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L'estate di San Martino
L'estate di San Martino
L'estate di San Martino
E-book280 pagine4 ore

L'estate di San Martino

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Info su questo ebook

Francia, 1610 circa. Martin Marie Rigobert de Garnache vive un'esistenza boriosa nel placido Delfinato. Scorbutico, misogino e di mezza età, è comunque fedelmente al servizio della regina reggente Maria de' Medici. Ed è proprio su richiesta della sovrana che lui, messe da parte le proprie riserve, accetta di avventurarsi in un'impresa che lo porterà a salvare una povera fanciulla da un'ingiusta prigionia, così da portarla alla corte reale e affidarla alla protezione della regina. Pubblicato nel 1909 – in inglese, come tutto il resto della produzione letteraria di Rafael Sabatini – "L'estate di San Martino" è un romanzo storico nel più tipico stile dell'autore di "Scaramouche": intriso di ironia, sorretto da un intreccio articolatissimo e divertente, ma, soprattutto, scritto con una prosa brillante, arguta e sempre piacevole. -
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2023
ISBN9788728514948
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    L'estate di San Martino - Rafael Sabatini

    Rafael Sabatini

    L’estate di San Martino

    Traduzione dall’inglese di Alfredo Pitta

    SAGA Egmont

    L’estate di San Martino

    Translated by Alfredo Pitta

    Original title: St. Martin’s Summer

    Original language: English

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1933, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728514948

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    L’ESTATE DI SAN MARTINO

    I.

    Il Siniscalco del Delfinato.

    Il signor Conte di Tressan, Siniscalco di Sua Maestà nel Delfinato, se ne stava seduto alla sua tavola da lavoro, col panciotto porporino sbottonato per dare maggiore libertà al vasto addome. Sotto il panciotto si scorgeva un altro indumento di seta gialla, così come si vedrebbe la polpa di un frutto maturo uscire dalla buccia che ha fatto rompere.

    La parrucca, imposta al Conte dalla necessità se non dalla moda, era sulla tavola, fra le carte polverose che confusamente vi si accumulavano; e la testa calva, così calva che si sarebbe creduto avere il suo proprietario commesso un atto indelicato a scoprirla e che quasi faceva nausea, riposava sulla spalliera del gran seggiolone di cuoio, nascondendo così lo sfarzoso stemma impressovi. Il Siniscalco, inoltre, aveva gli occhi chiusi, la bocca aperta; e dalla bocca, o dal naso rotondo e rosso come una ciliegia matura, o forse da entrambi insieme, veniva un sonoro russare, che proclamava come il signor Siniscalco del Delfinato lavorasse alacremente agli affari di Sua Maestà in quella provincia.

    Poco lontano da lui, seduto a una tavola più meschina, situata fra due finestre, era un pallido e sparuto segretario, il quale, per guadagnare lo scarso pane quotidiano, compieva quel lavoro che al signor Siniscalco veniva compensato con emolumenti sproporzionatamente grassi.

    Il silenzio nella vasta stanza era interrotto soltanto dal sonoro russare del Conte di Tressan, dallo scricchiolare della penna d’oca che il segretario faceva alacremente scorrere sulla pergamena, e di tanto in tanto dal crepitare di qualcuno dei tronchi ammassati nell’enorme camino, così vasto che dava dapprima l’impressione di una misteriosa caverna.

    Ma improvvisamente a quei suoni un altro se ne aggiunse. Con un tintinnìo di anelli metallici le pesanti tende di velluto azzurro che celavano l’uscio d’ingresso alla sala, cosparse di fiordalisi d’argento, furono scostate, e apparve Anselmo, il maggiordomo del signor Conte, chiuso in un vestito nero aderente sul quale spiccava la catena d’argento simbolo del suo ufficio. Egli fece qualche passo avanti con solennità, poi ristette.

    Il segretario lasciò cadere la penna e gettò uno sguardo sul padrone che dormiva; poi alzò le mani al disopra del capo e le agitò disperatamente, facendo cenno al nuovo venuto.

