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Princìpi di spettrologia
Princìpi di spettrologia
Princìpi di spettrologia
E-book389 pagine5 ore

Princìpi di spettrologia

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Info su questo ebook

Nessuno aveva detto che essere un medium sarebbe stato facile.
Rain Christiansen, ex agente dell’FBI e ora detective che si occupa di casi irrisolti, sta cominciando a pensare che sia il lavoro più difficile che abbia mai avuto, e anche il più importante. È determinato ad accettare tutti i cambiamenti alla sua ben strutturata vita precedente, ma questo comporta abbracciare un mondo di stranezze. Non esiste un manuale su come conciliare il lavoro con i doveri di medium, e Rain si è reso conto che sta miseramente fallendo. Ma anche i fantasmi se ne sono accorti e stanno diventando sempre più impazienti. E forti.
A complicare la questione, non sa che peso avranno sulla sua relazione questi sviluppi spettracolari. Non sembrano esserci dubbi che Daniel McKenna, il suo compagno nella vita e nel lavoro, voglia stargli accanto a lungo termine. Ma Rain non può fare a meno di chiedersi quanto durerà la sua pazienza… e cosa farà se Danny si dovesse stancare dei fantasmi invadenti.
Rain pensava che accettare i suoi doni soprannaturali sarebbe stata la soluzione ai suoi problemi. Ma ora ha capito che i problemi sono solo all’inizio.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2023
ISBN9791220705110
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    Anteprima del libro

    Princìpi di spettrologia - S.E. Harmon

    1

    Non c’era nulla che rendeva la gente ansiosa come girare sopra l’aeroporto in attesa di avere il permesso di atterrare.

    Grazie a una minacciosa tempesta tropicale, i controllori del traffico aereo avevano fatto di noi i partecipanti involontari della versione più strana al mondo di Strega comanda color. Doveva esserci una qualche logica nei complicati rituali aeroportuali che assicuravano l’ordine e la sicurezza ma, francamente, ero stufo. Torre comanda aereo… il mio, cavolo!

    La hostess ci ricordò per la terza volta di tenere le cinture di sicurezza allacciate, ma udii provenire da diverse file indietro qualche clic. Dato che non eravamo ancora nemmeno atterrati, potevo solo immaginare che dalla business class stessero contemplando di lanciarsi con il paracadute.

    Buttai fuori un lungo sospiro esplosivo mentre la pioggia e il vento si abbattevano sui finestrini della cabina, che aveva le luci abbassate. La mia vicina di sedile, fin troppo concentrata su una rivista SkyMall, mi lanciò un’occhiataccia. Non potevo biasimarla: era il mio quarto sospiro in quattro minuti.

    Era stato un lungo giorno di viaggio, e il mio unico interesse al momento era contare il numero di ostacoli tra me e il letto. Il più grosso era la tempesta tropicale Allen, che a mio parere avrebbe fatto meglio a smammare. Poi c’era il comandante, che non sembrava avere alcuna fretta di far atterrare quel maledetto aereo. Con quella pratica voce standard rassicurante da pilota, ci aveva informati che dovevamo attendere il nostro turno per atterrare. Attendere il nostro turno. Come se ci fossimo presentati senza invito alla cena di Ringraziamento di qualcuno, costringendolo a pulire con la canna del giardino i mobili del patio.

    Sospirai di nuovo e la mia vicina agitò rumorosamente le pagine della rivista. A essere onesti, non avrei mai dovuto accettare di fare un favore, specialmente non ad Alford Graycie, il mio vecchio capo all’FBI.

    Vecchio.

    Dovevo continuare a ricordarmelo. Avevo sostituito un relatore ammalato a una conferenza in cui avevo raccontato a neo-impiegati governativi cosa significasse fare il profiler. Devo dire la verità, non avevo mai amato parlare in pubblico, ancora meno da quando ero diventato una specie di leggenda urbana nei circoli delle forze dell’ordine.

