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Dream. Bugie d'amore
Dream. Bugie d'amore
Dream. Bugie d'amore
E-book373 pagine5 ore

Dream. Bugie d'amore

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Info su questo ebook

Bestseller del New York Times

Il loro amore li ha portati a mentire
La loro verità li ha condotti alla fine

Brigs McGregor sta risorgendo dalle ceneri. Ha perso sua moglie e suo figlio in un incidente d'auto, e in preda allo sconforto ha perso anche il suo lavoro, ma finalmente sta voltando pagina. Gli viene assegnata una prestigiosa cattedra all'Università di Londra e lo aspetta una nuova vita in città. Lentamente, ma inesorabilmente, sta sconfiggendo il senso di colpa e si sta lasciando alle spalle il suo tragico passato.
Finché non incontra lei.
Natasha Trudeau amava un uomo così tanto che pensava di morire senza di lui. Ma il loro amore era sbagliato, destinato a finire già dall'inizio, e quando il loro mondo va in frantumi, Natasha rimane quasi sepolta sotto le macerie. Ci sono voluti anni per dimenticare, e ora che è a Londra è pronta a ricominciare. 
Finché non incontra lui.

Alcuni amori sono troppo pericolosi per essere vissuti.
E alcuni amori sono troppo potenti per essere ignorati.
Karina Halle
È cresciuta a Vancouver, in Canada. Ha una laurea in sceneggiatura e una in giornalismo. I suoi articoli di viaggio e alcune recensioni musicali sono apparsi in riviste come «Consequence of Sound», «Mxdwn», «GoNomad Travel Guides». È autrice di numerosi libri di successo. Dream. Patto d’amore è stato in classifica per diverse settimane sul «New York Times», il «Wall Street Journal» e «USA Today».
LinguaItaliano
Data di uscita28 apr 2017
ISBN9788822707642
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    Anteprima del libro

    Dream. Bugie d'amore - Karina Halle

    PROLOGO

    Brigs

    Edimburgo, Scozia

    Quattro anni fa

    «Mi dispiace».

    Avevo fatto così tante prove, che pensavo mi sarebbe bastato aprire la bocca per fare uscire tutte le parole. Tutto il discorso. L’intera confessione. Pensavo che se avessi continuato a ripeterle in testa ancora e ancora, sarebbe stato più facile raccontare quell’orribile, disgustosa e liberatoria verità.

    Ma non è vero. Non lo è stato.

    Non riesco nemmeno a spiegarmi. Non faccio altro che crollare in ginocchio, con le gambe che mi tremano per lo stress, quello stress che mi sono causato da solo. Ma è niente in confronto a quel che sta per provare lei.

    Miranda è seduta sul divano, proprio come le avevo chiesto, con davanti una tazza di tè ordinatamente appoggiata sul piattino. Fisso i sottili vortici di vapore che si innalzano dalla bevanda calda. Pensavo di poter fare la cosa giusta e guardarla negli occhi, ma non ci riesco. Sono vigliaccamente arrivato alla fine di tutto, ma non voglio vederla soffrire, non per un dolore che le infliggo con le mie stesse mani.

    «Ti dispiace per cosa?», mi chiede con la sua solita voce calma. Sempre così tranquilla, capace di sedare ogni tempesta che ho scatenato sul suo cammino. Vedermi in ginocchio, tremante come un idiota, non le ha fatto minimamente cambiare tono. Magari non sarà un colpo così duro come credo io.

    Ma questa è solo una maledetta speranza.

    Faccio un respiro profondo, l’aria esce in un tremolio e provo imbarazzo. Spero soltanto che lo scroscio della pioggia là fuori riesca a mascherarlo.

    «Mi dispiace», ripeto di nuovo. La mia voce suona vuota, come se stessi ascoltando qualcuno cantare in playback sopra un vecchio nastro polveroso. «C’è una cosa che devo dirti».

    «Questo lo vedo», risponde, e ora mi accorgo di un leggero picco nel tono di voce. «Prima mi hai detto di sedermi e ora ti sei messo in ginocchio. Non mi stai chiedendo di sposarti di nuovo?».