    — Sst! — mormorò tragicamente. — Fate piano, signor Anselmo.

    Anselmo si fermò. Comprendeva la gravità della situazione. Il suo atteggiamento perdette un po’ della sua dignità, e il suo volto subì un cambiamento; poi come se recuperasse una parte della risolutezza di prima:

    — Nondimeno, bisognerà che si svegli — disse, ma sottovoce e con aria impaurita, come se stesse per fare qualche cosa d’illecito.

    L’orrore aumentò negli occhi del segretario, ma Anselmo non se ne diede per inteso. Egli sapeva per esperienza che era cosa molto grave turbare il pisolino che soleva far dopo i pasti il Siniscalco del Delfinato; ma sarebbe stato anche più grave disobbedire alla signora dagli occhi neri che aspettava al di fuori, e che aveva chiesto di essere ricevuta.

    Anselmo ebbe la sensazione di trovarsi tra l’uscio e il muro. Egli era però un uomo risoluto, qualità derivatagli da una certa indolenza e che era alimentata dalla grassa vita che faceva, come maggiordomo, in casa Tressan. Egli si toccò pensoso la punta del pizzo rosso, gonfiò le gote, e levò gli occhi al soffitto, come se chiamasse il Cielo a testimone di ciò che faceva.

    — Nondimeno, bisogna che si svegli — ripetè.

    Allora fu il destino che gli venne in aiuto. In qualche posto della casa un uscio sbattè come un colpo di cannone. La fronte del segretario si cosparse di sudore, ed egli fece un salto indietro sulla sedia, credendosi perduto. Anselmo sobbalzò a sua volta, e si morse la nocca dell’indice, come se avesse pronunziata una bestemmia senza articolarla.

    Il signor Siniscalco fece un movimento, e il suo russare, culminando un momento in un vero grugnito, cessò a un tratto. Le palpebre gli si sollevarono come quelle di un gufo, mettendo in mostra occhietti di un azzurro pallido, i quali guardarono prima il soffitto, indi si fissarono su Anselmo. Poi egli si sollevò in un momento, sbuffando e gualcendo le carte con le mani.

    — Per mille diavoli, Anselmo, perchè mi hai disturbato? — borbottò, quasi lamentandosi e ancora mezzo addormentato. — Che diamine vuoi? Non pensi agli affari di Sua Maestà? Babila — aggiunse poi rivolto al segretario — non avevo forse detto che non mi s’interrompesse, perchè avevo molto da fare?

    Il Conte aveva una grande vanità, nella vita: non faceva nulla, e aveva l’aria di esser l’uomo più occupato di Francia. Non c’era pubblico, fosse anche composto dai propri domestici, davanti al quale non si compiacesse di recitare quella parte.

    — Signor Conte — disse Anselmo, cercando di farsi più piccolo che potè, — non mi sarei permesso mai di disturbare Vostra Eccellenza; ma si tratta di cosa urgentissima. Vi è giù la signora Marchesa di Condillac, la quale chiede di vedere all’istante Vostra Eccellenza.

    In quell’istante avvenne un cambiamento, e cioè Tressan si svegliò sul serio. Il primo movimento che fece fu di passarsi la mano sul cranio lucido e pelato, mentre con l’altra cercava la parrucca; poi egli si sollevò con sussiego sulla sedia. Si mise la parrucca in testa, e per la fretta la collocò male, poi si avvicinò ad Anselmo, mentre con le grasse dita cercava di abbottonarsi il panciotto.

    — La signora Marchesa è qui? — esclamò. — Abbottonami presto, briccone! Presto! Come potrei ricevere una signora in questo stato? Babila — ordinò poi interrompendosi e voltandosi, mentre Anselmo cercava di fare ciò che gli era stato ordinato: — Presto, uno specchio!