    La maggior parte della gente sapeva che facevo parte della PTU, o Paranormal Tactical Unit, unità tattica paranormale. La definizione della sigla cambiava di volta in volta, a seconda degli interlocutori. Per mia fortuna, non molti dovevano conoscere tutti i dettagli. Come squadra, ci stavamo abituando alle nostre dinamiche ed eravamo ancora in fase di rodaggio. Come medium, questo valeva anche per me. Stavo cominciando a imparare, in modo spiacevole, quanto poco sapessi del mio… ventaglio di competenze.

    Ventaglio di competenze faceva pensare a una specie di tuttofare. Non sapevo però come definire le mie attitudini paranormali. Talento implicava che c’entrassi qualcosa io, ma ero semplicemente nato così. Il termine dono era un po’ esagerato.

    Vedevo e parlavo ai fantasmi e a volte, in qualche modo, li aiutavo a passare oltre. Solo la determinazione mi aveva impedito di impazzire. La mia abilità mi era costata una relazione. Alla fine, mi era costata il lavoro come profiler nell’Unità di analisi comportamentale. Avevo anche sviluppato una brutta dipendenza dai medicinali prescritti dallo psichiatra del dipartimento per stabilizzarmi.

    Per fortuna, ero caduto in piedi, dal punto di vista del lavoro. Una volta ammesso che i fantasmi erano reali, avevo anche sconfitto quasi del tutto la dipendenza. Per quanto riguardava le relazioni, mi ero deciso a essere onesto e mostrare la mia vulnerabilità, e avevo riconquistato Danny. Ero anche stato rapito e mi avevano sparato, e immagino che anche quello avesse contribuito.

    Sì, ero un nuovo Rain Christiansen, che cercava di gestire una versione quasi irriconoscibile della propria vita. Bisognava ammettere che stavo ancora lavorando su alcuni problemi, e la maggior parte delle volte mi sembrava di non riuscire a adempiere i miei doveri da medium. Però, dopo gli sconvolgimenti accaduti nella mia vita, non me la sentivo di definire il mio ventaglio di competenze un dono. Non ero incline a essere tanto generoso.

    Sospirai di nuovo rumorosamente, e la mia vicina chiuse la rivista con uno sbuffo, infilandosela poi nella borsa. «Non dovremmo portarle via,» mi arrischiai.

    Mi ignorò e accavallò le gambe, dandomi la schiena. Va bene, allora. Non mi sarei certo disturbato a svegliarla al passaggio del carrello delle bevande.

    Quando atterrammo al Miami International, era ormai l’una del mattino. Dopo una sosta veloce per un caffè, ebbi la navetta che portava al parcheggio delle soste lunghe tutta per me. L’autista era gentile ma non loquace, proprio come lo preferivo: non doveva chiacchierare per assicurarsi una mancia come un guidatore di un Uber. Mi sedetti vicino al finestrino posteriore e sorseggiai tranquillo il caffè finché non arrivai alla fermata.

    La macchina era nella stessa identica condizione di quando ero partito. Buttai le valigie nel bagagliaio. La tempesta era stata meno violenta del previsto, lasciando il clima caldo, pesante e umido. Guidai fino a casa con i finestrini abbassati e l’aria che mi investiva da tutte le direzioni. Quando finalmente lasciai l’autostrada, sembrava che un tornado mi avesse raccolto da una parte e depositato da un’altra.

    La casa di Danny distava dall’aeroporto il doppio della mia, ma mi diressi comunque da lui. Si potrebbe pensare che una pausa ogni tanto ci facesse bene, visto che lavoravamo, mangiavamo e andavamo a letto insieme. Diamine, in pratica vivevamo insieme. Avremmo dovuto già esserci stufati anche solo di vederci e avremmo dovuto cominciare a mirarci contro come cecchini senza alcun motivo. E quella sarebbe stata una supposizione piuttosto accurata.

    Ma volevo comunque addormentarmi accanto a lui. Qualsiasi cosa accadesse. Mi fermai davanti alla casa vicino alla sua Charger. Aveva parcheggiato proprio al centro del vialetto, come sempre, e io finii un po’ sull’erba. Stronzo.

    Forse saremmo arrivati a strangolarci a morte, ma alla fine desideravamo comunque essere sepolti l’uno accanto all’altro.

