secondo te, non leggo roba abbastanza culturale?

    - No, è un modo di dire. Sono robe specifiche di psicologia, non è che te li sbattono dove tengono Fabio Volo e i libri di cucina.

    - Immagino di no.

    Rimaniamo in silenzio e la sua radio continua a sputare fuori non so quale pezzo di non so chi.

    - Cos’è? - chiedo.

    - L’ultimo album del Guerriero.

    - Chi?

    - Dante Guerrini. Il Guerriero. Conosci?

    - Ha fatto un nuovo album? Sta ancora in giro?

    - Sì e non è male, sai? Non è affatto male.

    - Dobbiamo proprio ascoltare questa robaccia?

    - No, certo che no. Puoi sempre scendere dalla mia auto e tornare a casa a piedi.

    Mi volto a guardarla e lei continua a guidare, canticchiando il pezzo.

    - Quando eri giovane eri più simpatica.

    - Quando ero giovane mi piacevi.

    Incasso il colpo e mi rimetto a guardare fuori dal finestrino, osservando le montagne che mi passano davanti, mentre il sole comincia a calare.

    Ci fermiamo a una stazione di servizio e io mi sgranchisco le gambe, mentre lei infila delle banconote nel self service.

    - Sai, i prezzi sono meno alti in citt…

    - Stai zitto – dice.

    - Ma insomma!

    - Senti, vai al bar e portami un caffè, ti va?

    Annuisco e attraverso lo spiazzo del parcheggio, entrando dentro il piccolo bar della stazione. Dietro la cassa c’è una ragazza giovane, di non più di vent’anni. Mastica la gomma a bocca aperta, con una perseveranza e un desiderio di mostrarla mentre la mastica che mi fa quasi paura. Nel frattempo sta curando le sue unghie, controllandole una alla volta, con un’attenzione che paragonerei a quella di un artificiere che deve disinnescare una bomba. Non saprei da dove mi viene l’idea, mai visto un artificiere o una bomba, io.

    - Buonasera – esordisco.

    - ‘sera – dice, mentre mastica ancora con una certa veemenza.

    - Un caffè da portare via, per favore.

    - Non lo facciamo.

    - Non fate il caffè?

    - Non lo facciamo da portare via.

    - Ah. Se ne prendo uno e lo porto fuori, posso? Poi le riporto la tazzina, non parto portandomela via, promesso.

    Sospira e va al bancone del bar, dove prende una tazza e mi guarda.

    - Ma lo vuole caldo?

    - Fate il caffè freddo?

    - No.

    - Allora caldo andrà benissimo, grazie.

    Sospira di nuovo. Mastica e fa il caffè.

    - Se non troppo disturbo – borbotto, sperando che non mi senta, perché non sarei in grado di reggere un’altra delle sue occhiate.

    Mi mette davanti la tazzina.

    - Macchiato? – chiede.

    - No, ancora no, magari se non faccio attenzione…

    Niente. Non ride. Mastica.

    - Andiamo, questa era divertente - dico, uscendo fuori e portando la tazzina ad Arianna che sta infilando la pompa nel distributore.

    - Ce ne hai messo, di tempo.

    - È gratis. Non hai diritto di lamentarti – le dico, porgendole la tazzina.

    - Sei un vero gentiluomo – risponde, prendendola.

    Mi accendo una sigaretta e mi stiracchio un po’, ignorandola. Lei dà un sorso al caffè e una lieve smorfia le increspa il viso.

    - Fa pure schifo - gira il cucchiaino nella tazzina, poi si volta a guardare verso i monti con me. - Scusa, lo so che non sono particolarmente amichevole – Sei arrivato e ci vediamo per la prima volta, dopo anni, e mi comporto come se mi desse fastidio.

    - In effetti non sembri particolarmente felice.

    - Lo so. Scusa.

    - Ho fatto qualcosa?

    - No, no. Niente. I ricordi, sai… - dice, lasciando la frase lì, appesa.

    La guardo e mi sembra quasi di vedere le parole che sono davanti alla sua bocca, come se aspettassero la spinta finale. Allora increspo le labbra e soffio, leggermente, e le vedo, le parole, che si involano, allontanandosi, leggere.