    Il segretario si allontanò in un baleno, e in un baleno ritornò, mentre Anselmo continuava ancora la toeletta del padrone. Ma il signor di Tressan aveva dovuto svegliarsi di cattivo umore, perchè appena Anselmo gli ebbe abbottonato il panciotto egli lo sbottonò ancora, imprecando contro il maggiordomo.

    — Cane che sei, Anselmo! Ma non hai proprio nessun criterio? Dovrò forse presentarmi vestito alla moda di mezzo secolo fa innanzi alla signora Marchesa? Togli via, via!… Dammi la marsina che ho ricevuta da Parigi un mese fa, quella gialla con le maniche a sbuffi e coi bottoni d’oro, e dammi anche la sciarpa, quella cremisi, mandata da Tallemant. Vuoi muoverti, animale? Sei ancora qui?

    Anselmo, così apostrofato, divenne agile nei movimenti tanto da somigliare a un’anitra che corre grottescamente. Insieme col segretario, egli aiutò il padrone a vestirsi, finchè questi apparve splendido come un uccello del paradiso, dai colori sgargianti, quantunque mancasse l’armonia delle tinte e l’eleganza della linea.

    Babila aveva portato lo specchio, mentre Anselmo raggiustava la parrucca del padrone; intanto Tressan stesso s’arricciava i baffi neri, i quali avevano quel misterioso colore senza che alcuno ne sapesse la ragione, e si pettinò la barbetta che germogliava sotto uno dei suoi vari menti.

    Egli si guardò un’ultima volta nello specchio, abbozzò un sorriso, e ordinò ad Anselmo d’introdurre la visitatrice. Disse al segretario che se n’andasse al diavolo, ma, pensandoci meglio, lo richiamò nell’atto che quegli si avviava verso la porta.

    — Aspetta — disse. — C’è una lettera da scrivere. Gli affari di Sua Maestà non debbono subire ritardi, nemmeno per tutte le dame di Francia. Siediti.

    Babila obbedì, mentre Tressan volgeva le spalle alla porta aperta. Le sue orecchie, intente e in ascolto, avevano percepito il fruscìo di una gonna. Tossì e incominciò a dettare:

    — A Sua Maestà la Regina Reggente… — Poi tacque, rimase con la fronte corrugata in atteggiamento pensoso, e ripetè: « A Sua Maestà la Regina Reggente». Hai scritto?

    — Sì, signor Conte: «A Sua Maestà la Regina Reggente ».

    Si udì allora un passo leggero, a cui seguì un colpetto di tosse alle spalle del Siniscalco.

    — Signor di Tressan! — chiamò una voce di donna dolce e melodiosa, per quanto il tono fosse piuttosto arrogante.

    Egli si voltò subito, fece un passo avanti e s’inchinò.

    — Servitor vostro umilissimo, Marchesa — disse, ponendosi una mano sul cuore. — Questo è un onore che io…

    — Che vi è conferito dalla necessità. Mandate via quest’uomo — interruppe ella con accento imperioso.

    Il segretario, timido e pallido in volto, s’era alzato in piedi, con gli occhi dilatati. Egli prevedeva che quelle parole, rivolte a un uomo che era il terrore della casa e di tutta Grenoble, provocassero una catastrofe. La mansuetudine del Siniscalco, invece, gli fece mancare il respiro per la sorpresa.

    — È il mio segretario, Madame — rispondeva il Conte. — Stavamo lavorando quando siete venuta. Gli dettavo una lettera per Sua Maestà la Regina. La carica di Siniscalco, specialmente nel Delfinato, è tutt’altro che una sinecura. — Sospirò, come se avesse il cervello affaticato, e riprese: — V’è appena il tempo di mangiare e dormire.

    — Avreste quindi bisogno di un po’ di riposo — ribattè ella con fredda insolenza. — Prendetevene un pochino, e lasciate da parte gli affari del Re per darmi ascolto mezz’ora.

    L’orrore del segretario non fece che aumentare. Certamente l’uragano avrebbe finito per scoppiare sul capo di quella donna tanto audace; ma il Siniscalco, abitualmente orgoglioso e arrogante, non rispose che con un altro assurdo inchino.