    Scesi dalla macchina, ridacchiando mentre prendevo in spalla la borsa. Non credevo di aver mai descritto la nostra relazione meglio di così. Ero sicuro che avrebbe concordato con me.

    Nonostante fossi stanco, non riuscii a resistere al lusso di una bella doccia.

    Appoggiai le mani alle piastrelle lasciando che l’acqua mi scendesse lungo la schiena in rivoletti. Il getto caldo era meraviglioso sui muscoli indolenziti, e nonostante non vedessi l’ora di infilarmi a letto, non riuscivo a uscire da lì. Era troppo bello togliermi di dosso i rimasugli del viaggio; ero stato in pubblico un po’ troppo, avevo toccato troppe cose toccate da altri, avevo appoggiato la testa dove troppi l’avevano appoggiata.

    Speravo che Danny non fosse ancora arrabbiato. Prima di andarmene, avevo avuto l’impressione che non fosse molto contento della mia gita. Ne avevo avuto l’impressione perché me l’aveva detto. Con una certa chiarezza.

    Danny era convinto che Graycie provasse ancora qualcosa per me, e non ero sicuro che avesse torto. Sembrava anche convinto che fare favori all’FBI significasse per me qualcosa di più che semplicemente coltivare buoni rapporti. Non ero sicuro avesse torto nemmeno riguardo a quello. Persino io cominciavo a interrogarmi sulle mie motivazioni.

    Forse per me era solo confortante non tagliare del tutto i miei legami con l’FBI. Forse trovavo più difficile del previsto abbracciare il nuovo Rain Christiansen. E forse era ora che la smettessi di sprecare acqua e tempo a cercare di trovare risposte a domande che non ne avevano.

    Chiusi la doccia e mi asciugai in fretta. Entrai nudo in camera da letto, lasciando orme umide sul prezioso parquet di Danny, cosa che mi dava parecchia soddisfazione. Rovistai nei suoi cassetti e sgraffignai un paio di boxer e una vecchia maglietta del college.

    Mi vestii in silenzio, la stoffa che si appiccicava alla pelle umida. Cercavamo di non svegliarci quando arrivavamo tardi la notte, ma era spesso una battaglia persa in partenza. Anni nelle forze dell’ordine ci avevano abituati ad avere il sonno leggero.

    Cercai comunque di infilarmi a letto senza farmi sentire… il che naturalmente significa che feci tremolare il materasso come una zattera di fortuna nella burrasca. Afferrai la testiera prima di cadere, poi tentai di zittire il legno quando emanò un cigolio degno di una casa stregata.

    «Rain,» mormorò Danny.

    «Scusa, sono io.»

    «Sarà per questo che ho detto il tuo nome.» Aveva la voce roca dal sonno. Sbadigliò e si girò dall’altra parte, rivolto al muro. «Sei in ritardo.»

    «Già. Vedo dalle pieghe del cuscino che hai sulla faccia quanto eri preoccupato.»

    «Ero preoccupato. Da morire.» Aveva un tono divertito. «Come è andata la conferenza?»

    «Non me ne parlare.»

    «Proprio bene allora.»

    «Diciamo che erano estremamente interessati alla PTU.» Diedi qualche pugno al cuscino per sistemarlo con più aggressività di quanto fosse necessario. «Non molto all’attività di profiler sulla quale ho costruito la mia carriera.»

    «Sono agenti, Rain. Essere curiosi fa parte del mansionario.» Si seppellì ancora di più nelle coperte. «Almeno è finita.»

    «Non è proprio così.»

    Prima che lasciassi Quantico, Graycie mi aveva più o meno estorto un altro possibile favore. Voleva che parlassi con l’ennesimo serial killer riguardo al luogo in cui trovare delle vittime scomparse. Non avevo detto di sì, ma non avevo nemmeno detto di no.

    Persino mezzo addormentato, Danny non amava il linguaggio vago. «Hai intenzione di spiegarti, Rainstorm?»

    «Odio quel nomignolo.»

    «Perché pensi che lo usi?»

    Sbuffai. «Potrei dover incontrare un detenuto. Solo come favore a Graycie.»

    «E?»