    Se così fosse, sarebbe molto più facile.

    Finalmente oso guardarla negli occhi.

    Mia moglie è una donna bellissima. La reincarnazione di Grace Kelly. Un collo da cigno. Ricordo ancora il nostro primo appuntamento. Erano appena finite le scuole superiori, ma già allora celava un mondo di segreti dietro i suoi atteggiamenti. Era così composta, così perfetta. Io mi presentai con il mio carrozzone e la portai al cinema, poi a cena fuori nel posto migliore che potessi permettermi, anche se il cibo faceva abbastanza schifo. E lei fu sempre carina, non batté mai ciglio. Mi faceva sentire qualcuno quando ero accanto a lei, e forse è questa la ragione per cui l’ho sposata. Era tutto quello che non ero io.

    Ed è ancora tutto quello che non sono. In questo momento, è persino più evidente.

    «Brigs», mi dice, aggrottando la fronte. Le rughe d’espressione si notano appena quando fa quella faccia. «Mi stai mettendo paura».

    Mi schiarisco la voce, ma ho dei massi in gola. «Lo so».

    «Si tratta di Hamish?», chiede, spalancando gli occhi pieni di panico al sol pensiero.

    Scuoto subito la testa. «No, Hamish non c’entra niente».

    Il piccoletto si è addormentato subito stasera, e io non potrei essere più sollevato di così. La pioggia cade ancora più forte, ticchetta contro la finestra, suono che con lui funziona meglio di una ninna nanna.

    «Voglio solo che tu sappia», le dico, appoggiando la mano sul dorso delle sue. Sono così morbide, come se non avesse mai lavorato un giorno in vita sua. Di solito la prendevo in giro per questo, per il suo essere una mondana, un’ereditiera viziata. Ma ora quelle stesse mani la fanno sembrare particolarmente vulnerabile. «Voglio solo che tu sappia che… ci ho pensato molto. Non ho mai avuto intenzione di ferirti». La guardo dritto in faccia con occhi imploranti. «E mi devi credere».

    «Oh Dio», risponde con un sussulto, sottraendo le mani dalla carezza della mia. «Brigs, che hai combinato?».

    Il peso di tutte le mie scelte mi soffoca.

    Non c’è un modo semplice per dirlo.

    Né per attutire il colpo.

    Non voglio ferirla.

    Ma devo.

    «Io…», deglutisco, la saliva scende come un mucchio di lamette. Scuoto la testa e combatto il calore che mi brucia gli occhi. «Miranda, voglio il divorzio».

    Lei mi fissa con uno sguardo inespressivo, così calmo che mi chiedo se abbia capito. Le mani mi tremano, il cuore necessita di una rianimazione.

    «Come?», mormora alla fine. Incredula.

    Dall’esterno sembravamo una coppia felice. Ma entrambi sapevamo che sarebbe successo. Magari non si era mai accorta dei vari catalizzatori, ma sapeva che questo momento sarebbe arrivato. Doveva saperlo.

    «È da parecchio tempo che non siamo più felici», le spiego.

    «Sei serio?», mi risponde alla svelta. «Stai facendo sul serio?».

    «Miranda». Mi inumidisco le labbra, affrontando il suo sguardo. «Dovevi aspettartelo. Se non l’avessi fatto io, probabilmente saresti stata tu».

    «Come osi», dice, scacciando via le mie mani e alzandosi in piedi. «Come osi mettermi in bocca certe parole? Io ero felice… Ero solo… solo…».

    Scuote la testa di qua e di là, marcia verso l’altro lato del soggiorno. «No», mi dice, in piedi di fronte alla tenda. «No, non ti concederò il divorzio. Non ti permetterò di andare via. Non puoi lasciarmi. Tu… Brigs McGregor non potrebbe mai lasciare Miranda Harding McGregor. Non saresti più nulla senza di me».

    Lascio che quelle parole mi scivolino addosso, anche se siamo arrivati a questo punto proprio perché sono vere. E io ne sono fermamente convinto. «Miranda», le dico con dolcezza, e già il suo nome inizia a perdere valore, come accade quando pronunci troppe volte la stessa parola in un frase. «Ti prego».

