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E-book531 pagine7 ore

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La passione non ha mai fine

Dall'autrice del bestseller Chiudi gli occhi

Sono trascorsi sei mesi da quando Mads se n’è andato e nella vita di Josephine sono cambiate molte cose. Il suo rapporto con Ben si è di nuovo raffreddato, la sua amica Celine frequenta un biologo e ha molto meno tempo per lei. Sempre più sola, Josephine si rifugia allora tra le pareti della Maison, l’unico luogo in cui sente ancora viva la presenza di Mads e dove si lascia sedurre dal mondo della dominazione, insieme a un giovane musicista. Tuttavia, in seguito all’aggressione subita, inizia a soffrire di attacchi di panico e l’angoscia la spinge ad affidarsi a un terapeuta. Un uomo dal fascino rude, lo sguardo intenso e molti tatuaggi. Dopo un inizio di terapia estremamente conflittuale, Josephine comincia a lasciarsi andare. E in seguito alla scoperta di un oscuro segreto di famiglia, il loro rapporto diventa sempre più profondo...

Passione e seduzione: una storia indimenticabile di amore e rinascita

«Monique Scisci merita di essere letta. Saprà conquistarvi, affascinarvi, ammaliarvi.»

«L’autrice ha saputo creare due personaggi allo stesso tempo forti ma con grandi fragilità, determinati e intraprendenti, capaci di farvi vivere la loro storia in maniera appagante e con un filo di adrenalina che davvero non guasta.»

«Mi è piaciuto molto lo stile della scrittrice: armonioso, coerente, lineare.»
Monique Scisci
vive alle porte di Milano. Si è laureata in Comunicazione all’Università di Lingue e Comunicazione IULM. Ha scritto diversi romanzi tra cui fantasy, romance e racconti horror. Prima di Un nuovo inizio, la Newton Compton ha pubblicato Chiudi gli occhi.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ott 2018
ISBN9788822727015
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    Anteprima del libro

    Un nuovo inizio - Monique Scisci

    Capitolo 1

    L’abbandono è una delle sensazioni più feroci che un essere umano sperimenta e io lo vivevo giorno dopo giorno, appena aprivo gli occhi. Lo sconforto che si prova quando si viene lasciati è di certo l’emozione più vicina alla disperazione che sentiamo in seguito a un evento luttuoso. In entrambi i casi, a prescindere dalla nostra volontà, veniamo privati di un pezzo di noi.

    E così, oscillavo tra momenti di delusione e rabbia, tristezza e angoscia, sentivo di aver perso l’entusiasmo. Spesso avevo la sensazione di vivere fuori dal tempo, in una specie di bolla sospesa. Molto dipendeva da come mi svegliavo la mattina o dal sogno che avevo fatto la notte precedente. In realtà, si trattava più che altro di incubi e la maggior parte riguardava Mads. Il fatto è che mi mancava. Mi mancava come l’aria dopo una corsa a perdifiato. Mi sentivo monca, senza una gamba o un braccio o peggio, senza entrambi. Ero contaminata dal dolore e ogni cosa, anche il più piccolo dettaglio che mi riportava alla mente lui, gettava un’ombra sulle cose che facevo. La sua assenza era ovunque. Ero in balia di un sentimento vivo che non smetteva di torturarmi perché nel profondo nutrivo l’irragionevole speranza che le cose sarebbero potute cambiare. Eppure sapevo che non era possibile.

    I mesi successivi al viaggio in Svezia erano stati difficili, la mia vita aveva subìto dei cambiamenti e io mi sentivo come se qualcuno avesse riarredato casa a mia insaputa. Il contraccolpo che avevo accusato durante quei tre giorni aveva creato una frattura. La persona che ero prima di Mads non c’era più e nemmeno la donna che ero stata con lui. In chi o cosa mi fossi trasformata, non saprei dirlo. Andavo avanti, cercando di recuperare i pezzi lungo il tragitto. Il fatto è che non avevo solo perso l’uomo che amavo, le condizioni di salute di mia madre erano stabili, ma Parker era tutto fuorché ottimista e questo mi rendeva inquieta e il rapporto con Ben era tornato a essere burrascoso, avevo persino il timore che avesse ricominciato a fare uso di droghe. Il nostro era sempre stato un legame complesso, fatto di lunghi silenzi e liti furiose, tuttavia, sulla scia di alcune modifiche che ero stata costretta a fare, gli avevo proposto di ricoprire il ruolo che gli spettava in azienda. Celine aveva detto che durante la mia convalescenza si era adoperato parecchio, soprattutto dopo l’incriminazione di Wallace, e alla fine mi ero convinta a dargli il beneficio del dubbio. Inoltre volevo tenerlo vicino, Ben era sempre sull’orlo del baratro, tuttavia lui non aveva voluto saperne. Detestava la lac. «È la causa dei nostri mali», sosteneva con la rabbia negli occhi ogni volta che tentavo di aprire il discorso. «Sai quelle quote dove puoi infilartele?», grugniva quando gli facevo notare che doveva pensare al suo futuro. «Non ci sarò sempre io a mettere le toppe», tentavo di farlo ragionare, ma alla fine dovetti desistere. Qualche tempo dopo Ben fece le valigie e andò via di casa. Persino Marcela si dispiacque per la situazione, non tanto per Ben, il quale manifestava un irrispettoso quanto esasperante atteggiamento nei suoi confronti, più che altro per me. Avevo anche licenziato il mio assistente e ora tutte le faccende di cui si occupava lui ricadevano su di me. Mark aveva sempre saputo di Mads, del suo segreto, ma dando per scontato che fossi al corrente della situazione, non aveva mai voluto aprire l’argomento. A mente lucida ammetto di aver agito di impulso, preda di un dolore così forte da sovrapporsi alla ragione, al momento feci ciò che ritenni necessario: lo cacciai via. Ora lavorava come account per una rivista di automobili e viveva con Ben in un monolocale sulla Broadway. In ogni caso, avrei dovuto ridimensionare il mio stile di vita poiché ero stata costretta a vendere una quota della lac.