    «E basta,» risposi irritato. Cristo. C’era qualche lato negativo a frequentare un segugio umano.

    «Di’ a Graycie che ce l’hai un lavoro, cazzo. E che li ammazzo i cacciatori di frodo.»

    «Glielo dirò.»

    «Bene.»

    Mi allungai a baciargli una spalla, la pelle calda e liscia sulle mie labbra. Tutta quella pelle dorata e abbronzata era segnata solo dai tatuaggi che si era fatto durante la sua gioventù ribelle. Alcuni non avevano un significato preciso, alcuni erano importanti. L’asso di picche sull’avambraccio era occasionale, un favore che aveva fatto al college a un ex che cercava di costruirsi un portfolio. Il drago che occupava una bella superficie sulla schiena era segno di un’affermazione personale, qualcosa che gli ricordava quanto potesse essere forte. Se lo era fatto qualche mese dopo essere entrato all’accademia di polizia, dopo aver saputo che la madre naturale era tornata in prigione per la quarta volta. L’orchidea sulla parte alta della spalla era il più significativo: un omaggio alla sorella scomparsa.

    «Scusami per averti svegliato.» Con la punta delle dita tracciai delicatamente l’iscrizione nell’orchidea. Anna. Vedevo la sagoma del fiore nell’oscurità rischiarata dalla luce della luna, ma le mie dita conoscevano quel percorso intimamente. «Ci serve uno di quegli affari per dormire Tempur. Quello con la tizia che salta sul letto con una palla da bowling e un bicchiere di vino.»

    «Mmm, e poi possiamo passare dal negozio di animali a prendere una museruola.»

    Diedi uno schiaffo sulla spalla che avevo baciato e lui ridacchiò. Quando non disse altro, mi resi conto che si era già riaddormentato. Mi aveva dato la schiena, chiamato bastardino, poi era tornato nella terra dei sogni. Non male in meno di due minuti. Dopo essermi segnato vendetta nel mio calendario mentale, mi ributtai sul cuscino. Chiusi gli occhi, pronto ad addormentarmi subito.

    O anche no.

    Dormi, comandai alla mente, adesso.

    Va bene, falsa partenza. Adesso!

    Adesso.

    Va bene, facciamo sul serio. Svuota la mente. Ci provai e persino la mia testa si sorprese del casino che ci trovò dentro. Avrei avuto bisogno di un camion da trasloco e di un magazzino per portar via tutta quella robaccia.

    Forse dovevo mettermi comodo. Mi tolsi l’orologio e lo buttai sul comodino senza guardare, dando il via a un effetto domino. Praticamente tutto quello che c’era sul ripiano cadde per terra con clangore, compresa una manciata di monetine che cominciarono a rotolare.

    «Rain,» grugnì Danny, la voce arrocchita dal sonno.

    «Scusa.»

    Mi girai sul fianco, rivolto verso la sua schiena, e gonfiai il cuscino. Almeno non dovevo alzarmi presto per andare al lavoro. A meno che ci chiamassero per un’emergenza, non avrei dovuto mostrare la mia faccia in centrale fino a mezzogiorno. L’unica cosa che avevo pianificato era un incontro con la mia agente immobiliare alle dieci. La mia padrona di casa mi aveva fatto intendere che avrebbe voluto affittare la proprietà alla figlia, dato che il contratto era arrivato al termine, quindi dovevo trasferirmi. E Mary Anne sosteneva di aver trovato la proprietà perfetta per me.

    «Ehi,» sussurrai forte.

    Danny sospirò. «Che c’è?»

    «Domattina, prima di uscire, puoi assicurarti che sia sveglio? Devo incontrare Mary Anne alle dieci e non vorrei addormentarmi.»

    «So che mi pentirò di averlo chiesto, ma chi cavolo è Mary Anne?»

    «L’agente immobiliare. Ti ricordi. L’hai conosciuta.»

    «Aspetta, è quella tipa fastidiosa che usa la parola caruccio per descrivere qualsiasi cosa?»

    «Non è così male,» dissi per lealtà.