    «No!», urla, e io trattengo il fiato nella speranza che Hamish non si svegli. «Non so quali idee sciocche tu abbia in mente, ma il divorzio non è una soluzione. È soltanto… un volo di fantasia per te. Sei tu che non ti senti appagato dal tuo lavoro. Che non ti senti abbastanza uomo. Che non mi soddisfi come un uomo».

    Un colpo sotto cintura, come si suol dire. Avrei dovuto immaginare quale sarebbe stata la sua prima linea di difesa. I problemi in camera da letto sorti nell’ultimo anno. Non posso biasimarla.

    «No», ripete ancora una volta. «Io quello lo posso sopportare, posso farlo. E se non avrò mai un altro figlio, non fa niente. Ma la mia famiglia… La mia reputazione… Non voglio fare questa fine. Noi abbiamo una bella vita, Brigs. La casa. Guarda che casa». Indica furiosamente la stanza, con gli occhi infervorati. «Guarda quanta roba. Abbiamo tutto. La gente ci imita. Vogliono essere come noi. Perché vorresti buttar via ogni cosa?».

    Il cuore mi sprofonda nel petto e poi più giù, nello stomaco, dove va a morire.

    «Ti prego», la supplico con un fil di voce, restio a sputare fuori tutta la verità, ma disposto a farlo se non mi dovesse lasciare alternative. «Io non… non voglio ferirti. Ma non ti amo più. È la pura e semplice verità, e mi dispiace. Mi dispiace tantissimo».

    Sbatte gli occhi come se l’avessero appena schiaffeggiata. Poi dice: «E allora? Quante coppie sposate si amano ancora? Sii realistico, Brigs».

    Ora sì che mi sorprende. Aggrotto la fronte. Non mi aspettavo che combattesse così tanto per noi. Per un matrimonio senza amore, che a quanto pare le sta bene.

    Mi osserva attentamente, ticchetta nervosamente con le dita sulle labbra. Trama qualcosa. La pioggia si infrange contro le finestre e, in lontananza, riecheggia il rombo dei tuoni. È il primo temporale autunnale. Questa stanza non è mai stata così piccola.

    «Possiamo risolvere tutto», dice alla fine, con la voce tornata misteriosamente calma. «È solo un intoppo. Che possiamo risolvere. Puoi tornare ad amarmi e, se non ci riesci, non fa niente. Va bene così. Amiamo entrambi nostro figlio, ed è abbastanza. Non vuoi che cresca con il padre presente, con una famiglia unita? Non credi che un divorzio lo distruggerebbe? È questo che desideri per lui?».

    Quelle parole mi si conficcano nel petto come un punteruolo da ghiaccio. Resto inerme, il gelo mi assale. Certo, certo che voglio queste cose per mio figlio. È l’unico motivo che mi ha trattenuto fino ad ora. Ma i bambini lo sentono, sanno quando i loro genitori non sono felici. Hamish merita di più che un’infanzia offuscata dall’ansia.

    «Meglio genitori separati che genitori infelici insieme», le rispondo implorante. «Sai che è così. Hamish è intelligente, davvero intelligente. E parecchio sveglio. I bambini capiscono molto più di quanto crediamo».

    I suoi occhi ora sono due fessure. «Ma davvero? E da quale manuale di auto-aiuto l’hai rubata questa? Santo cielo, Brigs. Ma ti senti? Dici un mucchio di cazzate».

    «Vuoi che cresca sapendo che non amo sua madre? È quello che vuoi? Non pensi che se ne accorgerà? Lo vedrà».

    «No, invece», risponde brutalmente. «Basta con le scuse».

    Scatto in piedi con i palmi alzati, sentendomi inetto fino al midollo. Sbagliato come il peccato. «Non sono scuse. È solo la verità».

    «’Fanculo, tu e la tua verità, Brigs», risponde secca.

    Cade ancora un altro fulmine. Spero che sovrasti la nostra sfuriata, che Hamish dorma ancora come un angioletto ignaro del futuro che sta per cambiare. Non in peggio, prego, non in peggio. Cambia. Cambia e basta.