    — Voi non fate, Madame, che precorrere ciò che stavo per dire. Vattene, Babila. — E agitando la mano fece cenno allo scriba di prender la via della porta. — Porta quelle carte nel mio gabinetto. Riprenderemo la lettera a Sua Maestà dopo che la signora Marchesa sarà andata via.

    Prevedendo imminente la fine del mondo, il segretario si allontanò, dopo aver preso carte, penna e calamaio.

    Dopo che l’uscio si fu chiuso, il Siniscalco, con un altro inchino e con un sorriso di circostanza, porse una sedia alla visitatrice. Ella guardò la sedia, poi l’uomo e volgendo lo sguardo altrove si avvicinò al camino. Si fermò dinanzi alla fiamma, con lo scudiscio sotto il braccio, mentre si toglieva i guanti da amazzone. Era una donna alta, ben proporzionata, e di suprema bellezza, benchè non fosse più nella primavera della vita.

    Nella luce tenue di quel pomeriggio d’ottobre non le si sarebbero dati più di trent’anni, mentre alla luce piena del sole sarebbe apparsa meno giovane; ma la verità vera non si sarebbe scoperta sotto nessuna luce. Ella aveva quarantadue anni, il volto pallido, di un pallore eburneo che contrastava coi capelli nerissimi. All’ombra delle palpebre sottili erano due grandi occhi neri e insolenti, che facevano un bel contrasto con le labbra scarlatte; il naso era sottile e diritto, perfetto il collo eburneo sulle spalle bellissime.

    Ella indossava un abito da amazzone, di velluto color zaffiro, chiuso alla vita da una fibbia dorata, mentre il collo era circondato da lino finissimo, che ornava la scollatura quadrata la quale aveva già cominciato a sostituire in Francia i collaretti alla spagnuola. Aveva in testa, su un berretto di lino, una guarnizione spessa di castoro grigio, circondata da una benda azzurra e oro.

    Con un piede sul gradino del camino e col gomito appoggiato alla mensola, ella continuava a togliersi i guanti; mentre il Siniscalco, allisciandosi la barbetta, la osservava con aria furtiva e di ammirazione.

    — Non sapete, Marchesa, con quale gioia, con quale… — cominciava egli.

    — Me l’immagino, qualunque essa possa essere — interruppe la dama con quella brusca arroganza che era una delle caratteristiche del suo atteggiamento. — Non è questo il momento d’infiorare le parole di retorica. Vi sono delle noie in vista, Conte, e gravi per giunta.

    Gli occhi del Siniscalco si aprirono smisuratamente, mentre egli inarcava le sopracciglia.

    — Delle noie? — domandò. Poi, pronunziate quelle parole, restò a bocca aperta.

    Ella rise indolentemente, le labbra increspate, fredda in volto, mentre si rimetteva il guanto che s’era tolto.

    — Il vostro viso mi dice che mi comprendete — soggiunse sogghignando. — Le noie riflettono Mademoiselle de La Vauvraye.

    — Da Parigi?… Dalla Corte?… — domandò egli con voce rauca.

    Ella fece un cenno affermativo.

    — Oggi siete proprio un miracolo d’intuizione, Tressan.

    Il Conte si mise in bocca la punta della barba, cosa che faceva nei momenti di preoccupazione e di perplessità, e rimase pensoso.

    — Ah!… — esclamò alla fine; e quell’esclamazione parve in lui segno della maggiore preoccupazione. — Ditemi qualche cosa di più, Madame!

    — E che debbo dirvi di più? Vi ho detto in sunto di che si tratta.

    — Ma di qual natura sono queste noie? Di che cosa si tratta, e da chi ne avete avuto avviso?

    — Sono stata avvertita da un amico di Parigi, e il suo messaggero ha fatto bene la commissione affidatagli; d’altra parte il signor di Garnache era giunto prima di lui.