    - Sei scemo? – mi chiede, sollevando un sopracciglio.

    Sorrido e do un altro tiro alla sigaretta, prima di gettarla via.

    - Andiamo – dico.

    Stiamo per risalire in auto e ripartire, quando mi accorgo di una cosa.

    - Hai una ruota a terra – dico.

    - Come?

    Arianna fa il giro dell’auto e passa dal lato del passeggero per vedere quello che vedo io: la ruota anteriore destra è a terra, totalmente sgonfia. Mi metto a carponi e ci do un’occhiata, trovando, sulla parte di dietro, quella che pare una vite infilata ben dentro il copertone.

    - Sì, è andata – dico. - Hai una ruota di scorta?

    Mi lancia uno sguardo smarrito e sospiro, alzandomi e chiedendole di aprire il suo portabagagli. Tolgo la mia valigia e la metto da parte, poi sollevo il tappeto e, sotto, trovo la ruota incastrata. Faccio forza e la tiro fuori, dandoci un’occhiata: è ancora buona. Sotto trovo l’attrezzatura necessaria per la sostituzione.

    Prendo cric e chiave inglese e comincio a lavorare.

    - Non ti facevo uno pratico – dice lei, mentre mi osserva attenta.

    - Sono pieno di sorprese.

    - Sì, parrebbe di sì.

    - Una volta sono rimasto bloccato sull’autostrada, in pieno Agosto. Non avevo mai cambiato una ruota in vita mia. Ho dovuto imparare – racconto, mentre incomincio a svitare il primo bullone.

    - Allora, com’è la tua vita? - chiede, dopo un paio di minuti.

    - La mia vita è normale.

    - Davvero?

    - Mi alzo, lavoro, mangio, vado a letto. Come tutti – dico le ultime parole digrignando i denti, mentre un bullone mi fa dannare.

    - Pensavo vedessi gente famosa e andassi alle feste.

    - Capita.

    - Cosa? La gente famosa o le feste?

    - Entrambe. Ma non molto spesso, non mi invitano quanto potresti aspettarti.

    - Che ingiustizia – dice, con un sorriso sarcastico.

    Levo la ruota sgonfia e la poggio da una parte, guardando di nuovo la vite: è d’acciaio, praticamente nuova, sarà lunga un tre-quattro centimetri e si è ficcata bene in fondo.

    - Dovrai portarla dal gommista per rimettere tutto a nuovo.

    - Va bene.

    Recupero la gomma di scorta e la sollevo, facendola cadere un paio di volte e vedendola rimbalzare adeguatamente.

    - Mi cambi anche l’olio? - dice Arianna, sorridendo.

    - Solo se fai la brava.

    Sistemo la ruota e poi infilo il primo bullone.

    - E la tua vita? Com’è? - chiedo, mentre comincio a girare la chiave.

    - Bella. Molto stancante e, a volte, con dei bassi molto bassi, ma bella.

    - Stai ancora con... - lascio le parole volutamente in sospeso.

    - Sì, stiamo ancora insieme.

    - Vi sposate?

    Non dice nulla, per un attimo, poi annuisce.

    - Potrebbe essere. Non me l’ha ancora chiesto.

    - Ma ne avete parlato.

    - Sì, lo abbiamo fatto.

    - E l’idea vi piace.

    - Potenzialmente ci piace, sì.

    - Ma...

    - Ma niente. Arriverà quel momento, credo.

    Salgo ancora una volta sulla chiave con il piede e lascio che il mio peso stringa i bulloni in maniera che tengano stabilmente.

    - E tu? Sei fidanzato?

    - No. Ho qualche storia, ma niente di serio.

    - Stai cercando quella giusta?

    - Lascio a lei la fatica di trovarmi – mi schernisco.

    Prendo la gomma bucata e la sistemo nel portabagagli, dopo aver riposto gli attrezzi nel vano. Recupero la tazzina di caffè ed entro dentro, poggiandola sul bancone. La ragazza guarda le mie mani annerite, perplessa.

    - Mi sono rovesciato un po’ di caffè addosso.

    Mastica.

    - La tua mascella deve essere fatta di acciaio. Ti rispetto molto.

