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Parete Est
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E-book243 pagine3 ore

Parete Est

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Info su questo ebook

Claudio lavora in un rifugio alle pendici del Monte Rosa. Quattro anni prima è sopravvissuto a un attentato nel quale è morta la compagna, Elisa, e molti suoi colleghi della banca. Al rifugio ascolta una conversazione di due escursionisti: sembrano coinvolti nel tragico evento. Insieme a un coraggioso Pm, inizia una rocambolesca ricerca di prove, fino a scoprire un torbido complotto finanziario in un paese ex-sovietico. Incidenti e segnali oscuri condizionano la fresca relazione con Sara, sua collega al rifugio, e contorni sempre più tragici, portano Claudio alla resa. Ma, nonostante la volontà di lasciarsi tutto alle spalle, un crescendo di eventi lo trascina verso una sorpresa inaspettata.
LinguaItaliano
EditoreGFE
Data di uscita13 mar 2023
ISBN9791222080031
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    Anteprima del libro

    Parete Est - Alessandro Fiesoli

    1

    L’incontro

    Due speculatori finanziari. Li ho serviti ieri al rifugio e ora mi sono impressi a fuoco, aspetto e arroganza. Azioni, derivati, guadagni facili, tono tronfio e nauseante. Persone e ambienti da cui mi sono allontanato. È stato il caso a portare le loro parole davanti a me, ignare del mio ascolto? 

    «Poi però se ci metti un bell'evento drammatico rivendicato, non puoi non pensare che non indaghino sui movimenti precedenti!»

    La luce filtra tra le assi delle imposte. Le ho costruite affinché l'alba mi svegli con un fascio diretto sulla faccia. Ho gli occhi bene aperti, ma mi volto verso il muro, cerco l'oscurità, voglio la morte del pensiero. Non sono più niente.

    «Infatti è stato un colpo da maestro, soprattutto l'aver scelto una mid cap

    Evento drammatico e mid cap: un inaspettato rewind mi ha fatto tornare indietro di quattro anni a quando lavoravo in una banca regionale.

    «Fare soldi facili sta diventando sempre più complicato: certe volte è necessario sporcarsi le mani. È inevitabile.»

    Non riesco ad alzarmi. Adesso, qui nella baita, è come se avessi respirato ossido di carbonio.

    «La cosa più difficile è stata procurarsi l'agente patogeno.»

    La flebile luce che tengo accanto al letto è stata assorbita da una macchia nera. Incubo di un'eterna notte insonne.

    «Sì, certe sostanze chimiche sono monopolio dei laboratori militari, non è così facile acquistarne senza dare nell'occhio

    Il silenzio è rotto soltanto dai rumori del bosco. Sento gli abeti e i larici muoversi e produrre secchi schiocchi. Credo di udire il sordo rumore della neve cadere dai rami, ma è soltanto l'immaginazione, accompagnata dall’eco di quelle parole.

    «Vabbè, vantavamo buone protezioni in alto.»

    Mi faccio forza e apro le imposte. Guardo verso la Punta Gnifetti: la parete est del Monte Rosa mi appare strapiombante.

    «Si, ma c'è sempre qualcuno troppo solerte che mette il naso dove non dovrebbe e fa andare tutto a puttane!»

    C'era un mondo prima di quattro anni fa: è lo stesso di adesso. Sono io che non esisto più.

    «Ci sono stati momenti in cui temevo che non ce l'avremmo fatta e chiudere quelle opzioni sarebbe stato impossibile!»

    A Macugnaga c'ero già stato e allora non era accaduto niente: ero un turista che voleva ammirare la muraglia di roccia del gigante delle Alpi.

    «Direi di brindare alla riuscita dell'operazione!»

    Indosso la felpa ed esco per camminare sulla spolverata di neve depositatasi durante la notte. Vado dietro la baita a ridosso del costone. I gelidi venti del nord che spirano dal Passo del Moro lì si attenuano. Prendo la legna per accendere la stufa in ghisa e riscaldare l'acqua per lavarmi.

    Al mattino trovo le tracce degli animali. A volte li vedo osservarmi furtivi, come se tollerassero la mia presenza. Caprioli, cervi, camosci cercano il cibo e tentano di tenersi lontani dai lupi che non ho ancora avuto la fortuna di vedere. In montagna ho capito essere altrove le cose da temere. In altri luoghi e contesti nascono i pericoli che marchiano la pelle.

    Apro la bombola sotto lo spartano fornello a gas: mi preparo il caffè con la moka. Ma non c'è profumo: stamani sento soltanto l'odore del veleno.

    È la mia memoria di quell'odore acre e pungente proveniente dal salone; le persone barcollavano, strisciavano e cercavano di tirarsi fuori da lì; udivo feroci colpi di tosse, rantoli atroci di chi soffocava. Io volevo raggiungere Elisa per cercare di salvarla, ma mi venne impedito di andare verso una morte certa.

