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Le impronte dell'angelo
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Le impronte dell'angelo
E-book668 pagine10 ore

Le impronte dell'angelo

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Info su questo ebook

Un romanzo storico che racconta un medioevo insolito, visto da sud, quando i Romani parlavano greco e nelle chiese si veneravano donne immaginarie dai nomi evocativi, come Sofia (la Sapienza) o Irene (la Pace).

Su quest'epoca remota si insinua inaspettato un raggio di luce: un antico copista ebreo, un manoscritto, un tramonto di fine estate osservato dalla torre dei sette venti e quattro cortigiani di Federico II - un poeta, un cavaliere, un matematico e un astrologo - aprono il sipario su un cammino a ritroso lungo un intero secolo, l'undicesimo dell'era cristiana.

Non si tratta tuttavia di anonimi cortigiani di curia, ma dei più importanti consiglieri dell'imperatore: l'astrologo è Michele Scoto, il poeta è Jacopo da Lentini, il cavaliere è Ermanno da Salza e il matematico è Leonardo Fibonacci.

La lettura del manoscritto da parte dei quattro si dipana così per un'intera notte, al traballare incerto di una lampada a olio scossa ogni tanto da qualche rara e leggera folata di brezza, che si incunea nella piccola finestra occidentale rompendo la ferma aria estiva.

Il racconto si snoda a ritroso per cento anni, mentre l'impero romano lascia per sempre le sponde italiane sospinto in mare da un manipolo di banditi scandinavi guidati dai tre fratelli Altavilla.

Sopraggiunge più avanti un quarto fratello, il più scaltro di tutti, che stringe alleanze con papi, incendia città e insidia imperatori fino a porre le basi per il più importante e longevo stato unitario moderno della penisola, che

sopravviverà fino all'Unità d'Italia.

Dalla loro discendenza nasceranno eroi delle crociate come Boemondo d'Antiochia e imperatori affascinanti come Federico II.

La storia segue in punta di piedi un sottile "fil rouge" esoterico attorno alla figura dell'Arcangelo guerriero Mi-Ka-El (colui come Dio), sacro a oriente e a settentrione, sul cui sfondo scorrono i volti di personaggi storici suggestivi realmente esistiti nei luoghi e tempi della narrazione, come il papa "mago" Gerberto, il filosofo Michele Psello, il grande riformatore Ildebrando da Soana o il costruttore di cattedrali Guglielmo da Volpiano.

La trama è cadenzata dal ritmo di dialoghi che spaziano dal destino dell'uomo alla verità della religione, dal senso della conquista alla ricetta della mozzarella di bufala aversana.

Frutto di alcuni anni di ricerche storiche, documentali e filologiche sul linguaggio, i costumi, le etimologie e perfino le unità metriche dell'alto medioevo, questo romanzo è dedicato a chi vuole davvero immergersi completamente in un'epoca lontana e affascinante, accompagnati dalla suspence di un vero giallo.
LinguaItaliano
Data di uscita6 lug 2012
ISBN9788867550135
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    Anteprima del libro

    Le impronte dell'angelo - Alessandro Panico

    Alessandro Panico

    Le impronte dell’angelo

    Romanzo

    © 2012

    Il Tempo, nel suo scorrere perpetuo e irresistibile, trascina via con sé tutte le cose create e le sprofonda negli abissi dell’oscurità, siano esse azioni di nessun conto o, al contrario, azioni degne di essere celebrate.

    Esso, come dice il poeta porta alla luce ciò che era nascosto e avvolge nell’oscurità ciò che è manifesto.

    Ma il racconto è un valido argine contro il fluire del tempo, in certo modo costituisce un ostacolo al suo flusso irresistibile e, afferrando con una salda presa quante più cose galleggiano sulla sua superficie, impedisce che scivolino via e si perdano nell’abisso dell’oblio.

    Alessiade - Proemio

    Anna Comnena

    1083 - 1153


    PROLOGO

    Castello di Melfi. 31 agosto 1231. Vespri.

    È il tramonto di una calda giornata di fine estate. Mentre il giorno s’immerge oltre il baluardo naturale delle colline, gli ultimi riflessi arancio penetrano nella torre dei sette venti attraverso il piccolo squarcio della finestra occidentale. Incorniciata dall’arco di pietra grigia, l’imponente figura di Michael Scot proietta una lunga ombra verso l’interno della piccola sala disadorna, tingendo di viola un tavolaccio ottagonale impreziosito da quattro calici d’argento e una scacchiera. Su di essa, pezzi d’avorio e vetro di trasparente amaranto sono sfiorati dalle dita incerte di Hermann Von Salza, concentrato a valutare la prossima mossa. In un angolo in disparte, una cassapanca d’antica quercia sorregge un candido manto di lino ben ripiegato.

    «Ci siamo, Hermann. Ecco finalmente messere Leonardo che spunta dall’orizzonte delle serre. Disperavo ormai che giungesse a castello prima dei vespri.»

    «L’intrico di squadri, grome, quadranti e baculi che il nostro matematico ha trascinato con sé avrà rallentato il suo cammino. Tutto quell’armamentario peserà almeno quanto un intero raccolto di quattro tomoli di grano.»

    «Non credo che sia questa la causa del suo ritardo. Da ciò che vedo, lo accompagnano un palafreniere, due servi, due militi e quattro muli: un ausilio adeguato per trasportare un po’ di carte e strumenti d’agrimensura. Dev’esserci dell’altro.»

    «Forse avete ragione. Si tratta di un fine algebrista, quindi avrà saputo calcolare bene il suo fardello. Non come certi funzionari del giustiziere, che sul campo misurano la colletta fino alla colma, per il buon peso del signore, ma poi nei granai riversano la misura al raso.»

    «Avete la lingua tagliente come una spada, Ermanno, ma vi conviene serbarla per il giustiziere, visto che sta per raggiungerci. Tornando a messere Leonardo, credo che un grande intrico ce l’abbia soprattutto in testa, almeno a giudicare dal suo incedere così pensieroso.»

    «Pazientate Michael, tra un po’ sentiremo. Intanto, v’informo che il mio cavallo ha appena abbattuto il vostro vescovo.»

    Ancora per qualche istante Scot segue il percorso della piccola carovana mentre discende il versante interno della collina, si lascia alle spalle le misere tintorie della giudecca di San Pietro e comincia a inerpicarsi lungo un sentiero che, attraverso un ponticello sulla fiumara, conduce verso la porta Troiana e quindi a castello. Poi si volta e si avvicina lentamente al tavolo, volgendo lo sguardo alle sessantaquattro caselle della scacchiera. I lineamenti del suo volto, illuminati dai raggi obliqui del sole, raccontano la solenne fierezza di un guerriero celtico più che l’espressione gentile di un uomo di studi. Il piglio da cavaliere boreale è confermato da una folta barba rossiccia, ostinatamente esibita nonostante la recente moda dei visi tonsi, e da un dragone bluastro dipinto sul dorso della mano destra che si protende in un rapido movimento dei pezzi in gioco.