    E invece era così male. Le camere da letto erano carucce, i bagni carucci, il portico caruccio, la terrazza – indovinate! – caruccia. Se mi fossi tagliato la gola nella cucina spaziosa della casa in vendita, avrebbe detto che lo schema delle macchie di sangue era proprio caruccio.

    Toccò a Danny interrompere la quiete. «Non avevo capito che stessi ancora cercando una casa.»

    «La mia padrona di casa vuole affittarla alla figlia. Te l’ho detto.»

    «Però comprare casa… è un passo importante.»

    Sbattei le palpebre. «Be’, Daniel, credo che il dipartimento non la prenderebbe bene se diventassi un barbone.»

    «Potrei venire con te.»

    «Non ti disturbare,» dissi subito.

    «Sembra che tu non mi voglia con te,» ribatté con sospetto.

    Il ragionamento deduttivo era sempre stato il suo forte. Le ultime due volte che mi aveva accompagnato nella mia ricerca di una casa, non mi aveva mai minimamente incoraggiato. Anzi, aveva trovato qualcosa di negativo in ogni proprietà che Mary Anne ci aveva mostrato.

    Sbuffò al mio silenzio. Diedi un pugno al cuscino, ammucchiandolo sotto l’orecchio. Poi lo girai dal lato fresco. Dall’altra parte del letto mi giunse un mormorio irritato.

    «Scusa,» sussurrai forte. «Sono un po’ teso.»

    Danny imprecò e si girò a guardarmi. Con poche mosse pratiche, mi fece stendere sulla schiena. E non aveva ancora finito. Lo guardai sorpreso quando mi tirò giù i boxer fino alle cosce. «Che fai?»

    «Sono passati tre giorni, Rain. Ti sei già dimenticato cos’è un pompino?» Fece scivolare le dita ruvide sulle mie palle, provocandomi un gemito di contentezza. «Questo è l’unico metodo sicuro per farti addormentare.»

    «La mamma mi dava un tè alle erbe e mi leggeva una storia.»

    Fece uno sbuffo divertito. «Ho metodi miei.»

    Per me non era un problema, soprattutto se quei metodi comprendevano una bella leccata alla mia mezza erezione. Mi sfuggì un suono avido e lui ridacchiò prima di passare quella lingua abile sulla mia lunghezza un po’ di volte, dalla radice alla punta e poi giù. La mezza erezione diventò completa con poche leccate. Stavo per lamentarmi di quella provocazione, quando mi risucchiò nella sua bocca.

    Ansimai e mi inarcai, per pura reazione, infilandogli l’uccello ancora più a fondo nella gola. Mi appoggiò una mano sulla pancia e mi spinse in basso con fermezza. La suzione era accompagnata da suoni umidi e io cercai di spingere ancora. Non riuscii a muovermi molto sotto il peso del suo braccio, anche se spingevo i fianchi disperatamente.

    Non fu un pompino lento e pigro, come quello con cui mi svegliava la domenica mattina. Mi portava al limite finché pensavo che non sarei più riuscito a trattenermi, a volte usando un giocattolo nel mio sedere per assicurarsi che esplodessi come un razzo quando alla fine mi permetteva di raggiungere l’orgasmo. Stavolta fu più rapido, più sporco, più affrettato. A dire il vero, non sapevo cosa preferissi, se lento e tranquillo, con le nostre mani intrecciate, o veloce e sporchissimo, con le mie dita aggrappate ai suoi capelli folti tanto forte che ero sorpreso di non ritrovarmene in mano delle ciocche.

    Quel buio silenzioso aumentava al massimo ogni sensazione. Vedevo a malapena la sua testa che andava su e giù. Non c’erano sguardi maliziosi da sotto quelle folte ciglia scure. Non riuscivo a vedere il mio cazzo, che non sembrava mai così lungo come quando spariva nella sua bocca, scivolare dentro e fuori quelle labbra gonfie, lucide di saliva.

    Ma lo ricordavo.

