In pista!: 120 canzoni dance/disco italiane che devi assolutamente conoscere
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Anteprima del libro
In pista! - Rocco Bargioni
INTRODUZIONE
Da ormai 30 anni Andrea Bocelli riempie teatri ed arene in ogni angolo del mondo con la sua musica simil-lirica addomesticata da vibes palesemente radiofoniche (lo chiamano operatic pop
), vendendo milioni di copie e raggiungendo in generale numeri che il grosso degli artisti italiani si può giusto sognare.
Se da una parte fa sicuramente piacere vedere album cantati nella nostra lingua spopolare ovunque, anche in nazioni dove solitamente la musica non in inglese è un'entità astratta, dall'altra...come si può dire, il pop à la Bocelli è parte integrante di quella visione dell'Italia idilliaca e quasi da cartolina che all'estero spesso hanno di noi. Pizza, arte, monumenti, cantanti, gondole di Venezia. Se Bocelli fosse vissuto 100 anni fa farebbe la stessa identica musica.
E anche se una fama del genere per una piccola nazione in una società globale è senz'altro meglio averla che non averla, rischia di diventare un'arma a doppio taglio nel caso di aspettative date da una prospettiva parzialmente distorta (a chi non è mai capitato il sei italiano? Ma allora saprai cucinare benissimo!
).
Le righe che avete appena letto le ho concepite a fine 2020, quindi precedentemente alla vittoria dei Måneskin all'Eurovision Song Contest, con conseguente boom mondiale degli stessi. Solamente a bocce ferme capiremo se quest'evento è un caso isolato o meno. Per il momento però ha dimostrato al mondo che l'Italia è in grado di esportare musica non dico al passo coi tempi (non vorrei mai trovarmi qualche rocchettaro vecchia guardia incazzato sotto casa) ma che si stacca comunque perfettamente da quei cliché del souvenir d'Italie
che accennavamo prima. Certo, magari potevano evitare di chiamare una canzone Mammamia, ma un piccolo-grande cambiamento pare esserci. Ad esempio aver letto sul Guardian, nel giugno 2021, un intero articolo sul rock italiano, che segnalava ai lettori d'oltremanica l'esistenza di Verdena, Marlene Kuntz e Afterhours è stata una cosa con punte di commovenza.
Ma c'è di più. Perché in realtà l'unico vero primato della vicenda Måneskin nel mondo (e certo, non è cosa da poco) è il grande interesse che ha generato nell’opinione pubblica, il fatto che sia la prima volta che se ne parla così tanto, complice un successo assolutamente mainstream. Il successo, tuttavia, può avere mille variabili, specie per quegli artisti e quelle band che non si prestano a numeroni da classifica, e fatta tale premessa sono svariate le occasioni che l'Italia ha avuto per proporsi come Paese esportatore di musica giovane. Tanti gli artisti nostrani che si potrebbero citare. Famosi, anche all'estero, nel loro genere e tra il loro pubblico.
Ci sono gli Uzeda, che hanno suonato per le Peel Sessions, prestigioso programma della britannica BBC (a cui hanno partecipato, tra i tanti, Pink Floyd, Jimi Hendrix e Led Zeppelin), ci sono i Pankow che godono di enorme rispetto nella scena post-industriale, alla pari di band del Nord Europa dove questa musica è nata. I Libra hanno firmato un contratto per la leggendaria Motown Records, i Jennifer Gentle invece per la Sub Pop, che lanciò i Nirvana e i Soundgarden. E che dire degli innumerevoli tour americani degli Zu, o dei Lacuna Coil che sempre in America sono finiti due volte nella top 20 degli album.
Le epopee del rock progressivo anni '70 (Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso, Le Orme, ecc.) e dell'hardcore punk anni '80 (Negazione, Raw Power, ecc.) sono, per fortuna, discretamente note (mai abbastanza, mai abbastanza). Oltre al fatto che da ormai quasi un secolo abbiamo anche i mitici compositori cinematografici a farci onore nel mondo: da Ennio Morricone a Riz Ortolani, da Piero Umiliani a Nino Rota, da Dario Marianelli ad Armando Trovajoli fino a Piero Piccioni.
E poi, solo alla fine, c'è lei: la scena dance ed elettronica italiana. Sconosciuta, sottovalutata, non discussa, bistrattata. Orfana di un Paese che, salvo indimenticabili eccezioni, mai le riversa le doverose riconoscenze.
E qui ci congiungiamo alla seconda premessa obbligatoria in un libro come questo. Stavolta l'argomento riguarda esclusivamente chi in discoteca ci va, perché come se non bastasse perfino il popolo della notte italiano sembra spesso poco conscio dell'impero in cui con orgoglio sguazza.
Dobbiamo però fare un passo indietro di qualche anno: per chi non lo sapesse, nella prima metà degli anni ’10 del duemila abbiamo assistito ad un vero e proprio boom di popolarità della cosiddetta EDM, acronimo di Electronic Dance Music, termine che ha finito per indicare erroneamente la musica da discoteca più accessibile e commerciabile, molto popolare ai festival e nei club più generalisti. Questo periodo ha visto l'uscita di decine di brani iconici per il genere, dj osannati come vere e proprie rockstar e appunto festival musicali dedicati meta di pellegrinaggi a tutti gli effetti. Sono stati anni bellissimi da vivere ma, col tempo, lo star system a cui erano sottoposti i più proficui artisti dance mondiali, tra cui molti giovani diventati celebri in pochissimo tempo, ha causato loro una sovraesposizione mediatica (di cui la morte suicida del producer svedese Avicii nel 2018 è solo il caso più eclatante) destinata poi a far implodere su se stessa la EDM-mania con gli anni. Una moda come altre, vista da fuori.