    «Arrocco! Vedete, Hermann, non ho ancora capito se questo pisano possieda davvero le superbe virtù logiche che l’imperatore gli riconosce, a parte aver saputo risolvere quell’indovinello sulla riproduzione dei conigli, qualche anno fa.»

    «Tra i vizi capitali eccellete nell’invidia, sir Michael. Io invece sono convinto che le virtù di Leonardo sopravanzino di molto quelle che l’imperatore riconosce a un selvatico druido, scoto e ciarlatano quale voi siete, anche se vi atteggiate ad astrologo indovino. Comunque, sono davvero curioso di incontrare questo matematico. Regina muove e scacco.»

    Senza distogliere lo sguardo dal gioco Scot si siede, distende il braccio verso uno dei calici, lo avvicina alle labbra e sorseggia lentamente il vino rosso che contiene. Poi lo depone nuovamente sul tavolo e, facendo scivolare il cavallo d’avorio contro la regina di cristallo, s’illumina d’un sorriso beffardo.

    «Servito. Sarebbe indubbiamente un giudizio degno di considerazione il vostro, se non provenisse da un vecchio barbaro franco, cresciuto in un’oscura valle alemana al cui confronto i miei verdi colli di Scozia sembrano i gioghi del Parnaso.»

    «Dite bene, ma tralasciate di ricordare che la mia vallata selvaggia dista solo poche miglia da quella di Hohenstaufen. Chissà cosa ne penserebbe Friedrich di queste vostre idee sulla civiltà dei Franchi.»

    «Sarebbe d’accordo con me, non v’è dubbio: l’imperatore non ha mai nascosto la sua avversione per le remote lande alemane. Quanto a voi invece, da quando vi ha incaricato di convertire la Prussia a Cristo siete diventato ancora più barbaro.»

    «Non divagate, ormai siete con le spalle al muro Michael: torre muove e scacco matto! Anche stavolta il vostro oracolo vi ha tradito. Sono qui da tre giorni e vi ho già battuto tre volte.»

    «Mi dà piacere farvi divertire, Hermann. Evidentemente questo soggiorno presso la Magna Curia sta rendendo più gentile il vostro duro contegno marziale, per il quale siete tristemente noto. D’altronde, il compito che ci attende richiede calma e serenità.»

    «Riconosco che qui mi trovo a perfetto agio, in compagnia dei miei migliori amici. Ricordate tuttavia che ufficialmente sono a castello solamente per assistere alla promulgazione del Liber Augustalis

    «Non dubitate, nessuno si stupirà della vostra presenza a corte. Tutti sanno che siete il consigliere più fidato dell’imperatore Federico.»

    Questo giocoso incrociar di spade è interrotto in quell’istante da un tintinnio di ferraglia, accompagnato dall’eco di numerosi passi e da un intenso vociare, che annunciano l’ingresso in sala di Riccardo da Montenero. Il giustiziere irrompe trafelato, seguìto da un anziano ospite, da un sarto e da due servi carichi di ceste da soma piene di strumenti metrici e rotoli di carte. Dopo avere deposto il bagaglio in terra i due famigli, indietreggiando e porgendo un deferente saluto alle persone presenti in sala, escono velocemente come sono entrati.

    Riccardo indossa con poca grazia una lunga tunica di foggia saracena con maniche svasate e orlate di greche d’oro, che ricopre una camicia di lino e braghe di tessuto scuro. La casacca è stretta in vita da una cintura di pelle, impreziosita con una ricca fibula che il sarto tenta invano di fissargli, mentre questi si dimena tra i drappeggi incalzando di domande il suo ospite.

    «Dunque si tratta di buone nuove, messere Leonardo. Potete essere più preciso?»

    «Come vi accennavo», risponde tutto d’un fiato il nuovo arrivato «ictu oculi il colle presso la badia di Santa Maria del Monte è perfettamente idoneo alla costruzione del novo castro e appare isolato nella piana.»

    «Ottimo: sarà anche ben soleggiato, dunque.»

    «Da laudi a vespro. In verità fin troppo di questa stagione» aggiunge Leonardo dopo aver deglutito, mentre si asciuga il grigio sudore che copiosamente gli sgorga dalla fronte impolverata. «Dalla sua cima lo sguardo s’orizzonta a tutti i venti, senza ostacoli fino quasi al mare.»

    «Bene. Occorrerà informare subito l’imperatore.»

    «Lo farete adesso, mastro giustiziere?»

    «No, ormai è tardi: lo farò domattina, al suo risveglio. A quest’ora Federico è già a riposo nei suoi appartamenti.»

    «Così presto?»

    «Come vi ho detto, è rientrato stamane da una lunga battuta di caccia nei boschi del Lacus Pensilis e ha subito chiesto di voi. Non potendo incontrarvi, ha mutato argomenti e ha deciso di tenere concilio fino a tardi con i notari Jacopo de Lentino e Piero delle Vigne, sulle ultime questioni per la lettura di domattina. Ma torniamo alle vostre ricerche: come intendete procedere?»

    Leonardo da Pisa è ormai tutt’uno con la sua fradicia camicia di lino bianco, dai lacci slabbrati sul torace e risvoltata su braghe di tela di colore indefinibile. I radi capelli bianchi, le rughe accentuate, il respiro corto e l’andatura malferma tradiscono la fatica dello studioso da scriptorium, che ha superato ormai i sessant’anni e non è avvezzo a svolgere estenuanti operazioni d’agrimensura sul campo. Il suo viso è un misto di rossore, sudore, polvere ed eccitazione.

    «Vorrei tornare presto in loco, per tracciare i primi allineamenti secondo i disegni dell’augusto imperatore. Come vi dicevo...»

    «Messere Leonardo, alla buon’ora!» irrompe a quel punto Michel Scot rivolgendosi al nuovo arrivato. «V’aspettavamo stamane: ma vedo che siete alquanto incline a indugiare. Non vorrete confezionare voi stesso la tunica del mastro giustiziere per la solenne lettura di domani? Perdonatelo, messere Riccardo: costui è di costume poco gentile, ma è pur sempre un eccellente algebrista, come direbbero gli Arabi. Del resto, bonae mentis soror est paupertas, per cui sarà il caso di rivestirlo in una maniera che si conviene, sempre che il tutto avvenga entro la fine di quest’anno, ossia entro domattina, giorno d’indizione. A tal proposito, se vi aggrada, insieme al qui presente messere Da Salza mi caricherò volentieri del compito di dare a mastro Leonardo delle sembianze decenti e, al contempo, di levarvelo da torno almeno per questa sera.»