    Va verso il banchetto d’antiquariato, dove teniamo gli alcolici, e si versa un bicchiere di scotch dal decanter, proprio come l’eroina di un film di Hitchcock. Recita la sua parte.

    Non vede che sono stanco di fingere?

    E lei non ne ha abbastanza?

    «Ne vuoi uno?», mi chiede senza voltarsi, quasi timida, con il bicchiere di vetro stretto tra le dita fresche di manicure. Fu suo padre a comprarceli, insieme al decanter, come regalo per il matrimonio.

    Faccio cenno di no con la testa, cercando di rallentare il battito del cuore.

    Butta giù lo scotch, in un secondo le è sceso in gola. «Fa’ come ti pare. Bevo io per te».

    Si versa un altro bicchiere, lo tiene con delicatezza mentre scivola verso il divano, sedendosi di fronte a me. Incrocia le gambe e dondola la testa di lato, una cascata dorata le ricade sulla fronte. Ha di nuovo seppellito ogni emozione. Finge, recita, come se bastasse questo per rimettere tutto a posto.

    «Sei uno sciocco, Brigs. Lo sei sempre stato. Ma io ti perdono. Tutti quanti facciamo degli sbagli ogni tanto».

    Sospiro profondamente e chiudo un attimo gli occhi. Proprio non ci arriva.

    «La gente smette di amarsi in continuazione», continua, bevendo un sorso dal bicchiere e appoggiandolo sul tavolino di vetro. Quel clink rimbomba nella stanza, che minuto dopo minuto sembra sempre più vuota. «Sono cose che capitano. È triste, ma succede. Ci si può sempre rinnamorare. Ci proverò di nuovo. Meglio. Lo farò davvero. Farei qualsiasi cosa per farti restare. Lo sai questo. Lo sai come sono. Quando ho qualcosa, non me la lascio scappare. Combatto. E mi tengo ciò che è mio».

    Questo lo so fin troppo bene. Ecco perché devo dirle la verità. La cruda verità. Perché solo allora potrà capire. Solo allora realizzerà cosa voglio dire.

    Vorrei tanto non doverlo fare.

    «Mi dispiace tanto», mormoro.

    «Ti perdono». Svuota il resto del bicchiere e si asciuga le labbra con il dorso della mano, senza sbavare di una virgola il rossetto.

    «Mi dispiace», dico, sentendo le lacrime pronte a uscire. Scuoto la testa, risoluto. «La verità è… che amo un’altra… Mi sono innamorato di un’altra».

    Ci siamo.

    Le ho detto la verità.

    Che la investe come una pioggia di mattoni.

    Si riprende dall’impatto, scuote la testa, confusa, le pupille dilatate. Paura. Rabbia.

    «Cosa?!», esclama. Mi fissa. L’ira sta montando. Sempre di più. Sempre di più. Sempre di più, finché non si scatena. «Chi? Chi è? Dimmi chi cazzo è?!»

    «Non ha importanza», rispondo, ma lei è in piedi, con un ghigno beffardo, il viso paonazzo e teso. Incapace di fingere ancora.

    «Dimmelo!», urla, con le mani tra i capelli, i denti scoperti e gli occhi feroci. «Dimmelo! È qualcuno che conosco? Susan? Carol?»

    «Non la conosci, Miranda. È successo e basta, io…».

    «Vaffanculo!», grida di nuovo.

    «Ti prego. Hamish sta dormendo».

    «Oh, vaffanculo!». Batte i pugni sul mio petto, spingendomi indietro. «Mi hai preso in giro, vaffanculo! Chi è, una giovane ochetta? Lei te lo fa alzare? Ha sistemato il tuo problemino, eh?»

    «Non ci sono andato a letto», mi affretto a dirle.

    «Cazzate!», urla. «Maledizione, Brigs. Brigs, non puoi dire sul serio. Sei innamorato di un’altra». Scuote la testa, parlando tra sé e sé. «Fra tutti, proprio tu. Il professore. Il docile signor McGregor. No. Non ci credo. Non ci credo, cazzo».

    «So che è una cosa difficile da sentirsi dire».

    Slap.