    Le visioni oscene immagazzinate nella mia memoria mi scorrevano nella mente come un film. Sembrarono passare pochi secondi prima che gli venissi nella gola con un grido violento. Mi accarezzò le cosce e sussurrò cose che non riuscii a capire perché stavo ancora galleggiando nell’estasi. Giocosamente strofinò il naso sulla mia pancia e poi scivolò in alto sul mio corpo per baciarmi, a fondo. Inseguii il sapore del mio orgasmo finché non mi resi conto che ero stato troppo a fondo nella sua gola per venirgli in bocca.

    Quando parlai, la mia voce era rasposa, come se non la usassi da anni. «Vuoi che…»

    «Non ora. Dormi, adesso.»

    Era stata un’offerta stupida comunque. Non ero nemmeno sicuro di riuscire a muovermi. Il massimo che potevo offrire era di fargli da inquietante manichino sessuale mentre si masturbava su di me. Gli lasciai il controllo, partecipando assonnato mentre mi tirava su i boxer e mi prendeva tra le braccia. Più tardi ci saremmo separati, ma per ora la sua stretta era proprio ciò di cui avevo bisogno.

    Il sonno mi investì come un treno merci, appesantendomi gli arti e la mente. Fu un sollievo sentire che perdevo i sensi, come se fosse una graduale anestesia. La tensione gocciolò via dalle spalle e dalle gambe, finché, come in un trucco magico, tutto il mio corpo si afflosciò e rilassò.

    «Sono contento di averti a casa,» fu l’ultima cosa che sentii, come un sottilissimo sussurro sulla tempia.

    Sono contento di essere a casa. Ero troppo stanco per dirlo, riuscii solo a biascicare qualche parola per fargli capire che ero d’accordo.

    2

    La casa proposta fu un fallimento.

    Anche se aveva quasi tutto ciò che avevo richiesto a Mary Anne, finii per scartarla. Il notevole carattere del parquet scricchiolante era superato alla grande dal fantasma che la infestava, Mabel. Trent’anni prima era caduta dalle scale ed era ancora risentita per il tempo che ci aveva messo quell’apatico del figlio a trovarla.

    «Due cavolo di settimane,» aveva borbottato, infilzandomi il petto con un dito ossuto. «Ci credi?»

    Dopo averla conosciuta per cinque minuti? Sì. Sì, ci credevo. Mugugnai qualcosa di evasivo e lei mi guardò a occhi stretti. Era palese che dovessi lavorare sulla mia faccia da poker perché il suo sguardo sospettoso diventò un vero cipiglio, poi mi infilzò di nuovo, fortissimo.

    L’irascibile Mabel spiegava il prezzo da occasione che Mary Anne aveva proposto con riluttanza. Quando avevo aggiornato Danny, non era sembrato troppo affranto. Anzi, sembrava quasi che fosse sollevato.

    Arrivato al parcheggio alla centrale di polizia, rubai il posto a un’auto di pattuglia che se ne stava andando. Come sempre, il dipartimento di polizia di Brickell Bay era un alveare operoso di attività. L’edificio era più alto che ampio, squadrato e quasi anonimo. Anche se il mio precedente posto di lavoro era stato più nuovo e moderno, non mi mancava molto.

    Dopo essere passato attraverso il metal detector e per due posti di controllo, mi corressi. Mi mancava un ascensore affidabile. Come il resto del BBPD, era antico. Era anche lentissimo e si fermava con una scossa a ogni piano. Salii con cautela e quello sobbalzò come se pesassi una tonnellata. Premetti il bottone del piano e aspettai che l’ascensore riflettesse sulla mia richiesta, con le porte ancora spalancate.

    Ogni volta che ci entravo, mi sembrava di aver imbrogliato la morte, come se l’unica cosa che ci fosse tra me e una fine orribile fosse un ascensore tenuto insieme da corde, nastro adesivo e preghiere. Però valeva il rischio quotidiano. Quelli che approfittavano delle scale per fare esercizi cardio erano la vera leggenda metropolitana, qualcosa di cui si sentiva parlare ma che nessuno credeva esistessero davvero.

    Le porte si chiusero con uno strattone e la cabina salì traballante.