    «Sarà bene il caso», ammicca il giustiziere. «Da un po’ di tempo mi pare infatti di non essere più il maestro della giustizia, ma un dottore d’abaco o addirittura un capo sarto. A proposito: è ora che mi ritiri, in modo che almeno io riesca ad assumere entro domattina le sembianze decenti che voi auspicate. Vi auguro una serena notte.»

    Subito dopo quello scambio di battute Riccardo esce dalla sala canticchiando versi amorosi, seguìto immediatamente dal sarto.

    Appena la porta si richiude, Michael si avvicina al tavolo e preleva dalla scacchiera la regina di cristallo scuro, sollevandola per ammirarne la fine lavorazione in controluce agli ultimi raggi di sole, con l’orecchio teso verso i passi che lentamente scemano lungo la scala. Poi, con lo sguardo sempre fisso sul prezioso manufatto, si disegna sul volto lo stesso sorriso servito poco prima al Von Salza.

    «‘Concilio con notar Piero e notar Jacopo’. Siccome da ieri vedo circolare per il castello una balia che tenta d’acquietare una biondina in fasce, la quale a me pare essere la piccola Costanza, deduco che l’imperatore stia tenendo concilio nell’alcova, e con ben altra compagnia. Lì, dopo compieta, la calura che emana la sua pelle dopo un intero giorno di caccia sarà diradata dal soffio fresco e leggiero di donna Bianca Lanza. Quanto a voi, caro Leonardo, perdonate il motteggio tipico di noi Scoti, ma m’era parso il momento di condurre rapidamente a termine questa vostra discussione col giustiziere. Come avrete intuito, sia io che il nostro illustre ospite siamo impazienti di conoscere gli esiti reali delle vostre ricerche, prima di riferirli domattina all’imperatore. Noto tuttavia che la vostra eloquenza non fa il paio col rigore delle vostre doti di magister abaci nel misurare il tempo. A proposito, vogliate gradire che v'introduca al cavaliere ser Hermanno da Salza, della nobile casa di Turingia, gran mastro d’Ordine dei Frati della Casa Hospitale di Santa Maria dei Teutoni, in Gerusalemme. Come potrete comprendere dal suo alto officio, egli è molto interessato alle nostre ricerche riservate, per espresso desiderio dell’augusto Cesare. Tuttavia è superfluo rammentarvi che, ufficialmente, egli è qui in Apulia per un periodo di riposo e per seguire personalmente i lavori di ampliamento all’abbazia di San Leonardo in Siponto. Dopo il nostro prezioso ritrovamento di tre anni fa, infatti, l’imperatore ha deciso di aggregare quel monastero alla balìa dell’Ordine hospitaliero, per evidenti ragioni di sicurezza. Ciò detto, herr Hermann, vogliate gradire che vi presenti l’eccelso maestro d’abaco ser Leonardo Bigollo da Pisa, figlio di Guglielmo de'Bonacci.»

    «La vostra fama vi ha preceduto», esordisce finalmente Von Salza rivolgendosi al nuovo arrivato, dopo essere rimasto per tutto il tempo in disparte a godersi la scena.

    «Avevo già sentito raccontare da mastro Teodoro di come sorprendeste l’imperatore nella vostra città, otto anni orsono, risolvendo brillantemente un indovinello sulla riproduzione dei conigli. E poc’anzi anche messer Scoto ha tessuto mirabilmente le vostre lodi, mostrandomi una splendida edizione del vostro Liber abaci, da lui appena commissionata allo scriptorium imperiale. Ora bandiamo le ciarle e diteci quello che avete scoperto.»

    «Sono onorato di conoscere il gran mastro dei cavalieri teutonici. La vostra badìa di San Leonardo è un esempio mirabile di armonia di forme e proporzioni, sulle quali avrei piacere di tornare un giorno a conversare con voi. Senza tralasciare il profondo significato che Siponto ha avuto in tutta la nostra storia, oltre alla circostanza non irrilevante che quel monastero porta il mio nome. Ma veniamo a quanto giustamente mi chiedete.»

    Dopo aver a lungo rovistato nelle ceste trasportate fin lassù dai servi, l’anziano matematico ne estrae un compasso e una pergamena. La luce che ancora filtra dalle finestre si è fatta nel frattempo più tenue e violacea, ma nessuno dei presenti, ormai già attratti nella discussione che sta per aprirsi, si preoccupa di uscire a cercare una lampada o una torcia.

    «Nonostante i molti anni da me impiegati a studiare i segreti dei numeri», prosegue Leonardo «devo dire che gli esiti delle misurazioni e dei rilievi di questi giorni, alla luce di quanto abbiamo appreso nelle segrete carte, hanno generato nel mio spirito una profonda emozione, di cui vorrei rendere grazie recandomi al più presto pellegrino sul Sacro Monte. Magari tra qualche settimana...»

    «Andiamo al punto, Fi’Bonacci!» interviene Scot spazientito. Dopo un lieve sussulto, il pisano distende la pergamena sul tavolo appoggiando ai suoi angoli quattro pezzi da gioco, in modo da reggerne i lembi ben distesi. I due cortigiani si avvicinano con un filo d’emozione.

    «Ecco. Ho riportato tutto su questo brandello di mappa, che ho disegnato secondo le indicazioni sulla tracciatura dei peripli descritte da Mohammed al Idrisi nel suo Liber Rogerii. Come potete vedere osservando la stoffa, in questo punto in alto ho indicato il colle di Santa Maria del Monte presso Andria, che ho individuato come il luogo ideale per edificare il nuovo tempio. Infatti secondo i vostri calcoli, sir Michael, avverrà che ogni anno, mancando quattro dì al Natale di Nostro Signore, proprio nel giorno in cui più breve è il percorso del sole nel cielo, se il nostro imperatore si destasse per mirar l’alba dalla finestra del suo palatium di Foggia, vedrebbe sorgere l’astro nel punto d’orizzonte dove sapremo trovarsi il novo castello.»

    «Andiamo piano, messere», interviene Von Salza. «Il palazzo di Foggia è questo qui al centro?»

    «Dite bene. Similmente, se Federico intendesse un dì affacciarsi da una torre ponentina di tale nuovo maniero, volgendo lo sguardo qui in basso verso occidente in una dolce serata d’estate nel giorno più lungo dell’anno, vedrebbe tramontare il sole esattamente dietro le spalle della sua reggia di Foggia. Poi, proseguendo idealmente oltre essa, sempre verso il sole calante, l’occhio suo incontrerebbe anche la torriola di Castel Fiorentino, presso la guarnigione saracena di Lucera. Eccola qua, ancora più in basso.»