    — Garnache? — domandò il Conte. — E chi è questo Garnache?

    — L’emissario della Regina Reggente. Egli è stato mandato qui da lei perchè Mademoiselle de La Vauvraye abbia piena giustizia e sia liberata.

    — Ah! Vi avevo pure avvertita. Madame, come la cosa sarebbe andata a finire! — esclamò egli torcendosi le mani. — V’avevo detto che…

    — Mi ricordo benissimo di ciò che mi diceste — tagliò corto la Marchesa con un tono di sprezzo nella voce. — Risparmiatevi dunque di ripetermelo. Ciò che è fatto è fatto, e io non vorrei… che non fosse avvenuto. Che ci sia o no la Regina Reggente, io sono padrona a Condillac; la mia parola è la sola legge che ivi si conosca, e intendo che le cose continuino così.

    Tressan la guardò sorpreso. Quell’irragionevole ostinazione femminile lo colpì al punto che egli giunse fino all’ironia.

    — Avete perfettamente ragione — disse aprendo le braccia e inchinandosi. — E allora, perchè parlate di noie?

    Ella battè con dispetto la frusta contro la gonna, mentre fissava il fuoco, e rispose lentamente:

    — Perchè le noie verranno appunto dal mio atteggiamento.

    Il Siniscalco si strinse nelle spalle e si avvicinò a lei. Pensava in quel momento che avrebbe potuto risparmiarsi il fastidio d’indossare i begli indumenti ricevuti da Parigi. Quella donna avrebbe guardato poco all’eleganza. Gli passava anche per la mente quali sarebbero le sue noie personali, in quel frangente. Fino a quel momento si era trovato nel Delfinato come su di un letto di rose, ma ora temeva che al posto delle rose avrebbe trovato le spine.

    — E com’è venuta la cosa all’orecchio della Regina? — domandò poi.

    La Marchesa si volse a un tratto.

    — Quella ragazza ha trovato un cane di traditore che ha portato a destinazione una sua lettera. Ciò è bastato. Se il caso me lo metterà ancora fra i piedi, quell’uomo, giuro a Dio che lo farò impiccare senza giudizio.

    Poi la Marchesa mise la collera da parte e abbandonò pure l’aria d’insolenza che aveva avuta fino a quel momento; assunse invece un atteggiamento supplichevole, guardando il Siniscalco coi begli occhi languidi.

    — Tressan — disse con voce alterata — sono circondata di nemici; ma voi non m’abbandonerete, vero? Mi starete accanto sino alla fine, voi, che mi siete amico? Posso contare su voi?

    — Incondizionatamente, Madame — rispose egli sotto il fascino di quello sguardo. — Che forza avrà condotta con sè questo Garnache? Ve ne siete accertata?

    — Non ne ha alcuna — rispose ella con uno sguardo trionfante.

    — Nessuna? — ripetè Tressan inorridito. — Nessuna? Ma allora… allora…

    Levò le mani al cielo, mentre la dama lo guardava sorpresa.

    — Diamine! Ma che avete? Avrei potuto recarvi una notizia migliore?

    — Non so se avreste mai potuto darmene una peggiore — mormorò egli. Poi, come colpito a un tratto da una subitanea speranza che balenò nella terrificante tenebra del suo cervello, egli levò lo sguardo verso la dama. — Vorreste resistergli? — domandò.

    Ella lo guardò un momento, poi rise sgarbatamente, con disprezzo:

    — Mi domandate se ho l’intenzione di resistergli, io, che sono nel più forte castello del Delfinato? Per il cielo, Tressan! Se volete che vi risponda, tuttavia, vi dirò che nè lui nè tutti gli eserciti che potrà mandar la Regina, potranno aver un risultato efficace fintanto che resterà in piedi una sola pietra di Condillac.

    Il Siniscalco soffiò tra le labbra socchiuse, e ricominciò a mordersi la barba.