    Ma facciamo un passo indietro.

    In seguito all’aggressione, l’accordo con la GlobeInt era saltato. Cosa vi avevo detto a proposito della popolarità? Finché hai successo le persone respirano la tua stessa aria, ma quando inizi a perdere si volatilizzano. Negli affari il concetto si amplifica. Durante il processo Wallace, la lac aveva perso molti clienti, soprattutto quelli storici, gli ultimi fedeli a Carlisle. Gli eventi si erano susseguiti in un’escalation inarrestabile. Il party di beneficenza organizzato da Sophie Gentry per rilanciare l’agenzia era stato un completo disastro. Durante i festeggiamenti ero stata assalita da domande anche di natura personale che avevano intaccato la mia credibilità davanti agli occhi di tutti, specialmente dei giornalisti, avvoltoi in agguato famelici di indiscrezioni. Persino un paio di membri del consiglio filo-wallaciani aveva pensato bene di infierire durante quell’occasione, forti del supporto di alcuni ospiti venuti con il solo intento di mettere in discussione il mio ruolo. Secondo Sophie Gentry, estendere l’invito ai concorrenti della lac avrebbe dato un forte segnale di ripresa, del tipo: Nonostante tutto siamo ancora qui. Ovviamente, la mia impavida addetta stampa si sbagliava. Avevamo volontariamente messo il culo sul braciere e ci eravamo scottati. Ancora scossa dagli eventi che avevano caratterizzato l’ultimo periodo e reduce dal viaggio in Nord Europa, non ero riuscita a fronteggiare con il solito savoir-faire la mole di accuse che mi erano state rivolte e l’indomani, sui giornali, erano apparsi articoli aspri sul mio conto. L’opinione comune era che il caso Wallace avesse, una volta per tutte, evidenziato la mia scarsa attitudine a gestire crisi di natura aziendale e la mia età contribuiva a complicare la situazione. Inoltre, diciamocelo, nonostante la parità dei sessi dovrebbe essere qualcosa di ormai conclamato, ero pur sempre una donna in territorio nemico, questo in particolare mi diede il colpo di grazia. Avevo mietuto querele tra le testate più popolari, ma il danno era stato fatto e la lac aveva perso punti sul mercato. Quale cliente si sarebbe rivolto a noi per il lancio di qualsivoglia attività?

    Avevo licenziato gli infedeli, riducendo il consiglio a un pugno di mosche rimaste al mio fianco non tanto per affiatamento o dedizione, quanto più per necessità. A quel punto le azioni di Wallace avevano innescato un pericoloso quanto inarrestabile effetto domino. Stavo perciò considerando la possibilità di vendere, sebbene l’idea contribuisse ad ampliare il vuoto provocato dall’assenza di Mads. Cosa avrei fatto senza la lac? Era la mia casa, il luogo più familiare che conoscessi, ed era, soprattutto, l’unica cosa che mi rimaneva. Tuttavia, la situazione stava precipitando, i debiti dell’agenzia aumentavano giorno dopo giorno. Riuscivo a stento a pagare gli stipendi, i fornitori mi stavano addosso piantonando l’ufficio amministrativo, i pochi clienti rimasti esigevano risposte, ma il reparto creativo, ridotto all’osso a causa dei tagli al personale, produceva idee poco efficaci. Alcuni utenti minacciarono di farmi causa e affrontare una battaglia legale era l’ultima cosa di cui avevo bisogno, avevano avvertito gli avvocati. Mentre la mia vita andava in pezzi, continuavo a ripetermi che mi sarei reinventata in qualche modo, di certo non mi sarei rintanata in un angolo a leccarmi le ferite. «Bisogna cercare di cadere in piedi», sosteneva Carlisle e nelle mie vene scorreva il suo sangue, dovevo pur avere da qualche parte le carte in regola per risollevarmi, no?

    Dopo la tempesta il team di legali che mi affiancava per gestire questioni inerenti al business aziendale aveva ammassato sulla mia scrivania decine di proposte per risanare i conti della società e coprire il debito con le banche a cui, privi di un’affidabilità creditizia, non potevamo chiedere aiuto. Poiché Ben mi aveva delegato il suo venti percento e avendo io assorbito la quota di Wallace, in qualità di amministratore unico rischiavo, inoltre, di perdere i beni personali come la casa, per esempio. Vendere sembrava essere l’unica soluzione, ma più ci pensavo, più l’idea mi ripugnava. Doveva pur esserci un’alternativa. Trascorsi giorni interi ad arrovellarmi, furono innumerevoli le volte in cui, nel cuore della notte, mi attaccai al computer, rifeci i conti, scartabellai documenti, girai per casa come un’anima in pena in attesa di una soluzione, che alla fine arrivò. Decisi di affidarmi a degli investitori ai quali chiesi le risorse necessarie per ristrutturare l’agenzia. La lac valeva poco sul mercato e gli imprenditori interessati erano perlopiù mercenari privi di scrupoli, gente che acquistava e vendeva società non tanto per guadagnare sugli interessi derivati da un prestito, quanto più per ottenere surplus sul capitale e ingrassare il proprio portafoglio. Dopo un’attenta riflessione e accese discussioni con Ben il quale pretendeva che vendessi la società per occuparmi della mia vita, dopo lunghi confronti con gli avvocati e riunioni infinite con l’ormai esiguo consiglio, scorporai le quote di Wallace tra quattro investitori. Questo non significava che avevo più tempo per me, anche perché del tempo non avrei saputo che farmene ora che Mads era lontano, ma in ogni caso mi permetteva di tirare un sospiro di sollievo e di tenermi stretto ciò che era mio. L’unica costante era Celine, su di lei potevo ancora fare affidamento, ma per quanto avrebbe continuato a sorreggere i miei fardelli interiori? Non era così remota la possibilità che un giorno si sarebbe fatta una vita. Da qualche mese, infatti, frequentava un certo George e le cose fra loro sembravano procedere a vele spiegate. Lui non era il solito toy-boy con cui si divertiva a trascorrere il tempo, George era un uomo fatto e finito. Chissà, magari si sarebbero sposati, avrebbero avuto dei figli e io, che non avevo prospettive future da quel punto di vista, avrei dovuto assistere in disparte allo svolgersi della loro vita di coppia. Volevo che Celine fosse felice, non solo ne aveva tutto il diritto, ma anche il bisogno. Dopo tante storie senza senso, al suo fianco ci voleva qualcuno che sapesse valorizzarla, perché lei era una persona speciale. Però sentivo già la sua mancanza.