    Il piccolo nucleo di uffici della PTU era al secondo piano, infilato in quello che era stato l’archivio. La nostra sezione non era per nulla sofisticata e a noi andava benissimo. La segretaria, Macy, a volte si lamentava che sapesse ancora un po’ di umidità, e usava con ossessione un deodorante per ambienti. Non sapevo se preferissi quel sentore di umido insieme al profumo primaverile per ambienti o al naturale, ma lei era felice così, quindi non mi lamentavo.

    Lo spazio consentiva a ognuno di avere un piccolo ufficio, il che era un miglioramento e una fortuna inattesa. Rientrava anche nella categoria di cosa estremamente necessaria per non uccidere Nick e Kevin. Nella vecchia collocazione, con molto spazio aperto e divisori, quei due potevano discutere per trenta minuti sulla pizzeria che usava più formaggio. Avevamo anche una grande sala riunioni con enormi lavagne di sughero e lavagne bianche. Nel quartier generale della PTU c’erano anche stanze per gli interrogatori, un bagno e un cucinino.

    La nostra unità era piuttosto isolata. Mi piaceva pensare che fosse per una questione di comodità e non perché volessero tenerci segregati. Il fatto che non dovessimo lasciare il piano se non al momento di andare a casa era… una felice coincidenza, ecco.

    Finalmente l’ascensore mi depositò al secondo piano. Quando mi avvicinai al bancone, Macy era al telefono. Alzò lo sguardo con un sorriso. Indossava un twin set coperto di gatti, e i capelli grigio ferro erano raccolti in uno chignon che sapeva di dover stare ben tirato. Puntò un dito al cucinino e quasi battei qualsiasi record di velocità per arrivarci. Era bravissima a fare i dolci e per questo le perdonavamo le telefonate inoltrate all’interno sbagliato e il rifiuto di usare apparecchi che fossero diavolerie moderne. Potevo solo sperare che il resto della squadra non si fosse già ingozzata di quello che aveva preparato.

    Andai dritto al contenitore sul bancone. Con il rischio di una delusione monumentale, dalla quale mai mi sarei ripreso, alzai con molta cautela il coperchio e sbirciai dentro. Restavano due paste danesi. Per un attimo mi chiesi se Kevin St. James, il partner di Danny e aspiratore di cibo ambulante, fosse ammalato. Afferrai le paste, le misi su un piatto di carta e me la svignai.

    Staccai un pezzettino e lo infilai in bocca. Era alla fragola, la preferita di Kevin. Mi preoccupai ancora di più riguardo alla sua salute. Dato che teneva per abitudine la porta aperta, cosa che ci permetteva di vederlo superare costantemente i record personali di consumo di alimenti, sbirciai nel suo ufficio quando passai. Era seduto alla scrivania, telefono all’orecchio, e sgranocchiava un sacchetto di platani con allarmante efficienza.

    Kevin era un ex quarterback dai capelli biondi e occhi azzurri, il cui aspetto sano e affidabile di solito lavorava a suo favore, specialmente quando interrogava i sospettati. Prima che riuscissero a rendersene conto, avevano già detto troppo. Ero sicuro di non averlo mai visto senza cibo in bocca. Per sua fortuna, era alto e massiccio, quindi tutte quelle calorie avevano un sacco di posto in cui stiparsi.

    Quando mi notò, alzò un dito, ma finsi di non vederlo. La data ultima per condividere le paste era passata. Il mio stomaco aveva parlato e il mio culo doveva rassegnarsi.

    Quando raggiunsi il mio ufficio, lo avevo alle calcagna. «Amico.»

    «Io amici non ne ho,» lo informai buttandomi sulla mia sedia dietro la scrivania.

    «Perché non hai aspettato? Non mi hai visto fare così?» Alzò l’indice per mostrarmi come aveva fatto. «Non sai cosa vuol dire?»

    Strinsi gli occhi e provai a indovinare. «E.T. telefono casa?»

    Si accigliò. «Dov’è McKenna?»

    «Credo che sia a una riunione. Dovrebbe arrivare.» Accesi il computer, altrimenti noto come la sola cosa nuova nel mio ufficio. Mi rifiutavo di usare qualcosa su cui un dinosauro avrebbe potuto googlare la parola meteora. «Sono sicuro che possiate vivere separati per più di sei minuti.»