    — Che avete voluto significare quando m’avete detto che non avrei potuto portarvi una notizia peggiore? — domandò poi improvvisamente la Marchesa.

    — Madame, volevo dire questo: se colui viene qui senza soldati, e se voi resisterete agli ordini di cui egli sarà latore, che credete che avverrà?

    — Che avverrà? Egli domanderà aiuto a voi, per avere degli uomini allo scopo di smantellare il mio castello — rispose ella con calma.

    — Credete? — domandò Tressan incredulo, e fissandola in volto.

    — Lo comprenderebbe anche ùn bambino, diamine!

    Quell’indifferenza fu come un soffio di vento sulle ceneri calde della paura di Tressan. Egli fece qualche passo verso la dama, con le guance imporporate, agitando in larghi gesti le braccia.

    — E io, Madame? — esclamò. — Che ne sarebbe di me? Dovrei rovinarmi, o andare in prigione, per avergli rifiutato aiuto? È questo il vostro pensiero? Dovrei forse mettermi fuori della legge? E dovrei, io, che sono Siniscalco del Delfinato da quindici anni, compromettermi e degradarmi per i progetti matrimoniali di una scioccherella? Dio mio! — ruggì poi. — Credo che siate impazzita, per questa faccenda! Non vorrete, spero, mettere la provincia in fiamme perchè abbiate a vincerla su quella ragazza! Ventregris! Rovinarmi così per… per… per…

    Tacque, non trovando più le parole, brancolò e balbettò, poi mettendosi le mani sulla pancia, cominciò a passeggiare per la stanza.

    Madame de Condillac l’osservava con volto impassibile e con lo sguardo freddo; si sarebbe detta una quercia secolare che sfidi impavida la bufera. Poco dopo si allontanò dal camino, e battendosi leggermente la gonna con lo scudiscio si avvicinò all’uscio.

    — Arrivederci, signor di Tressan — disse con una certa freddezza, voltandogli le spalle.

    Egli smise di passeggiare su e giù e alzò la testa. La collera gli passò, come una candela estinta da un colpo di vento, mentre una nuova paura gli turbava ora il cuore.

    — Madame! Madame! — esclamò. — Ascoltatemi.

    Ella si volse a metà, guardandolo al di sopra della spalla, col disprezzo nello sguardo e con l’ironia sulle labbra scarlatte, insolente in tutto il suo atteggiamento.

    — Credo, monsieur, di avervi ascoltato più di quanto avrei dovuto — disse. — Credevo di avere in voi un amico sul quale avrei potuto contare, ma mi accorgo che lo siete soltanto a parole…

    — Non mi parlate così, Madame! — supplicò egli con voce stridula. — Vi servirò invece come nessuno al mondo potrebbe servirvi; e voi lo sapete.

    La Marchesa si volse, alla fine, e gli si pose di fronte, col sorriso sulle labbra, come se si divertisse.

    — È facile protestare; è anche facile dire: « Sono pronto a morire per voi », finchè il sacrificio è cosa remota. Ma basta che io vi domandi un favore per sentirmi rispondere: « E il mio nome, Madame? E il mio posto di Siniscalco? Che debba io farmi impiccare o mettere in prigione per voi?» — Baie! — concluse poi ella scrollando la bella testa. — Il mondo è pieno di gente come voi; e io, ahimè, per una fallace intuizione di donna, v’avevo creduto diverso dagli altri.

    Quelle parole erano pungenti pel Conte, come se una spada di fuoco gli penetrasse nella carne. Lo torturavano. Egli aveva l’aria di parere agli occhi di quella dama uno spregevole codardo, uno di quegli uomini che ciarlano molto in tempo di pace, ma che si nascondono al minimo segnale di pericolo. Si sentiva l’essere più abbietto della terra, mentre ella aveva avuta un’opinione tanto buona di lui. Quella donna lo aveva, prima, in grande stima, ma ora egli era caduto dal suo piedestallo. La vergogna e la vanità combattevano una lotta veemente nell’essere suo.

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