    Mi tira uno schiaffo con tutta la forza che ha.

    Ancora un altro.

    E un altro.

    Da un lato e dall’altro, porgo l’altra guancia perché so di meritarli. Ero certo che saremmo arrivati a questo. Se non avesse reagito così, davvero non avrei saputo più chi è la donna che ho sposato.

    «Sei un imbecille! Un coglione!». Mi dà un altro spintone e corre all’altro lato della stanza, al banchetto dei liquori. Si attacca al decanter e butta giù lo scotch. Nella furia, un po’ le esce del naso e un po’ ne sputa fuori, piegandosi in preda alla tosse.

    «Miranda, ti prego».

    «Mi fai schifo», strilla una volta finito di tossire. «Patetico pezzo di merda! Ti sei scopato un’altra donna. Tu…».

    «Non l’ho fatto», grido, sollevando le braccia. «Non ci sono mai andato a letto, ti prego, credimi».

    «E se anche ti credessi, pensi di poterla passare liscia?», le parole escono fuori quasi in uno sputo. «L’amore è una scelta, Brigs. Sei tu che hai scelto così. Hai scelto di non amare me, di amare l’altra, una troia qualunque. Una donna senza importanza. Tu hai scelto di rovinare le nostre vite!». A queste ultime parole, afferra il decanter e me lo lancia addosso. Mi abbasso appena in tempo e il vetro sbatte contro il mobile alle mie spalle, frantumandosi in un milione di pezzi.

    «Mamma?», piagnucola Hamish, stropicciandosi gli occhi.

    Cazzo!

    Mi volto di scatto, cercando di sorridere. «Mamma sta bene», gli dico. «Torna a dormire, ometto».

    «Piove di fuori?», chiede, continuando a camminare. Sta per calpestare il vetro rotto.

    «Hamish!», grido e allungo le braccia per fermarlo. Ma si blocca da solo prima di aver raggiunto il vetro, e si volta a guardarmi con occhi sgranati. Non ho mai alzato la voce con lui. Non faccio in tempo ad avvicinarmi, che Miranda attraversa la stanza e lo trascina via per un braccio.

    «Avanti, tesoro. Ce ne andiamo, andiamo via», dice, portandolo nel foyer.

    Corro dietro di loro e vedo Miranda che afferra le chiavi della sua macchina e il cappotto. Hamish è in lacrime adesso, e lei lo prende in braccio.

    «Che stai facendo?», urlo, rincorrendola.

    Lei esce subito dalla porta e si fionda all’aperto, sotto la pioggia. Io sono dietro di lei, la rincorro a piedi nudi, affondo nel fango e quasi scivolo, mentre lei punta dritto verso la berlina.

    Non può fare sul serio. Non può farmi questo.

    Riesco a prenderla per un braccio mentre carica Hamish sul sedile del passeggero e chiude la portiera. Non c’è neanche il seggiolino – è in casa, la domestica l’ha ripulito dal latte che Hamish ci ha versato sopra questo pomeriggio.

    «Non puoi portarlo via!», le urlo, sovrastando il vento e la pioggia.

    «Lasciami andare!», grida, dimenandosi. «Lo porto via da te, bastardo che non sei altro».

    «No, ascoltami!», stringo la presa sul suo braccio. Hamish piange chiuso nell’auto, mentre la pioggia scivola sul finestrino. «Non sei lucida. Hai bevuto troppo. C’è una maledetta tempesta qui fuori e Hamish ha bisogno del seggiolino. Stammi a sentire!».

    «Se non mi lasci andare», ribolle di rabbia, «dirò a tutti quanti che mi hai fatto del male e non vedrai mai più tuo figlio». Mi strattona e stringo automaticamente le dita sulla sua pelle delicata. «Potrai anche avere il divorzio, Brigs. Ma non avrai lui».

    «Miranda, per favore. Lascia che prenda il seggiolino. So che sei arrabbiata ma, ti prego, lascia solo che prenda il seggiolino! Solo questo». Siamo bagnati fradici ormai, e i miei piedi vengono lentamente sepolti dal fango. Io vengo lentamente sepolto dalla mia disperazione. «Ti prego, va bene? Ti prego».