    Dopo aver sistemato le questioni inerenti alla lac, mi ero concessa del tempo per riflettere sulle parole di Mads a proposito dell’inclinazione switch. Sarei stata in grado di possedere qualcuno con la stessa intensa forza con lui aveva posseduto me? Ma, soprattutto, era davvero ciò che volevo? Sapevo di appartenergli ancora e forse sarei stata sua per sempre. Quando Celine e io tornammo a New York dalla Svezia, una delle prime cose che Alyssa mi disse, fu: «Ti avevo avvisato, Jos, avresti dovuto stargli alla larga perché quando una schiava si innamora del proprio Padrone, nel suo cuore non c’è più posto per nessun altro. Nessuno sarà in grado di immergersi così tanto in profondità, nessuno potrà riempire quello spazio, capisci? Non è una questione di sentimenti o di emozioni, non solo perlomeno. È il bisogno di appartenenza, la necessità di sentirsi sua, la dipendenza che scava dentro lasciandoti senza respiro. Quell’amore è totale, Jos, devastante. Io ti avevo avvisato». Anche Mecy aveva tentato di mettermi in guardia, ma io non avevo voluto ascoltare nessuno. Ero andata dritta per la mia strada, veloce come un treno, a occhi chiusi, ma con il cuore spalancato.

    A ogni modo dovevo scoprire se Mads avesse ragione a proposito della dominazione, così chiesi aiuto ad Alyssa. Stare con lei, oltretutto, creava una specie di legame tra la persona che ero stata con Mads, la sua sottomessa, e la donna che forse avrei potuto diventare tra le pareti del Dungeon, una dominatrice. Alyssa mi permise di partecipare alle sue sessioni. All’inizio feci fatica, nondimeno perché il suo livello di sadismo superava di gran lunga il mio immaginario. Perdipiù rimettere piede alla Maison fu difficile. Lì dentro c’erano troppi ricordi. Mi sentivo schiacciata ogni volta che oltrepassavo il portone rosso. Portavo sempre con me la chiave che Mads mi aveva donato, ma ci volle del tempo prima che decidessi di utilizzarla. E poi, non ero sicura che mi sarei sentita a mio agio nei panni della Mistress. Avevo ancora bisogno di appartenere, ma ero altrettanto sicura che non ci sarebbe mai stato nessun altro Padrone. Come avrei potuto inginocchiarmi ai piedi di un uomo che non fosse Mads?

    Dopo qualche tempo Alyssa mi presentò un certo James, un ragazzo di venticinque anni che studiava musica. James era bello, prestante e incline alla sottomissione. Era estraneo al mondo sommerso, e in un certo senso lo ero anch’io, almeno dal punto di vista del ruolo che mi apprestavo a interpretare. Alyssa disse che James era perfetto per me e che con lui potevo fare pratica sotto la sua attenta supervisione. All’inizio, feci resistenza. Inoltre, era subentrato un problema che non riuscivo a gestire. Avevo forti crisi di ansia. Non potevo prevenirle, tantomeno controllarle. Celine, che con il passare degli anni era diventata ipocondriaca, aveva cercato informazioni su Wikipedia: «L’attacco di panico è una patologia seria, Jocy», aveva detto mentre bevevamo un caffè nella nostra solita caffetteria. «Addirittura?», avevo minimizzato, ma che si trattava di una faccenda complessa lo avevo capito il giorno in cui caddi per colpa di Harriet nella villa di Cambridge. Ecco perché alla fine, seguendo il consiglio della mia amica, avevo accettato di vedere un terapeuta. Non che fossi incline a spifferare le mie questioni private a un perfetto estraneo, solo avevo bisogno di qualcuno che fosse in grado di darmi delle risposte, meglio ancora se questo qualcuno fosse soggetto al segreto professionale.

    Capitolo 2

    Il dottor Gabriel Morgan era un uomo dal fascino rude, voce calda e sguardo intenso, uno di quegli sguardi capaci di comunicare. Aveva quarantadue anni, moro, fisico atletico, spalle larghe e molti tatuaggi che sbucavano dai risvolti delle camicie. Le rughe di espressione contribuivano a conferire al suo volto un’aria di vita vissuta, di esperienze fatte, di storie che gli avevano lasciato addosso segni e cicatrici. Sulla sua biografia avevo letto che era nato a San Diego nel 1976, suo padre era stato un noto giocatore di basket, mentre la madre aveva insegnato storia. Aveva iniziato a studiare psicanalisi a New York, dopo un dottorato in antropologia si era successivamente specializzato in terapia cognitivo-comportamentale presso l’Istituto Beck e ora il dottor Morgan possedeva un bellissimo studio privato nel cuore di Soho, all’interno di un edificio industriale dei primi anni del Novecento. In seguito scoprii che viveva dalle parti di Hell’s Kitchen.