    «Tutto qui?» interrompe Scot. «Abbiamo dunque allineato due dimore di Cesare e un castelletto, lungo il percorso dell’astro solare, in due giorni notevoli dell’anno? Non più di quanto un qualsiasi signorotto potrebbe fare costruendo torri di guardia e possedendo semplici rudimenti d’astrologia.»

    «Niente affatto!» riprende Fibonacci. «Sappiate che i due edifici, così allineati, disteranno tra loro dieci poste, tre miglia e trecento trentatré braccia.

    «Dunque?»

    «È la medesima distanza che separerà il nuovo castro dal Sacro Monte, come s’intravede guardando a settentrione, con precisione d’agrimensore, qui a sinistra verso la grotta dell’Arcangelo.»

    «Che cosa vuol dire?»

    «Che questi tre luoghi formeranno tra loro un notevole trigono, quello che i geometri chiamano isoscele, il cui angolo più convesso sarà d’ampiezza pari alla metà di ciascuno degli angoli identici. Ecco: ho tracciato tutto qui, su quest’altra mappata.»

    «Sì, il trigono si vede benissimo. Ma cosa sono queste altre linee?»

    «L’accorto osservatore che sia stato reso edotto sulla potenza di tale trigono, guardando dal Sacro Monte verso mezzogiorno e questa città di Melfi, qui verso destra, incrocerà con l’occhio la cima isolata del Vulture, quale si erge maestoso sulla piana. Orbene, questa cima si trova sul prolungamento dell’emiretta che, secando in due parti uguali l’angolo di cui la grotta dell’Arcangelo è vertice, costruisce due nuovi angoli, identici per ampiezza a quello di cui sarà vertice il novo castro. Inoltre, tale cima sarà raggiunta dallo sguardo a una distanza doppia di quella che separa l’osservatore dall’intersezione del suo sguardo col lato opposto del trigono.»

    «Hermann non ci avrà capito molto, ma a me pare davvero straordinario» esclama lo Scot, stavolta visibilmente emozionato.

    «Sarà così finalmente ricongiunta l’impronta che l’Arcangelo ha posto sul Gargano, con quella che gli piacque calcare nella sua sacra lavra su questo monte.»

    «Vi sia ancor più noto, messer Michele, che tale linea bisecante frazionerà il lato opposto del trigono, quello che congiunge Foggia col novo castello, in due sezioni tali che l’intero sta alla maggiore come la maggiore sta alla minore ed etiam quanto la minore sta alla differenza tra la maggiore e se stessa.»

    «Divina proporzione!» esclama Scot.

    «Allo stesso modo avverrà che, guardando a settentrione dalla cima del Vulture verso il Gargano, la linea ideale che attraversa la sacra spelonca si prolungherà verso il mare e, a una distanza doppia dalla prima, incontrerà la lontana isola che i naviganti d’Adriatico chiamano Pelagosa.»

    «Ne ho sentito parlare a Siponto», si intromette Von Salza. «Si tratta di un remoto scoglio, su cui gli Italici si tramandano riposare i resti mortali di Diomede, l’antico civilizzatore di questa Daunia così cara al nostro imperatore».

    «Dite bene. Stiamo parlando del mitico fondatore di Siponto, ma anche di Andria, Venosa e tante altre città d’Apulia. Non tralascerò infine di dirvi che la base del colle da me ispezionato rispecchia mirabilmente l’idea del Celeste Architetto, perché ha la forma perfetta di un pentagono, un fatto su cui converrà che si ragioni molto.»

    «Senza dubbio», replica Scot. «In tal caso, sarà ancora più agevole realizzare l’armonico e sublime congegno voluto da Friedrich, che faccia comprendere ai giusti la perfezione dei tre numeri sacri: cinque, otto e dieci. Ma di ciò discorreremo al tempo dovuto.»

    «Speriamo di essere capaci di condurre bene a termine il nostro compito», interviene Von Salza «affinché, come dice il profeta: ‘Nessuno degli empi capirà, ma capiranno i saggi’. Messere Leonardo, questa sera abbiamo avuto conferma, se ve ne fosse ancora bisogno, della cruciale importanza dei segreti che qui custodite e del sacro messaggio che si cela nel grande Libro della natura. Prima di riferire domani all’imperatore sulle conclusioni dei vostri studi, dobbiamo ora disporci a rileggere le vostre carte dall’inizio, affinché anche io comprenda fino in fondo tutta la storia. Sir Michael, vi prego di procedere.»

    Aderendo all’invito di Von Salza, Scot esce dalla sala. Hermann si sposta quindi verso la panca su cui è ripiegato con cura il suo lungo mantello bianco e nerocrociato. Rimuovendolo delicatamente, il cavaliere svela un codice composto da vari quaderni di pergamena rilegati e racchiusi in una coperta di cuoio, che reca impressa a secco una banda diagonale a doppi scacchi dipinti di rosso e d’argento.

    Preleva con grande attenzione il libro e lo porta verso il tavolo centrale, da cui Leonardo Fibonacci ha intanto già rimosso sia la scacchiera che i calici. Nel frattempo Michael Scot rientra portando con sé una lampada a olio accesa, accompagnato dal giovane notaio di corte Jacopo da Lentini, il quale saluta con un cortese e silenzioso cenno del capo i presenti, che ricambiano allo stesso modo. La lampada viene collocata in alto, sospesa a una fune che si trova già fissata al centro della volta, sulla verticale del tavolo. Leonardo procede quindi a serrare la porta, lasciando aperte le due finestre da cui inizia a infiltrarsi qualche leggero spiraglio di brezza vespertina. Poi, lentamente, i quattro si raccolgono attorno al tavolo in un silenzio interrotto solo dal frinire dei grilli e, dopo qualche istante, dalla voce grave e solenne del Von Salza: «Noctem quietam et finem perfectum tribuat nobis Omnipotens et Misericors Dominus.»

    «Amen.» Alcuni minuti dopo, terminata la liturgia di compieta, mentre le ombre proiettate sulle pareti ondeggiano sempre più lentamente e la lampada rallenta il suo lieve pendolare nella ferma aria estiva, i quattro uomini finalmente si siedono attorno al tavolo. Sir Michael rivolge agli altri uno sguardo d’intesa e, dopo aver sciolto i lacci di cuoio, porge il libro a Jacopo che dà inizio alla lettura.


    Sia l’officio d’ogni mio successore trascrivere questa cronica ne la favella de’ suoi tempi. E così di seguito, di mano in mano, di penna in penna, di lingua in lingua, in una continua tradizione affinché ti giunga, o lettor nel tempo tuo, manifesta con chiaro intelletto la ragion de le cose ch’abbiamo visto e narrato.

    Explicit. Baltazzar Judaeus. Chronicon. AD MLIX.