    La sedia per i visitatori cigolò in modo allarmante. Alzai gli occhi, sorpreso di trovarci ancora Kevin. Sorrideva affabile… finché il suo sguardo non finì sulle mie paste.

    Ci fu una breve battaglia oculare. Il mio sguardo d’acciaio gli diceva che sarei arrivato a leccare la pasta pur di reclamarla. I suoi occhi fermi mi dicevano che sarebbe arrivato a mangiare una pasta leccata. Poi mi rivolse due enormi occhioni da cucciolo. Ero spacciato.

    Spinsi un po’ il piatto verso di lui. Con mia sorpresa, mostrò un certo controllo e prese quella da cui mancava un pezzettino. La ripulì in due bocconi e poi si massaggiò la pancia con un sospiro.

    «Solo una?» chiesi.

    «Devo rallentare un po’,» disse, leccandosi le dita zuccherate. «Ne ho già mangiate sei. Mia moglie pensa che sia a una pasta di distanza dal coma diabetico.»

    Incrociò le gambe alle caviglie. Era a suo agio, nutrito, e come una peste fastidiosa, non aveva fretta di smammare. «Volevi il mio aiuto per qualcosa?» chiesi.

    «In realtà, sì.» Sorrise prima di abbassare la voce. «Il tenente vuole parlare con te.»

    «Come? Quando? Perché?» Cercai di smettere di fare domande impanicate, ma non riuscivo a trattenermi. Era raro che le conversazioni con il tenente Tate fossero piacevoli. «Sei sicuro?»

    «Ha chiesto specificamente di te.»

    «Ma perché? È Danny a capo dell’unità.»

    «Lo so. Ma lui non c’è e tu sì, quindi sei tu al comando della nave.»

    «Ma tu hai l’anzianità.»

    Si strinse nelle spalle. «Questa unità era un’idea tua.»

    «Non era un’idea mia, era di Danny.»

    «Allora dovrebbe parlare a Danny,» ribatté prontamente.

    «Danny non c’è,» gli rammentai.

    «E così si ricomincia.»

    Mi incupii. E pensare che avevo cenato a casa sua durante le feste e avevo portato dei fiori alla sua incantevole moglie. «Non sono dell’umore di farmi sgridare da Tate.»

    «Allora saresti dovuto rimanere a casa,» concluse saggiamente.

    «Christiansen!» Il ruggito di Tate arrivò dal corridoio come se l’avessi evocata con il solo pensiero. Il tacchettare ritmico sembrava un cattivo presagio, come un montaggio di Koyaanisqatsi ¹. «Ti devo parlare.»

    «Non pronunciare mai il suo nome,» sussurrò Kevin alzandosi. «È come Beetlejuice.»

    «E tu dove pensi di andare?» gli chiesi.

    «Ho due casi aperti. Il lavoro non va avanti da solo.»

    «Aspetta un…»

    Il mio sussurro arrabbiato si ridusse a un balbettio quando l’alta figura del tenente Tate si stagliò sulla porta. Sarebbe stato un errore giudicarla per i suoi migliori attributi: la pelle scura e levigata, i lineamenti delicati e gli occhi languidi incorniciati da lunghe ciglia. No, era meglio concentrarsi su quel cipiglio, perché era così che comandava. Con un pugno di ferro. Con il bastone della tirannia brandito al meglio.

    «Christiansen, dobbiamo parlare.» Arrivò a passo di marcia alla mia scrivania e occupò una delle sedie. «Hai sentito le ultime riguardo al caso di Lottie Hereford?»

    «No, sono appena arrivato…»

    «La studentessa di odontoiatria,» specificò con impazienza. «Ricordi il suo ex ragazzo che ha ucciso lei e i suoi due bambini? Jon Gable?»

    «Sì, conosco il caso. Non ho sentito aggiornamenti…»

    «Mi verrebbe da pensare che certi casi ti interessino abbastanza da tenerti informato.»

    Mi girai verso Kevin per avere sostegno morale e trasalii quando vidi solo una sedia vuota e un tovagliolino appallottolato. Pensai per un attimo a quanto fosse maleducato: se impari

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