    Con lui le cose procedettero per gradi. Aveva un carattere deciso, mi sfidava e tendeva a interpretare ogni mio sospiro, il che fece leva sulla barriera che avevo eretto per nascondermi da sguardi indiscreti. Il nostro primo incontro fu bizzarro. Arrivai con dieci minuti di ritardo. Mi giustificai adducendo come scusa un improvviso impegno di lavoro. In realtà, fino all’ultimo ero stata tentata di disdire l’appuntamento. Restai in auto il tempo necessario per capire se ero pronta, chiedendo a J di rimanere nei paraggi qualora avessi deciso di sospendere anzitempo la seduta.

    Il dottor Morgan mi accolse con un sorriso furbo che interessò tutti i lineamenti del volto. Mi strinse la mano e mi invitò ad accomodarmi sulla chaise longue di pelle nera che aveva l’aria di essere comoda, ma sulla quale non volli sedermi. «È un must della psicoterapia», scherzò lui. «Qualcuno ci si addormenta pure», aggiunse strappandomi una risata contenuta. Optai, invece, per la poltrona dal lato opposto della sua scrivania. «Di solito mi sdraio al terzo appuntamento», lo presi in giro e lui accolse la battuta annuendo divertito. Se non altro, sapeva stare al gioco.

    Nonostante i modi gentili e il senso dell’ironia, rimasi sulla difensiva per tutto il tempo, gambe incrociate e braccia conserte, mentre lui cercò in tutti i modi di mettermi a mio agio. Ero sempre stata convinta che i terapeuti dovessero ascoltare anziché parlare, invece, il dottor Morgan si dimostrò faticosamente loquace e se da una parte questo mi aiutò a entrare in contatto con lui, dall’altra mi confondeva. Non scappai dal suo studio forse perché in fondo le sue domande riflettevano gli interrogativi a cui cercavo di rispondere nella solitudine del mio appartamento, quando le luci del mondo si spegnevano e restavo sola con i miei demoni. Per qualche strano motivo, feci fatica a mantenere con il dottor Morgan la maschera di donna algida che amavo indossare appena uscivo di casa, c’era qualcosa nel suo modo di fare che mi attraeva. Terminati i convenevoli, volle sapere della mia famiglia. Mi aspettavo quella domanda, perciò risposi compilando la lista della spesa: «Mia madre ha la sindrome di Alzheimer, non ricorda nemmeno più chi sono. Mio padre è morto quasi sei anni fa, tutto quello che so sul lavoro, l’ho imparato da lui e mio fratello è un tossicodipendente pentito. Lavora nel bar di un teatro e convive con il suo compagno, ovvero il mio ex assistente», aggiunsi.

    Il dottor Morgan parve divertito dalla sintesi: «Mi parli di sua madre», propose schiarendosi la voce.

    «Non c’è molto da dire, siamo sempre state in contrasto».

    «Perché?», volle sapere.

    «Non ho mai dato troppa importanza alle cose che mi diceva e così, a un certo punto, ho smesso di ascoltarla».

    «Quali cose?», indagò sporgendo il busto sulla scrivania. Incastrò gli occhi nei miei, stabilendo un contatto. Ingurgitai un grumo di saliva imponendomi di non distogliere lo sguardo. Quell’uomo era magnetico.

    «Diciamo che ho disatteso le sue aspettative seguendo le orme di mio padre», risposi infine.

    «Si sente in colpa per questo?», domandò lui.

    «Nient’affatto, ho solo assecondato la mia natura», dichiarai.

    Il dottor Morgan annuì serio.

    «E suo padre, Carlisle Lewis?»

    «Mi ha insegnato tutto quello che so», risposi in fretta. La verità è che cercavo di pensare a lui il meno possibile.

    «Avevate un bel rapporto?»

    «Dipende da cosa intende», dissi schiarendomi la voce. «Non era una persona facile, ma aveva un’alta considerazione di me, la stessa che io nutrivo nei suoi confronti. Ci stimavamo a vicenda e questo ha reso il nostro legame stimolante».

    «E cosa mi dice della sua figura paterna, che tipo di genitore è stato?».

    Assente, fu la prima risposta che mi venne in mente, ma tenni per me quella riflessione. Non avevo nessuna intenzione di indagare il mio rapporto con Carlisle, non ero lì per quello.

    «Voleva costruire qualcosa di grande per i suoi figli. Ha fatto quello che ha potuto».

    «Sembra che lei lo stia giustificando», mi fece notare lui interessato. Capii subito che la domanda non aveva dei secondi fini e mi sentii in dovere di fare delle precisazioni.

    «Mi ha chiesto di lui, le ho risposto».

    «Capisco…», disse spingendosi sulla poltrona. Mi fissò a lungo senza dire nulla. A un tratto mi sentii a disagio.

    «E suo fratello, il pentito?», cambiò discorso.

    Gonfiai il petto d’aria. «Parliamo poco. Io lo cerco, lui mi evita. Non abbiamo mai avuto un vero rapporto. Critica ogni scelta che faccio e ha tendenze autodistruttive. A ogni modo parlare di loro ci allontana dal motivo per cui sono venuta qui», trascesi.

    «Sì, l’ansia, certo», disse lui in tono calmo. «Vede Miss Lewis, il rapporto con i familiari contribuisce a fornire gli strumenti fondamentali che occorrono a raffrontarci con il resto della società. La famiglia è il primo ambiente con cui entriamo in contatto e crea una rete di relazioni che definisce le aspettative reciproche e l’identità di chi ne fa parte. La nostra vita è condizionata da questo legame primario. Ecco perché ho bisogno di avere più informazioni possibili al riguardo, per imparare a conoscerla», spiegò.

    «Perdiamo tempo», bofonchiai.

    «Si fidi di me», propose aprendosi in un sorriso sincero.

    «Per carità, la conosco appena», sbottai.

    «Sono il suo terapeuta, non posso farle male, Miss Lewis», cercò di rassicurarmi. «Lei è qui perché sa che posso aiutarla e il mio compito è quello di fare in modo che lei stia bene. Mi creda, sono molto ostinato da questo punto di vista».