    Descriptio prima. Guillelmus Apuliensis. AD MCXI.

    Descriptio secunda. Noslo Remerii. AD MCLIII.

    Descriptio tertia. An. AD MCLXXXXIII.

    Descritione quarta. Vulg. Anon. AD MCCXV.

    Descrizione quinta. Jacopo de Lentini. AD MCCLI.

    Seguono varie altre trascrizioni.

    Autori e date non riportati.


    PARTE I -Wilhelm

    "Tu, Daniele, tieni nascoste queste parole

    e sigilla il libro sino al tempo della fine.

    Molti lo studieranno con cura

    e la conoscenza aumenterà".

    Dan 12,4.


    A.D. 1047. XV ind. Normandia. Abbaye du Bec.

    Incipit. Giunsi in vista di Bec quando il sole era già alto. Avevo lasciato Rouen il giorno prima, terminato il salmo dell’ora sesta, decidendo per una sola posta. La prima lettera di salvacondotto con cui il vescovo acheruntino Stefano mi aveva introdotto all’arcivescovo Mauger aveva ormai assolto il suo compito.

    Quell’incontro mi aveva turbato: per quanto fossi preparato e avessi già dimestichezza con questa gente, ero rimasto interdetto dall’impatto personale con quell’uomo dagli occhi glaciali, la pelle color latte e due mani così enormi da sembrare intagliate nel legno dei drakkar, i leggendari vascelli con cui il suo popolo razziava il mondo civile. Ci sarebbe davvero da credere nella Provvidenza dei cristiani al solo pensare che un truce barbaro di tali fattezze sia diventato l’autorità religiosa più importante di tutto il ducato che i Franchi chiamano Normandia. Eppure, la comune discendenza dell’arcivescovo e del suo giovane nipote Wilhelm da quello stesso selvaggio di nome Göngu-Hrólfur, un demonio spuntato da Dio - solo - sa - dove - tra - i - ghiacci un brutto giorno di mezzo secolo prima, aveva compiuto evidentemente il miracolo.

    Ero stato ammesso alla sua presenza in una sala fredda e buia, con le volte sorrette da esili colonne di pietra grigia i cui capitelli erano rozzamente scolpiti con motivi floreali di differente fattura. Lì avevo dovuto attendere con deferenza che l’arcivescovo aprisse la lettera, la rivoltasse con sospetto da tutti i lati e sul retro, fosse poi colpito da un improvviso accesso di tosse, si schiarisse la voce, convocasse un giovane chierico urlando nella sua orrenda lingua e infine, senza proferire parola, gli porgesse la cartapecora in modo che questi, non senza averla prima orientata nel verso giusto, gliela leggesse con la sua voce incerta, ma alta e squillante da fanciullo.

    Compresi ben presto che di quella lettura Mauger aveva afferrato poche cose essenziali.

    «Dunque sei un giudeo.»

    «Sì, sono ebreo, padre.»

    «E vieni dall’Apulia.»

    «Sì, dite bene.»

    «Che si trova...»

    «Presso il Sacro Monte dell’Arcangelo, padre.»

    «Già, certo, il Sacro Monte. E laggiù sei finito al servizio di uno di noi.»

    «Sì, un vik. Il figlio di un piccolo dominus del Cotentin, padre.»

    «Conosco bene quel contado: si trova quasi a cento miglia da qui, verso ponente. Ci sono solo villaggi di poveri pecorai e pescatori.»

    Era all’incirca così. Da quel remoto lembo di terra il mio giovane dominus era partito una decina d’anni prima, diretto a mezzogiorno lungo la via Franzesca come tanti altri suoi compagni in cerca di miglior fortuna, accompagnato solamente da due fratelli e da un’idea precisa.

    «E cosa ci vai a fare ora nel Cotentin, giudeo?»

    «Vedete, padre, come è spiegato nella lettera io dovrei incontrare...»

    «Lascia stare, non mi interessa. A me basta il guidatico col sigillo del pastore. Sappi però che abbiamo appena sventato una congiura nei confronti di mio nipote Wilhelm.»

    «Me ne compiaccio, padre. So che il dux è giovane, ma già molto saggio.»

    «Governa questa terra dall’età di sette anni. Una schiatta precoce, la nostra. Vedi questo giovane chierichetto? È suo fratello. Dì al giudeo quanti anni hai, Oddon.»

    «Undici, monsieur.»

    «Undici anni e già sa leggere, non è straordinario? Tra un paio d’anni al massimo lo farò nominare vescovo a Bayeux, qui vicino.»

    «Mi congratulo, è evidente che il ragazzo ne ha sommo merito» replicai con la voce un po’ alterata, dopo aver a lungo deglutito.

    «Vedo che sei sveglio. Comunque, stavo dicendo che tutta la Normandia è ancora in uno stato di grande confusione a causa della recente congiura e perciò» fece qui una lunga pausa fissandomi gelido «non sono affatto sicuro che tu riesca ad arrivare vivo a destinazione.»

    Dopo aver pronunciato quelle inquietanti parole, l’arcivescovo mi aveva guardato severamente per qualche altro istante e poi era scoppiato in una sonora risata: «Non preoccuparti. Lo so come siete fatti voi giudei: avete sette vite, come i bracci del vostro strano candelabro. Sono certo che te la caverai.»

    Con questo rassicurante incoraggiamento mi aveva congedato, affidandomi alla protezione di Odino e, bontà sua, anche a quella più tangibile di un cavaliere ricoperto da un giaco di ferro e armato di arco e lancia, che mi avrebbe scortato fino all’Abbazia di Notre Dame du Bec. Da lì avrei dovuto proseguire per altri cinque o sei giorni di marcia fino al monastero di Mont-Saint-Michel al pericolo del mare.

    Così, dopo un intero giorno e una notte passati a ripensare a quell’incontro, cavalcando insieme a un milite che non aveva emesso neanche un suono, a parte qualche flatulenza e un selvatico richiamo a una lepre che aveva preso commiato da questo mondo sulla nostra brace, la vista dell’abbazia mi restituiva finalmente alla civiltà, almeno quella spirituale.

    Il mio prossimo ospite era longobardo, come il mio antico dominus Ismael. A lui avrei dunque presentato la seconda delle tre lettere che mi servivano da guidaticum: quella scritta dall’abate Julius di Sant’Ippolito in Monticulum, un’abbazia ben più antica di questo recente e pur già celebre cenobio boreale.

    Secondo le informazioni che avevo ricevuto da Arduin, Lanfrancus da Pavia era un uomo di lettere ancor prima che di fede. Aveva fondato una scuola di dialettica ad Avranches, poi si era fatto monaco ed era entrato a Bec cinque anni prima, si dice come voto di ringraziamento per essere stato rilasciato dai banditi, che lo avevano rapito sulla via di Rouen.