    Lei rimane a fissarmi, impaurita, arrabbiata. Poi annuisce, la pioggia le scivola sul viso.

    Non ho un piano. So solo che non la lascerò guidare, non in questo stato isterico, non con questo tempo. Abbasso lo sguardo verso Hamish, che continua a piangere. La luce debole gli illumina appena il volto rosa, quasi del tutto nascosto dalla pioggia.

    «Dammi un secondo», gli dico. «Papà torna subito».

    Mi volto, corro di nuovo in casa. Mi chiedo se sia il caso di allertare la polizia o se per quando le avrò portato il seggiolino si sarà già calmata. Se…

    La portiera si apre.

    Mi blocco e mi giro di scatto.

    Sta entrando in macchina, ha sbattuto la portiera.

    «No!», urlo. Cerco di correre ma scivolo, cado a terra. Il fango mi schizza addosso. «Miranda, aspetta!».

    La macchina è già accesa quando riesco a rimettermi in piedi. Non sento né pioggia né vento né il rumore del motore. Non ho freddo, solo terrore. Puro, semplice e insaturo terrore.

    Le ruote davanti girano a vuoto, poi l’auto si immette sul vialetto.

    Mi precipito verso di lei.

    Raggiungo la macchina e sbatto le mani sul cofano. La fisso attraverso i tergicristalli che si muovono come lame. Il suo volto. L’offesa. Il panico. Il disonore.

    Il volto di Hamish. Sgomento. Confusione. Il nostro matrimonio perfetto. Un bimbo perfetto.

    Il volto di lei. Il volto di lui.

    I tergicristalli li mostrano nitidamente.

    Miranda accelera e la macchina si muove, quanto basta per premere la mascherina contro i miei fianchi. Balzo velocemente sulla destra per non venire investito.

    Rotolo a terra lontano dalla sua traiettoria, e mi rimetto in piedi a fatica mentre Miranda sterza e sgomma via lungo la strada.

    «Miranda!», grido. Il panico mi assale per un secondo, mi immobilizza. Impotente e senza speranza.

    Ma non lo sono.

    Devo andare a riprenderli.

    Torno in casa, afferro al volo il cellulare e le chiavi dell’Aston Martin vintage, per poi correre di nuovo fuori e saltare in macchina.

    Il maledetto rottame ci mette un po’ per accendersi e intanto guardo il cellulare, indeciso se chiamare la polizia o meno. Non so nemmeno se ha superato la quantità di alcol prevista dalla legge, non voglio causarle problemi. Ma se possono fermarli prima di me, prima che possa fare del male a se stessa o ad Hamish, devo chiamarli. Devo fare qualcosa.

    Sta andando sicuramente a casa dei suoi genitori, gli Harding, dopo il ponte di St. David’s Bay. È lì che va sempre. Forse dovrei chiamare sua madre. Metterli in allerta. La signora Harding mi odierà tantissimo, e lo farà persino di più quando saprà cosa ho fatto a sua figlia.

    La macchina finalmente si accende. La spingo a tavoletta lungo il vialetto e poi sulla strada principale, una ventosa e tortuosa arteria che porta all’autostrada M-8.

    «Cazzo!», urlo, battendo ripetutamente i pugni sul volante mentre l’odio verso me stesso sembra strangolarmi. «Cazzo!».

    Perché gliel’ho detto proprio stasera?

    Perché devo partire per Londra?

    Perché mi sono cacciato in questa situazione?

    Perché è dovuto capitare proprio a me?

    Mi interrogo con un milione di domande, mi odio per aver causato tutto questo, rimpiango di non aver agito in maniera diversa.

    Non ho altra risposta a tutti quei perché che mi assillano, se non:

    perché amo Natasha.

    Ruota tutto intorno a questa terribile verità.

    Io amo lei.

    Tanto.

    Tantissimo.

    Quanto basta per farmi gettare ogni cosa al vento.

    Perché non riesco più a vivere nella finzione.

    Ma la verità non solo ferisce, distrugge.