    Riuscì a insinuarsi nella mia testa. Non so dire come o quando di preciso accadde, ma in poche sedute mi sentii libera di raccontargli tutto. Tranne che di Mads. Di lui non parlavo mai, con nessuno. Era il mio tabù.

    Durante quel primo incontro il dottor Morgan disse che le sedute avrebbero dovuto avere una cadenza settimanale: «La terapia è una cosa seria, Miss Lewis. Lei ha subìto un trauma, bisogna lavorarci su», spiegò quando gli feci notare che avevo poco tempo a disposizione. «Se vuole stare bene, dovrà concedersi lo spazio necessario. Le fatturerò anche le visite che annullerà», aggiunse fissandomi addosso uno sguardo che ebbe la capacità di trapassarmi.

    Iniziammo a vederci ogni giovedì alle sei e mezza del pomeriggio. Andavo da lui direttamente dall’ufficio. J mi aspettava puntuale sotto la lac dopodiché schizzava per le via della città silenzioso come sempre. Conoscendolo sapevo che preferiva di gran lunga accompagnarmi a Soho anziché ad Harlem.

    Quel pomeriggio arrivai come al solito in ritardo nel suo studio. Ero stata trattenuta da una riunione che si era protratta per l’intero pomeriggio, uno di quegli incontri in cui si parla tanto senza arrivare a una soluzione se non verso la fine, quando il cielo imbrunisce e le pance brontolano. Quando entrai nello studio, trovai Morgan seduto alla sua scrivania intento ad appuntare qualcosa sul un’agenda di cuoio. Scriveva in modo frenetico, le sue labbra erano arricciate e le rughe della fronte si incrociavano sfiorando l’arcata sopraccigliare. Alle sue spalle, dall’ampia finestra priva di tendaggi, si intravedeva un albero i cui rami erano pieni di bacche colorate. La primavera stava colorando l’atmosfera, pensai. Sollevò lo sguardo giusto il tempo di rifilarmi un’occhiata di rimprovero, dopodiché tornò a occuparsi dei suoi appunti. Anche lui, proprio come Mads, detestava le attese e quella non era la prima volta che arrivavo tardi. Mi sfilai il trench che sistemai sull’appendiabiti e raggiunsi la chaise longue in religioso silenzio. Gli avevo mandato un messaggio su WhatsApp per avvertirlo che avevo avuto un contrattempo, non c’era bisogno che aggiungessi altro.

    «Miss Lewis, non scalerò dalla parcella la mezz’ora di ritardo», avvertì qualche minuto dopo chiudendo l’agenda.

    «L’avarizia è una prerogativa dei ricchi», commentai sogghi-gnando.

    «Un’altra massima di suo padre?», mi provocò lui.

    «Solo una delle tante cose che si imparano bazzicando in certi ambienti», risposi stiracchiandomi la schiena. Non ero certo il tipo di persona che si lascia punzecchiare.

    «Ambiente cui lei appartiene», stabilì lui.

    «Sta generalizzando», gli feci notare.

    «Perché lei, no?».

    Sollevai le mani in segno di resa. Morgan si alzò e mi raggiunse.

    «Quante volte le ho sentito dire che il tempo è denaro?», chiese accomodandosi di fronte a me sulla poltrona di pelle nera.

    Sospirai, ma non risposi. Quella aveva l’aria di essere una ramanzina che non avevo voglia di sorbirmi.

    «Vorrei che capisse che il concetto non vale solo per il suo lavoro. Anch’io ho degli impegni e trenta minuti di seduta non sono sufficienti, Miss Lewis».

    Mi sporsi in avanti e poggiai i gomiti sulle gambe: «In trenta minuti riesco a chiudere contratti da milioni di dollari, dottore», replicai. «Sta a lei rendere proficuo il tempo che abbiamo a disposizione e qualcosa mi dice che perderci in chiacchiere inutili non è produttivo per nessuno dei due».

    Il dottor Morgan mi scrutò con attenzione, si passò la mano sul filo di barba che gli imbruniva il mento, poi disse: «Nonostante il velo di esasperante arroganza dietro cui si barrica per tenere lontane le persone, lei mi sta simpatica, Miss Lewis. Dico sul serio», aggiunse.

    «Sono sicura che gli assegni che le stacco ogni mese contri-buiscono a predisporla nei miei confronti».

    «Ma la spocchia non le dona», mi redarguì.

    Accavallai le gambe e presi a spolverarmi i pantaloni per manifestare la mia totale indifferenza al suo appunto.

    «Perché non mi racconta del professor Kavén?», saltò su.

    Mi voltai di scatto fulminandolo con lo sguardo più ostile che avessi in repertorio.

    «So che non ama parlare di lui…».

    «Infatti», osservai sulla difensiva.

    «Tuttavia…», riprese incurante del mio disappunto, «ormai è da un po’ che ci vediamo e abbiamo affrontato le questioni inerenti alla sua famiglia, le difficoltà che talvolta riscontra sul lavoro, l’aggressione che ha subìto a causa di Ryan Wallace. Penso sia giunto il momento di andare un po’ più a fondo», disse prudente. «Per quel poco che ho potuto capire dalle frasi che si è lasciata scappare sul professor Kavén, ho ragione di credere che sia ancora legata a quest’uomo».

    «Perché? Che cos’ha a che fare lui con l’ansia?»

    «Se n’è andato, l’ha abbandonata. Dopo suo padre mi sembra sia stato uno dei distacchi più faticosi da affrontare. Che significato ha avuto nella sua vita?».

    Per il dottor Morgan, forse, era difficile credere che una donna come me, di successo, abituata a risolvere problemi, non trovasse il modo di superare quella delusione d’amore. Gli avevo rivelato della mia propensione al sadomasochismo e in qualche modo aveva capito che Mads era stato più che un amante, ma come potevo spiegargli cosa aveva significato per me e cosa significava ancora, a distanza di mesi? Ma, soprattutto, ero sicura di conoscere la risposta?