    Comunque, in soli tre anni aveva scalato tutte le gerarchie ed era diventato priore, la carica più alta cui si potesse aspirare in questi strani monasteri che aderivano alla grande fratellanza di Cluny. A differenza di abbazie autonome come Monte Cassino, i capi spirituali dei monasteri cluniacensi non si facevano chiamare abati, poiché riconoscevano questo titolo esclusivamente al priore della grande abbazia madre, che si trovava in Burgundia e che era a sua volta sottoposta alla sola autorità del vescovo di Roma. È incredibile come la conoscenza di tali dettagli, apparentemente insignificanti, sia a volte essenziale per la sopravvivenza di un uomo.

    «Pax tibi in nomine domini et veniat in auxilium Sanctus Michael». Con questo curioso saluto Lanfrancus mi accolse sull’uscio del nuovo scriptorium, dove fui introdotto al suo cospetto da un giovane chierico lombardo di nome Anselmus, originario di Baggio. «Spero che l’incontro con l’arcivescovo Mauger non abbia generato nell’animo tuo un cattivo giudizio su questo popolo boreale. I Viki sono tanto brutali e aggressivi verso i nemici sul campo di battaglia, quanto sono tolleranti e generosi verso gli uomini di lettere o di fede, di qualsiasi fede. Sarà forse perché domandano lo stesso trattamento anche nei loro confronti.»

    «Sono stato trattato con sincera ospitalità, padre.»

    «Ne ero certo. Credimi, nel mondo cristiano in questo momento non esiste un luogo migliore della Normandia per dedicarsi agli studi e alla preghiera.»

    Doveva essere quasi vero dato che, sempre a detta di Arduin, molti altri longobardi si erano trasferiti qui negli ultimi tempi, dopo aver abbandonato la piana del fiume Padus. Lanfrancus mi confermò infatti tutte le notizie che avevo appreso dal mio informatore.

    «Venerabile priore, è davvero sorprendente trovare su queste sponde boreali un così cospicuo numero di lombardi.

    Dev’esservi in ciò qualche profonda ragione spirituale, non potendo certo credere che tale scelta sia stata orientata dalla mitezza dell’aria.»

    «Logico sei, mio buon amico. Infatti tutti questi lombardi, come tu li chiami, sono qui per una ragione sola: dedicarsi alla meditazione e all’adorazione, secondo l’insegnamento del maestro Guglielmo da Volpiano, predicatore pio e costruttore mirabile di abbazie, che giunse fin qui per devozione all’Arcangelo guerriero.»

    «Vi riferite a Michael, immagino.»

    «Chi altri? È lui lo Spirito celeste sacro a tutto il mio popolo, che qui apparve tre secoli orsono. Conoscerai certamente l’opera di Guglielmo, poiché egli ha ampliato anche il bel monastero sulla val Clusa, presso il giogo del Moncenisio. Si trova lungo la via Franzesca, che tu hai percorso.»

    «Conosco quel monastero: vi ho fatto posta proprio durante questo viaggio. È un’opera davvero mirabile, collocata in una posizione superba sulle montagne.»

    «Allora saprai anche che tra i seguaci di Guglielmo c’è Suppon, il priore del monastero di Mont-Saint-Michel al pericolo del mare». Forse intuendo la mia sorpresa, aggiunse subito: «Ho letto nella tua lettera che lo dovrai incontrare tra qualche giorno. Anche quell’altro magnifico luogo di preghiera è stato realizzato da Guglielmo, oltre quaranta anni fa, secondo le indicazioni dell’allora vescovo di Roma, Silvestrus.»

    Avevo davvero necessità di parlare con quest’abate Suppon e così, per introdurmi a lui, chiesi a Lanfrancus di scrivere la mia terza e ultima lettera di viatico, che mi fu subito consegnata dal giovane e solerte Anselmus. Seguì una frugale cena a base di erbe di campo e ceci bolliti, ai quali aggiunsi con discrezione, ma solo per il priore, un po’ di erba officinale di cui avevo appreso l’uso da Ismael. Il pasto fu accompagnato da una bevanda spumosa del luogo, di colore paglierino, che il priore chiamò cervogia ma che, disse, i Viki chiamavano aleus. La conversazione scivolò via sempre più gradevole, come il gusto brioso di quel fresco nettare biondo.

    Lanfrancus mi spiegò con ripetute dimostrazioni pratiche come l’orzo, da cui quel liquido si ricavava facendone marcire i germogli in acqua ed esponendone poi l’umore al calore, dovesse possedere già in potentia la virtù d’inebriare lo spirito.

    «Tale capacità non è tuttavia già apparente e manifesta nella pianta, ma consegue alla modificazione dello stato accidentale dei suoi semi, dovuto prima alla germinazione e poi alla macerazione, ossia all’esposizione all’umidità e al calore. Eppure questa virtù appartiene già alla sustanza dell’orzo, in re ipsa. Infatti, lo stesso non avviene se si mettono ad esempio a macerare i ceci, i quali ben altro e noto effetto hanno sull’organismo nostro.»

    Purtroppo, la sua lucida dialettica poco dopo si alterò, scivolando in frasi irripetibili, allorquando prese a parlare di un certo Berengario da Tours - ma cosa c’entrava? - il quale secondo lui meritava di marcire a vita su una galera: «Comprendete l’abominio? Cotal eretico osa sostenere che l’Eucaristia è solo un signum sacrum. Poco più di un simulacro e non una reale mutazione della sostanza del pane e del vino ad opera di Nostro Signore. Assurdo!»

    «Reverendo priore, non erano già i pagani che attribuivano a Dioniso il possesso dell’energia vitale per mutare la sostanza delle cose?»

    «Certo. Un’energia che si esprime in quello stesso calore e nell'umidità, che fanno maturare anche i frutti della vite e poi rendono inebriante il loro umore: quel vino che il dio pagano tiene nel sacro calice e che lo accompagna sempre, nelle immagini che vediamo ritratte sulle rovine antiche.»

    «Il kantharos.»

    «Dite bene. È evidente che molti pagani possedevano già i germi della verità, come ci insegna Agostino a proposito di Platone.»

    Non mi trattenni dall’interromperlo ancora: «Già. L’umidità e il calore. Acqua e fuoco. E voi che idea avete in proposito? Perdonatemi, però seguendo il vostro ragionamento precedente deduco che, essendo i mutamenti fisici solo accidentali e non sostanziali, così come il vino è dapprima uva e il pane è dapprima grano, o la cervogia orzo, allora le cose che si originano dalle stesse trasformazioni accidentali di uguali sostanze, tali che ricevono dalle mutazioni dovute a questi vari agenti la stessa apparenza evidente, devono necessariamente mantenere in sé la stessa realtà, pur sotto diverso aspetto. Non è la sostanza dunque che muta, ma l’apparenza. Sbaglio? Cosa diversa è se crediate a queste cose per verità di fede...»