    La strada devia bruscamente a sinistra, costeggiando il laghetto di Braeburn, e con la pioggia che cade a secchiate e i tergicristalli a tutto spiano, per poco l’ho mancato.

    Ma è impossibile non vederlo.

    Un recinto sfondato al lato della strada.

    Il fumo che sale da sotto la banchina.

    Una macchina è caduta dal dirupo.

    Pesto immediatamente i freni, la macchina slitta di un paio di centimetri, ma riesco a parcheggiarla su un lato della strada.

    Non permetto a nessun pensiero di entrarmi in testa.

    Nessuno di quei pensieri che mi suggerisce che sono loro.

    Che potrebbero essere loro.

    Ma se lo sono, uno di quei pensieri dice, li devi salvare.

    Li posso salvare.

    Non so come, riesco a non cadere nel panico.

    Scendo dalla macchina, la pioggia mi bagna il viso.

    L’aria puzza di asfalto bruciato.

    La tempesta infuria sul lago.

    E non appena mi avvicino al ciglio della strada, vedo il bagliore soffuso dei fanali, una luce smarrita nel buio del dirupo.

    Il cofano della macchina è distrutto, spiaccicato contro un salice. Lo stesso cofano che ho toccato pochi minuti prima, supplicandola di non andarsene.

    La macchina è su un fianco, piegata sul muso fracassato.

    Il fumo sale.

    Ma io nutro ancora speranza.

    Devo aggrapparmi alla speranza.

    Urlo, emetto suoni disperati che non riesco a controllare. Forse li sto chiamando, forse sto gridando aiuto. Mi trascino lungo il pendio, scendo verso la macchina.

    Prego.

    Prego.

    Prego.

    Che stiano bene.

    Devono stare bene.

    Il parabrezza è completamente distrutto, il vetro frantumato e macchiato di rosso.

    Rimango fisso a guardare la macchina vuota, come un ebete.

    Poi sposto lo sguardo.

    Sullo spazio di fronte al cofano.

    Sull’erba tra la macchina e il laghetto.

    Dove giacciono due corpi, scuri nella notte.

    Due corpi – uno grande, uno piccolo.

    Entrambi spezzati.

    Entrambi immobili.

    Ho un momento di lucidità, e la verità mi assale.

    La mia verità.

    Questa reale verità.

    E vorrei soltanto raccogliere il pezzo di vetro ai miei piedi.

    Tagliarmi la gola.

    E finirla prima che possa sentirlo.

    Ma sarebbe la fuga di un codardo.

    Perciò barcollo avanti.

    Mi vomito sulla camicia.

    Il cuore smette di battere.

    Piango.

    Urlo.

    Versi che solo gli animali emettono.

    Supero traballante Miranda.

    Raggiungo Hamish.

    Crollo sulle ginocchia.

    E stringo tra le braccia la mia verità.

    E la sento.

    Non smetterò mai di sentirla.

    La pioggia.

    La morte.

    La fine di ogni cosa.

    Il mio mondo si tinge di nero.

    E rimane così.

    Capitolo uno

    Brigs

    Edimburgo

    Presente

    Pop.

    Un tappo vola da una bottiglia di champagne analcolico. Questa merda non è di certo Dom Pérignon, ma per il bene di mio fratello e il suo programma di recupero per alcolisti, ce lo facciamo bastare. Inoltre, non è cosa beviamo che conta – ma cosa festeggiamo.

    «Congratulazioni fottute, fratello», dico a Lachlan, mettendogli una mano sulla spalla e strizzandola maldestramente. Sono a mille, dal suo sguardo capisco di star sfoggiando un sorriso esagerato, ma sono felice come non lo ero più da tempo. Forse è per lo champagne vero che ho bevuto insieme a mia madre prima che arrivassero Lachlan e la sua ragazza.

    Un momento. Non la sua ragazza.

    Kayla è la sua fidanzata adesso. E se devo dire la mia, era proprio ora.

    Lachlan annuisce, sorridendo appena. È visibilmente a disagio, e ho una gran voglia di imbarazzarlo ancora di più. È questo il compito dei fratelli maggiori dopotutto, e dato che Lachlan è stato adottato quando io avevo già finito le superiori, mi sono perso tutti quegli importantissimi anni di tortura infantile che quasi tutti i fratelli attraversano.