    «Ci siamo dati quello che potevamo fino a quando le cose non si sono spinte oltre i confini in cui era ingabbiato il nostro legame. Confini invisibili, ma reali», aggiunsi spostando lo sguardo sulla vetrata.

    «L’amore è spesso il superamento di una barriera», commentò il dottor Morgan. «E quindi lui se n’è andato per questo, perché ha avuto paura?».

    Piegai le labbra in un sorriso amaro: «Semplicemente lui non poteva darmi di più».

    Il dottor Morgan si accigliò: «Non capisco», confessò spingendosi sulla schienale della poltrona. «Crede che non l’amasse abbastanza?».

    Scoppiai a ridere: «Non si tratta di questo», tornai seria. «Il fatto è che l’amore non vince su tutto. Vede, noi eravamo due cariche che non avrebbero mai dovuto incontrarsi».

    «Che significa?», insisté lui.

    «Esplodemmo», conclusi alzando lo sguardo.

    Già, esplodemmo o meglio, a esplodere ero stata io, in mille piccoli pezzi che si erano poi sparsi ovunque e ora il mio compito era di ritrovarli e di ricompormi, come diceva il medico dall’alto del suo scranno di quattrini. Sì perché, dio santo, duecento dollari a seduta per una media di cinque pazienti al giorno faceva di lui il Bill Gates della medicina mentale. Eravamo arrivati a marzo e io avevo superato le feste natalizie indenne. Dopo il viaggio in Svezia con Celine, avevo deciso che avrei indossato una maschera. Era l’unico modo per convivere con il mio dolore. L’apatia doveva essere la cura. Immaginavo il mio cuore come una fragola rinsecchita infilata nel congelatore a raffreddarsi. Non mi sarei mai più concessa il lusso di innamorarmi di un uomo come era successo con Mads, quel sentimento ti annientava. «Arriverà il giorno in cui ti accorgerai di averlo dimenticato», mi ripeteva Celine nel vano tentativo di rincuorarmi. Sì, ma quel giorno non arrivava e io continuavo a soffrire. Certo, non avevo deciso di prendere i voti. Insomma, non avevo abdicato per una vita di stenti sessuali. Il mondo sommerso mi teneva impegnata. Avevo il mio bel da fare alla Maison, d’altronde Mads mi aveva donato il suo Dungeon, sarebbe stato uno spreco non usarlo per fare pratica e poi c’era James. Però una cosa l’avevo capita: nella vita bisogna imparare a fingere, altrimenti si rimane fuori dai giochi e Mads poteva anche avermi strappato l’anima, ma avevo pur sempre un’esistenza che valeva la pena di essere vissuta. Be’, questo era più o meno quello che mi raccontavo per riuscire a trascinarmi fuori dal letto ogni sacrosanta mattina in cui lui non ci sarebbe stato. Maledetta me e maledetto lui.

    Capitolo 3

    Mio padre mi aveva insegnato che il lavoro nobilita l’uomo. Con il tempo ne aveva fatto una vera e propria filosofia di vita. Me lo ripeteva sempre, anche quando frequentavo l’università per spronarmi negli studi, per darmi «un obiettivo da perseguire», diceva. Ogni occasione era buona per sciorinarmi le sue teorie sul senso che ogni persona deve dare alla propria esistenza. Per lui era una specie di mantra. Era convinto che avere delle ambizioni era l’unico motivo per cui valesse la pena vivere. Si riferiva ad aspirazioni di tipo professionale. Lui era così, uno stakanovista in piena regola e non faceva distinzioni di sesso e poco importava che, invece, sua moglie non aveva potuto dedicarsi ai propri sogni affinché lui diventasse l’uomo che era stato. Carlisle Lewis si sentiva qualcuno solo quando riusciva nel suo lavoro. E per lui riuscire in qualcosa non significava fare bene, voleva dire eccellere. La lac aveva amplificato il suo delirio di onnipotenza e, una volta fondata l’agenzia, era arrivato a concepire l’idea che nessuno potesse dirsi soddisfatto se non costruiva qualcosa di suo: «A un certo punto della vita bisogna diventare padroni di se stessi». Io ero cresciuta seguendo il corso delle sue elucubrazioni imprenditoriali senza, tuttavia, preoccuparmi di formulare un pensiero che fosse del tutto mio. Il lavoro per me era un rifugio, il luogo in cui indossavo la maschera di un personaggio che avevo imparato a interpretare alla perfezione. Mi ero però lasciata trascinare dalla corrente aspirazionale di mio padre e quando la situazione in azienda si era complicata, il fallimento della relazione con Mads non aveva fatto altro che minare la mia autostima. Il parallelismo è inconsueto, ma efficace. Le quote che avevo venduto agli investitori rendevano meno assoluta la leadership, di contro perdere Mads aveva significato non avere più qualcuno che si prendesse cura di me, che avesse potere sulla mia volontà e che, in un modo del tutto singolare, alleggerisse il peso delle mie responsabilità. Avevo quindi perso il mio duplice significato.