    - Un Euro – dice, semplicemente.

    - Ho avuto storie meno romantiche... - borbotto, mentre prendo una moneta trovata nelle tasche, frugando.

    Faccio un salto in bagno per lavarmi e, quando attraverso il bar per uscire, lei mi segue con lo sguardo, senza dire niente, masticando con tenacia.

    Osservo le montagne tutto intorno, il verde, la natura selvatica, le sporadiche case che spuntano in diversi punti. Mi è sempre piaciuto viaggiare in auto per la Sardegna. Mi è sempre piaciuta questa sensazione di passare dalla civiltà allo stato quasi primitivo da un momento all’altro, senza soluzione di continuità. Come se viaggiassi attraverso le dimensioni, quando meno te lo aspetti. Sbircio il cielo di quell’azzurro che non ho mai visto da nessun altra parte e respiro a fondo, accorgendomi di quanto ne sentissi la mancanza.

    - Tu sai qualcosa di mia nonna? - chiedo, a un certo punto.

    - In che senso?

    - Com’è morta.

    - No, no. Non so niente. Tua sorella mi ha chiamato, stamani, era molto sconvolta e mi ha solo chiesto di venirti a prendere.

    - Già.

    - Che io sapessi, non aveva dato segni di stare male o qualcosa del genere. Ma magari non mi hanno raccontato nulla.

    L’ultima volta che l’avevo chiamata, circa un tre settimane prima, l’avevo trovata allegra, in forma. Mi aveva raccontato di un film che aveva visto in televisione e di cui non ricordava il titolo, allora avevamo faticosamente ricostruito il tutto, riuscendo a capire che si trattava di Casinò e io mi ero ritrovato a pensare come fosse possibile che mia nonna guardasse una cosa così violenta e piena di parolacce, ma era fatta così, le piaceva tutto.

    - Posso fumare? - chiedo.

    - Se proprio non puoi farne a meno...

    Mi accendo una sigaretta e abbasso il finestrino quel tanto che basta per permettere al fumo di fuoriuscire, aspirato dalla corrente.

    - Era malata? - chiede Arianna.

    - Non che io sappia. Se lo era, non mi ha mai detto niente.

    - E la tua famiglia?

    Faccio una smorfia, poi scrollo le spalle. Mia nonna, la madre di mio padre, era una donna forte; di quella forza silenziosa che si esprime con sguardi densi e con le rughe del viso e della bocca. La amavo molto perché, contrariamente al resto della mia famiglia, non era una persona che ti giudicava, sempre pronta a farti sentire in difetto o sbagliato.

    Mio nonno è morto circa quindici anni fa e non so se lei ne abbia sofferto. Era uno di quei matrimoni dove la passione, l’amore e anche solo il desiderio di vedere l’altro si erano spenti quasi subito, se mai c’erano stati. E allora si erano limitati ad accettarsi, come fanno quelle coppie che si rassegnano a una vita di quieta melanconia.

    - Nonna non era una che si lamentava molto – dico. - Se anche fosse andata a fuoco la casa, non avrebbe detto una parola.

    - Ho presente il tipo. Dovresti chiamare tuo fratello e chiedergli cosa è successo – aggiunge, dopo un po’.

    - Sì, dovrei, ma non ora.

    Mi infilo la sigaretta in bocca e la lascio a penzolare. Sono arrabbiato con lui e con la mia famiglia per non avermi detto niente.

    In realtà non è proprio rabbia, del resto, da loro, non mi aspetto molto di più, ma devo trovare il modo di scaricare il dolore che sto sentendo e odiare la mia famiglia è sempre un ottimo modo.

    - Come va il tuo lavoro? - chiedo – Insegni sempre alle medie?

    - Sì. Aspetto di fare il concorso e vedere se riesco a passare di ruolo.

    - Sicura che ne valga la pena? Non puoi sperare in qualcosa di meglio? - dico, quando aggrotta un sopracciglio.

    Distoglie un attimo gli occhi dalla strada per lanciarmi un’occhiata attenta, poi scuote la testa e torna a concentrarsi sulla guida.

    - Chi ti dice che non sia questo, il meglio, per me?

    - La professoressa di scuola media? - chiedo.

    -

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