    Mia madre si avvicina e versa lo champagne finto nei nostri bicchieri, e poi in quello di Kayla che è impeccabilmente al fianco di mio fratello. Lo tiene stretto come al solito, con quel suo particolare modo – una mano sui fianchi – e ha le guance rosse per l’emozione. Spero quasi che scoppi a piangere, così da poterla prendere in giro per sempre. È una ragazza così risoluta e saccente, che sarebbe stupendo scoprire anche solo una sua piccola debolezza.

    «A Lachlan e alla futura signora McGregor», dice mia madre, alzando il bicchiere in onore della coppia felice. Prima di sbattere i bicchieri, lancia un’occhiataccia a mio padre, in piedi a un lato della stanza sul punto di scattare una foto. Ormai sono un paio di minuti che è lì così. «Su, datti una mossa Donald. Vieni qui».

    «Hai ragione», risponde, scattandoci un’ultima foto con i bicchieri alzati, e poi corre da noi. Mia madre gli passa un bicchiere e finalmente brindiamo tutti insieme.

    «Benvenuta in famiglia, Kayla», le dico in tutta sincerità. «È dal primo giorno che gli dico che deve sposarti, sai? Non posso credere che ci abbia messo così tanto a decidersi, soprattutto con una ragazza come te».

    Lo sguardo di mio fratello si oscura, serra la mascella. Credo di essere l’unica persona al mondo che può farlo incazzare senza dover provare paura. Lui è un bestione tutto barba, muscoli e tatuaggi, e recentemente è pure diventato capitano della squadra di rugby di Edimburgo. Non è un tipo a cui faresti girare le scatole, a meno che non ti chiami Brigs McGregor.

    «Brigs», mi riprende la mamma.

    «Lo so, lo so», dice Kayla affabilmente, bevendo un sorso del suo drink. «Mentirei se dicessi di non aver fatto apposta, a lasciare l’anello sul comò. Almeno ha azzeccato la misura giusta».

    «Furba la ragazza», le rispondo, battendo il calice contro il suo. All’improvviso un ricordo fugace mi assale – l’anello che avevo scelto per Miranda – ma lo mando giù insieme a tutte le bollicine. È così che ho imparato ad affrontare il mio passato – lo saluto e vado avanti.

    Avanti.

    Ieri eravamo tutti alla partita, Edimburgo contro Monaco. Ovviamente non eravamo lì soltanto per fare il tifo per Lachlan. Ci aveva detto un paio di settimane prima che avrebbe chiesto a Kayla di sposarlo durante il match, e che sarebbe stato bello avere tutta la famiglia a fianco. Così, anche se ho ripreso a insegnare la settimana scorsa, venerdì sera ho preso un volo da Londra a Edimburgo.

    Per me è stato un vero dramma riuscire a tenere la bocca chiusa, ma sono felice di averlo fatto perché la sorpresa ha reso il momento persino più magnifico, soprattutto quando Lachlan ha incasinato la parte in cui faceva la proposta. Ma è stato comunque maledettamente romantico.

    «È così emozionante», squittisce mia madre. Era da un po’ che non sentivo un suo squittio in effetti. Appoggia il bicchiere sul tavolino da caffè e batte la mani, facendo tintinnare tutti i braccialetti. «Avete già pensato a dove si terrà la cerimonia? E quando? Oh, e il vestito. Kayla, tesoro, sarai bellissima».

    Vorrei continuare a sorridere. Ma inizio a cedere.

    Va’ avanti. Va’ avanti. Va’ avanti.

    Affiorano i ricordi di mia madre e Miranda che andavano per negozi in cerca di vestiti. Quanto ci avevano messo – mesi – per trovare quello perfetto. E come Miranda lo aveva nascosto una volta tornata a casa, sistemandolo nell’armadio e proibendomi di sbirciare.

    Io mantenni la promessa. Lo feci davvero. E nel giorno del nostro matrimonio, vederla mi lasciò completamente senza fiato.

    Vorrei davvero che quel ricordo mi restasse

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