    Per lunghi attimi pensai che non mi avesse udito, perché il suo sguardo si era ormai elevato come su ali d’aquila oltre le finestre, probabilmente in cerca di quel tale Berengario. Poi però i suoi occhi fiammeggianti d’ira si posarono sui miei e, dopo aver pronunciato ogni sorta di anatema contro gli ebrei, replicò: «Guai per coloro i quali, rinunciando a riconoscere la santa autorità delle Scritture e dei Padri della Chiesa, osano rifugiarsi nella dialettica! Proprio come Silvestrus, indegno vescovo romano: un eretico dedito al culto dei numeri alla pari dei suoi maestri mauri e giudei, gente della tua risma.»

    «Un vescovo di Roma addirittura eretico?»

    «Peggio. Un mago, uno che cercava la verità sul bene e sul male in una cosiddetta pietra della conoscenza. Sapete come la chiamava, alla maniera degli infedeli?»

    «Cosa, questa pietra?»

    «Sì, certo, cos’altro? La chiamava al-kimiyà, al-iksīr, el-isir o come diavolo volete pronunciarlo. Uno che ha imparato dai Mauri infedeli di Barcelona l’insana abitudine del gioco, ammorbando le terre cristiane con lo shah, quello che i latini chiamano il gioco degli scacchi

    «Questo no! Addirittura i giochi.»

    «Non è finita. Uno che tentò di corrompere il cuore del suo allievo Guglielmo da Volpiano, il quale cadde perfino nell’errore di lordare le sue costruzioni di arcana

    «Arcana?»

    «Sollazzi blasfemi, che giocano perversamente con gli astri e con le pietre dei sacri templi che dovrebbero reggere.»

    «Perdonate, padre. Può essere che questi arcana siano in realtà semplici regole di geometria delle costruzioni, le quali consentono all’edificio di stare in piedi. Facendo i calcoli...»

    «Calcoli? Geometria? Opera del maligno! Ho sentito che voi giudei fondate sui numeri l’intero universo e attribuite una data quantità finanche alle singole parole, poiché a ogni lettera o suono che le compone fate corrispondere un numero.»

    «Dite bene. La somma di questi numeri è la cifra, il significato profondo di ogni parola.»

    «Mi hanno anche detto che leggete strane coincidenze tra concetti diversissimi, solo perché la cosiddetta cifra del loro nome sarebbe la stessa.»

    «Certamente, come per amore e unità, che hanno lo stessa quantità, la stessa cifra.»

    «E osate rappresentare nascostamente questi rapporti anche nelle costruzioni. Quale bestemmia, proprio nei luoghi sacri!»

    Prima di crollare definitivamente di testa nella scodella, il priore mi confermò che quegli arcana non erano altro che segreti dell’arte del costruire, confidati da Guglielmo ai suoi muratori più fedeli. Si diceva che risalissero a un certo Hiram Abif, l’architetto del tempio di Salomone, e che fossero stati utilizzati in alcuni punti precisi all’interno dei santuari dedicati all’Arcangelo. Alcuni di essi erano stati progettati direttamente da Guglielmo, su indicazione del maestro Silvestrus.

    Quella rivelazione fu abbastanza inaspettata, ma non particolarmente importante per le mie ricerche, anche perché Lanfrancus non sembrava avere la minima idea di quali fossero esattamente i luoghi dove questi arcana erano stati realizzati, come se il bizzarro monaco architetto avesse voluto svelare ai suoi discepoli solo una metà dei suoi segreti, lasciando l’altra metà in custodia a qualcun altro che ne fosse degno. Un po’ come si faceva anticamente con i symboli, le mezze monete che erano consegnate ai messaggeri per farle combaciare con quelle in possesso dei destinatari. Mi chiesi allora, ancora una volta, come mai proprio io, per le curiose vicende della mia vita e per un insieme quasi sovrannaturale di coincidenze, fossi venuto indegnamente in possesso della parte mancante. Come potevo far combaciare i miei simboli con gli altri? La risposta doveva essere ormai a portata di mano, ma mi mancavano ancora alcuni elementi.

    Mentre volteggiavo in quelle riflessioni, tornai improvvisamente alla realtà quando udii il sordo tonfo della fronte di Lanfrancus, che si era inabissato nell’avanzo di brodo di ceci cominciando a russare sonoramente. Ebbi così ad apprezzare il santo richiamo del Deuteronomio, per un uso pacato di certe bevande come lo shekàr, che quella sera mi ricordava tanto la cervogia. Prima di ritirarmi nella mia cella ringraziai l’Onnipotente per avere già in tasca la lettera con il sigillum del priore e pregai affinché Lanfrancus, che ovviamente sapeva più cose di quanto mi aspettassi, si lavasse la memoria con una buona dose di mal di capo.

    Ripresi il mio viaggio il mattino seguente, diretto a occidente solo con il mio cavallo e con la testa ancora piuttosto confusa. Anche la seconda lettera poteva essere ormai riposta. I villaggi che incontravo erano sempre più radi e dall’apparenza selvaggia. Inoltrandomi per quei boschi vedevo spesso in lontananza, dai diversi venti, levarsi in cielo del fumo troppo denso e copioso per essere il segno di un fuocherello da campo, il che aumentava la mia inquietudine.