Una delle caratteristiche più peculiari di quel lasso di tempo fu la connessione tra gli artisti EDM in gran parte provenienti dall'Europa e il business dei festival scenografici ed appariscenti come solo i promoter statunitensi sapevano fare. Una formula per un cocktail esplosivo: la creatività europea unita ai soldi americani.
Ad un occhio nemmeno troppo attento, però, è palese la quasi totale assenza dell'Italia in questo mega carrozzone.
Se si parla di artisti, ad esempio, la Francia ha avuto David Guetta, il Regno Unito ha avuto Calvin Harris. In Germania c'era Zedd e in Belgio Dimitri Vegas e Like Mike. La Svezia ha potuto contare su un ventaglio che andava dal già citato Avicii a nomi come Swedish House Mafia, Eric Prydz e Alesso. In Olanda vecchie e nuove glorie della console hanno creato un impero comprendente gente come Tiesto, Armin Van Buuren, Martin Garrix e Hardwell.
Nel complesso, prima che persone fisiche o artisti musicali erano vere e proprie aziende con fatturati da milioni di euro.
Tutti si facevano la stessa domanda: e l'Italia?? Dov'è il nostro dj superstar che viaggia in jet privato, viene sponsorizzato da qualche multinazionale milionaria e fa impazzire le folle ai festival? Anzi, a dirla tutta ci mancava pure un festival: un mega evento musicale che potesse attrarre gente da tutta Europa se non da tutto il mondo. Dalla Spagna alla Croazia all'Ungheria, sono realtà che hanno portato fortuna in molte nazioni del continente, anche di modeste dimensioni. Ma qui dovremmo toccare tasti come burocrazia, politica e chiusura mentale, di cui non ci occuperemo.
Sta di fatto che, diamine, quante volte l'ho sentito dire parlando di dance ed elettronica: L'Italia non conta un cazzo
.
Ma è davvero così? Risposta breve: assolutamente no. Risposta più articolata: beh, l'esistenza di questo libro. E il lavoro di chiunque abbia approfondito l'argomento prima e meglio di me.
Una spiegazione certa e puntuale per il burrascoso rapporto dello stivale con la mega industria EDM forse non c'è. Ma personalmente mi piace fare un discorso che si inserisca nell'ottica della tendenza che ha l'Italia ad essere un paese prettamente artigiano
, nonché della poca inclinazione che abbiamo quaggiù a fare le cose in grande.
Per dire: non ci sarà un Tiesto in Italia, ma abbiamo molte persone che lavorano per gente come Tiesto. Producono per lui, gli aprono i concerti, le loro tracce vengono suonate e supportate da questi big.
Nello stesso modo in cui, per esempio, non esistono molte grandi multinazionali made in Italy, ma nelle aziende a gestione familiare non ci batte nessuno.
È un ruolo comunque importantissimo, ed è normale che tanti piccoli tasselli vadano poi a formare un grande mosaico. È sufficiente pensare all'italo-disco anni ’80, o all'italo-house a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90. Sottogeneri tricolore che si sono imposti nel mondo, consacrando la nostra scena club, tramite tanti successi susseguitisi non-stop. E del resto prima dell'avvento di internet le alternative non è che fossero molte.
Per di più, come già accennavo, l'epoca d'oro della EDM ha conosciuto la sua fine ormai qualche tempo fa. Negli anni successivi l'Italia sembra essersi riscattata: sia occupando un ruolo da protagonista nella scena minimal e tech-house che ha contagiato il mondo in tempi più recenti (con festival ed artisti italiani di rilevanza internazionale) sia con importanti risultati nelle classifiche all'estero, specializzate e non.
Ad esempio hanno fatto molta notizia i Meduza, trio di dj e producer già molto affermati singolarmente, che sono finiti in classifica in buona parte del mondo nel 2019 con Piece Of Your Heart, sfiorando persino un Grammy Award per il miglior brano dance. I Meduza sono riusciti a finire per ben due volte al primo posto della classifica Hot Dance Club Play (anche chiamata Dance Club Songs) della rivista Billboard, che raccoglie i brani più ballati nelle discoteche americane, prima con Piece Of Your Heart poi con Lose Control. Un terzo brano, Born To Love, si trovava al settimo posto della chart nella settimana del 28 marzo 2020, quando a causa della crescente pandemia del Covid-19 le discoteche chiusero e la Billboard sospese la pubblicazione della Dance Club Songs fino a data da destinarsi.
Un fatto che forse non tutti sanno è che nel 2019 ben tre artisti italiani arrivarono in cima alla classifica dance americana: i Meduza appunto, coi due brani citati, ma anche i Djs From Mars (con Gam Gam) e Roberto Surace (con Joys). Una tripletta simile si era verificata solamente nel 1990, anno di consacrazione dell'italo-house negli Stati Uniti, quando appunto gli artisti tricolore 49ers (con Touch Me e Don't You Love Me), Black Box (Everybody Everybody) e Double Dee (Found Love) raggiunsero la stessa vetta in meno di dodici mesi.
Insomma, sembra che il nostro Paese sia ampiamente in grado di dire la sua quando la dance e l'elettronica sono più una questione di meritocrazia che di jet privati.
Il qui presente libro si occupa infatti di raccogliere 120 canzoni la cui storia e il cui contesto meritano una menzione, un ripasso, una fotografia. Sostanzialmente la canzone sarà quasi sempre un alibi per descrivere il momento storico e musicale in cui essa è