    Celine detestava Mads, per lei era mads-lo-stronzo-kavén, e il fatto che io non volessi nemmeno menzionarlo non faceva altro che impensierirla. Non ero solita sbandierare le mie frustrazioni, ma stavo male e lei mi conosceva da troppi anni per non vedere quanto fossi distrutta. Perché era così: mentre fingevo che tutto andasse bene, dentro ero in guerra tra ciò che volevo e la realtà che mi prendeva a schiaffi ogni volta che mi guardavo allo specchio. La sottile cicatrice che mi si era formata in direzione dello zigomo in seguito all’intervento, per quanto risultasse invisibile sotto il trucco, era lì e mi ricordava tutto quello che avevo perduto. In più Ben non mancava di rimproverarmi: «Innamorarti di quell’uomo ti ha fatto perdere il lume della ragione», aggiungeva frustrato. Anche lui detestava Mads, lo riteneva la causa di tutti i miei mali. «Forse le cose sarebbero andate in un altro modo se tu non avessi perso tempo a bighellonare a mie spese», gli rinfacciavo. «A te non frega un cazzo dell’opinione degli altri, sei come Carlisle», sbraitava. Su questo però, non si sbagliava. Solo quando andavamo a trovare nostra madre riuscivamo a non litigare. Lei, peraltro, continuava a riconoscere lui, mentre io ero una volta l’infermiera di turno, un’altra la cameriera di un bar a cui ordinava della cioccolata calda, e in più di un’occasione mi aveva scambiata per l’amante attempata di mio fratello, rimproverando il figliol prodigo per essersi lasciato irretire da una donna troppo matura. Insomma, non c’era verso, di me Elodie aveva dimenticato persino il nome. Avrei dovuto farmene una ragione, capire che non era lei a parlare bensì la malattia, eppure quella sua amnesia selettiva mi feriva. A detta del dottor Parker, però, le sue condizioni erano più o meno stabili e questo mi rincuorava. In sei mesi erano cambiate molte cose. Avevo dovuto cedere delle quote dell’azienda fondata da mio padre, ero in rotta con Ben, Celine aveva un fidanzato stabile e di conseguenza meno tempo per me, mia madre non sapeva più chi fossi, ero senza un assistente personale e avevo perduto l’unico uomo che dava un senso alle mie giornate. Rivolgermi al dottor Gabriel Morgan non era stata una scelta, bensì una necessità. Eppure, devo ammetterlo, le sue sedute avevano un non so che di terapeutico: quante più maschere indossavo, tanta più fatica faceva lui per trovare il mio nucleo. Il punto era che nemmeno io sapevo più distinguere chi fossi. Da qualche parte avevo letto una frase che mi calzava a pennello, era di Fëdor Dostoevskij: «Mi tormentava, allora, anche un’altra circostanza: il fatto che nessuno mi somigliava e io non somigliavo a nessuno. Io sono solo, e loro sono tutti, pensavo, e mi mettevo a riflettere». Ecco, mi sentivo sola. Sola e persa nel mio dolore, un dolore che, tuttavia, come sosteneva il terapeuta, faticavo ad accettare. Ciononostante, ero arrivata al punto di desiderare che arrivasse giovedì sera per andare a Soho.

    Pioveva a dirotto quel giorno. Il cielo era plumbeo, grigio, triste, le nubi era così tanto ammassate fra loro che, osservandole dalle vetrate del mio ufficio, ebbi l’impressione che nemmeno un uragano sarebbe stato così potente da spazzarle via. Quando Tina entrò, trasalii.

    «Mi scusi, Miss Lewis», esordì con voce tremula mentre tornavo dietro la scrivania su cui c’era la solita agenda di mio padre pronta a ricordarmi che non ero stata all’altezza del compito che mi aveva assegnato. «C’è una persona per lei», disse la mia segretaria.

    Sollevai un sopracciglio. Ricevevo poche visite a sorpresa. Lei si schiarì la voce: «Carson Lee». Udire quel nome mi provocò un moto di sbigottimento e Tina se ne accorse perché si strinse nelle spalle come se di colpo, in quella stanza, si fosse sentita di troppo. Non vedevo Carson da molto tempo. Ci tenevamo in contatto tramite email telegrafiche, ma nulla di più. Sapevo che era andato in Europa per cercare nuovi talenti, non mi aveva detto quando sarebbe tornato, tantomeno che sarebbe venuto a farmi visita. Mi abbottonai la giacca e dissi a Tina di farlo entrare. Lo attesi seduta, levando via qualche pelucchio dal pantalone. Per qualche strano motivo mi sentivo inquieta. Tra noi le cose erano finite ancora prima di iniziare e si vociferava che frequentasse una scrittrice di romanzi erotici, una certa Samantha Greems, di sicuro non era il suo vero nome. Il solito cliché, avevo pensato con un pizzico di irrazionale gelosia.

    Carson entrò qualche secondo più tardi con il volto solare ben rasato, come sempre, la faccia pulita e abbronzata e lo sguardo vivo. Mi alzai, feci il giro della scrivania e lo raggiunsi porgendogli la mano. Lui, invece, mi attirò a sé e mi avvolse in un abbraccio caldo e profumato.

    «Jos», mi sussurrò all’orecchio con voce vellutata. Quel gesto d’affetto mi colse alla sprovvista. Da quanto tempo non venivo abbracciata da un uomo?

    Mi staccai. «Che sorpresa», arrancai tornando quatta dietro il tavolo di cristallo. Gettai lo sguardo oltre la vetrata per nascondere il disagio e l’imbarazzo che di sicuro mi avevano colorato le guance.

    «Sono tornato ieri da Ginevra», mi informò.

    Mi voltai e, a quel punto, non potei fare a meno di guardarlo. Era bello, più di quanto ricordassi, e divino, fasciato nel suo completo grigio antracite con la camicia bianca aperta sul collo.

    Mi schiarii la voce: «Hai trovato qualcosa di interessante in Europa?», chiesi accomodandomi. «A proposito, vuoi qualcosa da bere?», aggiunsi posando il dito sull’interfono per chiamare Tina.

    «Ricordo la prima volta che sono entrato nel tuo ufficio», disse lui guardandosi attorno. Allontanai il dito dal tasto di chiamata. «Sembra tutto uguale, eppure qualcosa è cambiato».

    «In che senso?», volli sapere.

    Lui sorrise: «Sei cambiata tu», rispose inchiodandomi addosso i suoi occhi celesti. «Non hai più l’aria di chi cammina sulle nuvole», precisò. Aveva ragione, arrancavo nella melma.

    Mi spinsi sullo schienale della poltrona e incrociai le braccia sul petto rifilandogli uno dei miei migliori sguardi al vetriolo. «Perché sei qui, Carson?», tagliai corto.