    Ero quasi giunto ad Avranches quando lungo il sentiero, uscito da una macchia, vidi venire verso di me un cavaliere al trotto, in equilibrio così incerto che sembrava essere stato anch’egli ospite di Lanfrancus al convivio di quattro giorni prima. Mi accorsi subito che aveva qualcosa di strano, poiché indossava un mantello scuro ben saldo al collo, ma coi lembi rivoltati in avanti a ricoprirne il volto e il torace, mentre le braccia non tenevano le briglie, essendo ripiegate sulla schiena. Giunto che fu al mio cospetto, il cavallo si fermò in un silenzio che mi raggelò il sangue. Dopo aver accennato un saluto, notai che il mantello era imbrattato a grandi chiazze da qualche sostanza difficilmente intellegibile, poiché le macchie impregnavano il tessuto senza mutarne il colore brunastro. Pensando che si sentisse male, o fosse stato vittima di qualche bandito che l’aveva imbavagliato, estrassi la spada e provai lentamente a sollevare il manto. Il mio gesto dovette essere però troppo impetuoso, poiché l’uomo cadde disarcionato, mostrando l’orrifica verità: mancava completamente del capo, finito chissà dove e sostituito da un feticcio di paglia acconciato alla meglio. Le braccia, incrociate dietro la schiena e bloccate da legacci di canapa, tenevano serrati, quale crudeltà, virgam et testiculos, che accertai esser suoi da un rapido esame della situazione. La testa iniziò a girarmi: nonostante non fosse la prima volta che vedevo simili spettacoli, tuttavia mai in vita mia mi ero trovato in una tale circostanza, solo in un paese lontano e senza possibilità alcuna di ottenere soccorso. Ruotai due o tre volte su me stesso con il cavallo, cercando di rientrare in possesso delle facoltà razionali, quando vidi a circa cento braccia di distanza, lungo un viottolo laterale che scendeva in basso, una fonte che immetteva acqua in un vascone di vimini e terriccio. Mi diressi a valle senza pensare a nulla. Giunto nei pressi della fontana smontai da cavallo e immersi il volto con tutta la testa in acqua, lasciando che il getto gelido sulla nuca mi facesse lentamente riprendere vigore. Dopo qualche istante mi decisi a risollevarmi, quando sentii una spinta violenta che mi affondava nuovamente il capo in immersione. Un capogiro? Un ramo caduto d’improvviso da un albero? Il frigore della fonte e lo spirito di sopravvivenza mi avevano fatto rapidamente riprendere le forze, tanto che cercai con le mani un sostegno per rialzarmi, che per fortuna trovai subito.

    Appena riemerso ripresi fiato e provai ad aprire gli occhi, quando una forza sovrumana mi ribaltò nuovamente il busto in acqua. Non c’era più dubbio: lo spirito del cavaliere senza testa, folle di rabbia, aveva intrapreso la sua tremenda scia di vendetta verso l’umanità. Ma doveva iniziare proprio da me?

    Sentivo distintamente i rivoli ancora tiepidi del suo sangue, che evidentemente gli fiottava copioso dal collo, mentre mi scorrevano lungo l’interno delle gambe. Mi ricordai allora l’ammonimento di Lanfrancus, al quale chiesi perdono in extremis. Poi sentii mancare le forze e fu il buio.

    «Se non si riprende subito gli pianto l’ascia nella fronte!»

    «Non possiamo. Rudbert ha detto che bisogna prima interrogarlo. Lascia fare a me.»

    Ancora acqua gelida, stavolta dall’alto. Luce accecante negli occhi. Figure bionde intorno a me. Angeli? È dunque così che accade dopo? Ridono... ma perché ridono? Buio... ancora acqua. Poi di nuovo quella lingua barbara.

    «Chi ti manda? Guy de Bourgogne? Dove sei diretto? Al monastero? Sei uno dei bastardi di Valognes, o forse una spia di Suppon? Non nega. Facciamolo fuori.»

    «Smettetela, idioti! Gli avete già detto tutto voi. Ormai non serve più interrogarlo.»

    «Quindi lo facciamo fuori, Rudbert?»

    «No, rovistategli addosso piuttosto. Costui ha l’aria di avere in serbo qualcosa di interessante.»

    Un turbinio di braccia mi sollevò in un attimo e mi rovesciò gli abiti come si fa per scuoiare le lepri.

    «Puzza come un maiale. Che schifo, si è pisciato. E questa cos’è? Una lettera?»

    «Date qua, lasciatemi guardare.»

    Ora potevo comprendere in che situazione mi trovavo.

    Doveva essere una delle bande di furfanti che infestavano queste lande sconosciute. Sicuramente erano gli autori degli incendi nei villaggi vicini. Il tempo di accorgersi che non portavo oro e mi avrebbero ucciso.

    «Sei nei guai, straniero! Qui c’è scritto che vai da quel porco di Suppon a Mont-Saint-Michel. Fai dunque parte della schiera dei traditori di dux Wilhelm, e come tale sarai trattato. Gaufred, prenditi cura di lui.»

    Dunque il barbaro sapeva leggere. Costui, che chiamavano Rudbert, sembrava il capo, anche se era il più giovane della banda. Avrà avuto poco più di vent’anni. Alto, con una folta barba e capelli lunghi biondi, sciolti sulla schiena. Si appoggiava su un’enorme spada che usava come un bastone, piantandovi in terra la punta. Indossava calzari di stoffa a legacci incrociati secondo il costume celtico e una tunica di pelle di daino, con un cuoietto di pecora a fargli da mantello, fermato da una fibula in corno di becco. Aveva tuttavia un’aura di nobiltà e fierezza nello sguardo, che gli conferiva particolare fascino e bellezza.

    Queste mie riflessioni, immergendomi nelle quali volevo forse allontanarmi dalla realtà, furono bruscamente interrotte da due energumeni che mi afferrarono per le braccia e mi trascinarono verso una roccia, su cui mi scaraventarono di schiena. Un altro mi afferrò per i capelli, costringendomi a inarcare il capo all’indietro e a porgere il nudo collo alla loro mercé. Non avevo più umori da espellere, così almeno potevo finire con dignità. Vidi colui che chiamavano Gaufred provare il colpo, posandomi un’enorme spada sulla gola, quindi mettersi in posizione di fianco a me, divaricando un po’ le gambe e flettendo le ginocchia, per portare bene il ferro in alto sulla testa con entrambe le mani, mentre quelle bestie non sapevano trattenere le risa. Chiusi gli occhi.

    All’improvviso, gelido come un fendente di lama di Toledo, intervenne l’urlo di Rudbert: «Fermi, gli è caduta un’altra lettera.»

    Il guidatico per Lanfrancus, che troppo frettolosamente avevo liquidato come non più utile alcuni giorni prima, dovette salvarmi la vita. La bolla plumbea di Mauger apposta in calce aveva attirato infatti l’occhio del capo banda, che interruppe l’esecuzione tra i malumori e le imprecazioni di quella marmaglia. Certo, avrebbe potuto uccidermi e poi leggere con calma il messaggio, come stavano tentando di suggerirgli, ma evidentemente il ragazzo era curioso e aveva uno sguardo particolarmente sveglio.

    «Ora dovrai darmi un po’ di spiegazioni, mauro. Come hai fatto ad avere la bolla dell’arcivescovo di Rouen?»

    In effetti ero piuttosto scuro di carnagione, ma era la prima volta che mi sentivo chiamare mauro e, soprattutto, era la prima volta che un cristiano non coloriva quell’espressione con un certo senso di disgusto. Compresi che era il momento di tentare di salvarmi la vita con la dialettica, non potendo purtroppo invocare l’ausilio dei Padri della Chiesa.

    «Mi chiamo Baltazzar», dissi. «Sono un copista ebreo e vengo dall’Apulia. Sto cercando la via per Coutances, nel Cotentin. Ho un messaggio per un dominus viking di quelle parti.»

    «Ah sì? E come si chiama questo

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