    Si sbottonò la giacca e si sedette di fronte a me. «Sono venuto a trovare un’amica», rispose sorridendo.

    L’uso della parola amica mi procurò un fastidio all’altezza del petto. Feci un sospiro per nascondere la sensazione. «Be’, sei gentile, ma ho molto da fare in questo momento, per cui…».

    «Jos, stai tranquilla, non sono qui per farti perdere tempo», mi interruppe schiarendosi la voce. «In realtà sono venuto per darti una notizia».

    Corrugai la fronte: «Perché scomodarti? Potevi scrivermi», gli feci notare.

    «Anch’io sono contento di vederti», replicò, e in quel momento mi sentii in colpa per il modo in cui lo stavo trattando.

    Piegai le labbra in un sorriso dispiaciuto: «Sono proprio maleducata. Scusami Carson, è che sono in un momento particolare. Mi è arrivata una commessa e devo capire come gestire il lavoro».

    «Ti conosco, so cosa nascondi dietro il velo di alterigia che ti ostini a indossare», cercò di rincuorarmi. «Non preoccuparti, sono abituato al tuo caratteraccio». Strizzò l’occhio. «Ma come ti ho detto», riprese senza darmi il tempo di ribattere, «sono qui per parlarti di una cosa importante».

    «Se sei venuto per propormi un’altra joint venture, questa volta passo, grazie».

    Sorrise. Aveva un bel modo di sorridere, le sue labbra si incurvavano in modo genuino, sincero. «Per come la vedo io, le cose dovevano andare così. Sono sicuro che ti risolleverai e presto la tua agenzia tornerà a risplendere come merita», replicò senza più un briciolo di ironia nello sguardo. Quello era un Carson che non conoscevo. Sperai che avesse ragione.

    «Allora, sputa il rospo, Lee», lo incalzai glissando sull’argomento.

    Carson si spostò sulla sedia come se all’improvviso fosse a disagio. «Mi sposo», dichiarò poi tutto d’un fiato e io rimasi a fissarlo impietrita. Arricciai le labbra, mi spostai i capelli dietro le spalle, mi spinsi sulla poltrona e lo fissai incrociando le braccia sul petto. Avrei dovuto essere felice per lui, tuttavia la notizia mi colse di sorpresa e su due piedi non seppi scegliere quale fosse la reazione più adeguata. Sciolsi le braccia e presi a tamburellare le dita sui poggia-gomiti.

    «Ok», esordii schiarendomi la voce. Mi sporsi in avanti. «Dunque, chi sarebbe la fortunata?», chiesi.

    «Ci frequentiamo da qualche mese», iniziò a raccontare. «Si chiama Giulia, scrive romanzi d’amore, alcuni in verità sono piuttosto spinti», si strinse nelle spalle colto da un improvviso imbarazzo. «Però non quella robaccia pornografica che spesso bazzica sugli scaffali delle librerie. Lei è molto brava, credimi. Usa uno pseudonimo».

    Bingo, pensai indispettita. La famosa Samantha Greems. Quindi non si trattava di una semplice frequentazione, cazzo. Carson era innamorato, di lei. «Bene», tornai ad appoggiarmi sulla poltrona. «E quando sarebbe il lieto evento?», finsi di interessarmi. In realtà, ero interessata, ma non al matrimonio, volevo capire come diavolo avesse potuto fagocitare l’intenzione di sposarsi con una donna che conosceva appena.

    «A giugno», rispose. Si alzò, lo seguii con lo sguardo. Si avvicinò alla vetrata, mise le mani nelle tasche dei pantaloni, poi senza voltarsi, riprese: «In effetti, sono qui proprio per invitarti al nostro matrimonio».

    «Ah», fu l’unica cosa che riuscii a dire.

    Carson staccò gli occhi dal panorama e tornò a sedersi: «Giulia si sta occupando di tutto, vuole una festa particolare, in maschera credo. Lei adora questo genere di cose. Sono sicuro che ti piacerà, è una donna frizzante, piena di vita, mi fa stare bene». Ed era sincero, perché come sempre Carson era così, talmente limpido che ci si poteva guardare attraverso.

    Ma che culo, pensai. Com’è che tutti trovavano la loro metà mentre io sguazzavo nella fanghiglia dei resti di un rapporto che non avrebbe mai dovuto diventare tale?

    «Che ne dici?», chiese a un tratto Carson riportandomi al presente.

    «Di cosa?»

    «Verrai?»

    «Be’… », questa volta fui io ad alzarmi, più che altro per prendere tempo.

    «Ho invitato anche Celine e il suo compagno, mi sembra si chiami George», aggiunse.

    Perché non era sufficiente che mi volesse partecipe di un matrimonio che a malapena riuscivo a digerire, dovevo anche presentarmi come terzo incomodo.

    Mi versai dell’acqua. «Pensi di farmi recapitare un invito?». Un’altra giornata di merda, riflettei mandando giù un sorso.

    «Sì, ma ci tenevo a comunicartelo di persona», rispose lui.

    Ovvio, certe soddisfazioni bisogna godersele guardando negli occhi il proprio nemico, pensai, altrimenti che gusto c’è nell’annunciare alla donna che ti ha respinto che sei pronto a costruirti una vita con un’altra, proprio nel momento in cui lei è sola come un cane? E bravo Carson, un punto a suo favore.

    «Ci sarò», esclamai voltandomi. Se proprio dovevo essere un quadrupede solitario, se non altro non mi sarei nascosta da qualche parte a leccarmi le ferite.

    «Ottimo», disse con fin troppa enfasi provocandomi un rigurgito acido alla bocca dello stomaco. «Puoi portare un amico, se vuoi», infierì.

    «Un amico….», ripetei.

    «Sì, chiunque», diede un colpo di tosse. «So che Kavén è tornato in Svezia. Lo senti ancora?».

    L’acidità mi salì al cervello: «Come, scusa?»

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