    Adesso, ai piedi del Monte Rosa, fuggito da tutto, credevo di essermi tirato fuori da quell'agonia, da quelle immagini, ma alla fine il fantasma mi ha raggiunto anche qui.

    Un giorno: uno soltanto ne è bastato per distruggere tutta la fatica di quattro anni per sopravvivere a quell’incubo. L'evento tragico di cui tutti i giornali del mondo hanno parlato vissuto in prima persona si è materializzato di nuovo davanti a me, nel brindisi di due demoni compiaciuti di sé stessi.

    La montagna adesso si mostra in un accennato pallore fino a infiammarsi di un giallo luminoso, benché fino a pochi minuti prima dominasse soltanto il grigio cupo del granito. La prima volta che vidi quella muraglia di roccia, neve e ghiaccio, non avevo mai messo un paio di sci ai piedi. Non potevo immaginare che anni dopo, avrei vissuto per mesi come un eremita disgustato da tutto, e poi mi sarei ritrovato a lavorare in un rifugio d'alta quota.

    Mi dirigo verso l'abbeveratoio alimentato dalla sorgente che sgorga poco più in alto. L’ho salvato quando ho iniziato a ristrutturare la baita, allora dismessa. Amo immergere la testa nell'acqua per avere la scossa necessaria ad affrontare di nuovo la giornata, ma stamani non basta: mi ci vorrebbe un elettroshock.

    Il cielo intorno a me è terso.

    È sabato, metà settembre. È la fine della seconda estate che passo in questa baita: ormai ho preso i tempi e i ritmi del bosco. Stare quassù è il mio modo per ritrovare una direzione smarrita.

    Le prime settimane di vita ritirata sono state difficili. Ho scelto di allontanarmi dalle comodità, ma non mi dispiacciono l'acqua calda ed una connessione internet. Mi relaziono soltanto con le persone che sfruttano il rifugio trecento metri più a valle. Cerco di tenermi in esercizio: spacco la legna, tengo pulito il bosco. La manutenzione della baita m'impegna: dal passare l'impregnante sulle imposte, a sostituire le pietre di ardesia che fanno da copertura al tetto, al drenaggio dello scolmatore che ho scavato da solo a garantirmi l'acqua corrente.

    La fuga da Parma e la successiva risalita dall'inferno mi hanno costretto a ricominciare daccapo. Ho deciso di farlo quassù, dopo aver ascoltato e seguito un vecchio richiamo di tantissimi anni prima: una dimensione più materiale dell'esistenza vissuta mediante la fatica fisica, lontana dal mondo dei servizi bugiardi della nostra epoca isterica.

    I pochi con cui parlo mi dicono che conduco un'esistenza di sacrificio rispetto a quella trascorsa nella prima parte della vita. Ma io ne sono conscio e mi va bene così. In questo contesto così essenziale poche cose mi preoccupano, al di là dei miei fantasmi: la strada bloccata, una gelata imprevista, qualche danno alla baita a causa del maltempo rappresentano un normale quotidiano con cui bisogna fare i conti quassù. In un certo qual modo ne sono felice.

    Mi addentro nel bosco in direzione del costone che degrada piuttosto ripido verso la valle. Dalla parete Est del Monte Rosa, si distende il poderoso ghiacciaio che una volta scendeva fino a Pecetto. Adesso restano soltanto i resti della morena glaciale; pietre grigio acceso, sporco, testimonianza di un disfacimento e di un abbandono, di una vera ritirata: tracce di distruzione e resa.

    Il sottobosco tipico delle abetaie e dei larici ospita diversi tipi di funghi che spesso raccolgo e porto giù al rifugio. Pochi anni prima non distinguevo un porcino da una pietra; adesso ne raccolgo varie specie.

    Il bosco è un tempio: le colonne sostengono la volta sopra un recinto sacro consacrato, all’interno di un mondo profano. Ma per quanto sia tutto così ordinato, si trovano tronchi che hanno ceduto a qualche batterio, a un fulmine o al possente vento che cala dai cantoni svizzeri. La luce bassa filtra dalle chiome, crea giochi di colore di quel panorama verticale e fa subito risaltare un albero inclinato o pronto a cedere. Quando trovo questi fusti ormai orizzontali o poggiati su qualche altro tronco ne sfrondo i rami a colpi di accetta. Mi faccio una piccola scorta di legna che trascino alla baita. Nonostante il mio passato di consulente finanziario, i due anni trascorsi alla baita mi hanno già cambiato il fisico.

    I rumori dell'ambiente avvolgono ogni passo. Gli umori e i profumi del sottobosco e una tenue nebbiolina che si solleva dalle foglie cadute colpite dal primo sole avvolgono di vita ciò che ormai, pur morto, inizia un processo di rinascita e trasformazione a nuova energia.

    Ma io adesso ho paura.

    Cerco di mantenere la calma, di bloccare il tremito, che è di rabbia, ma anche di ansia, di nervosismo, di stanchezza.

    Cammino finché il declivio non diventa pendio scosceso aperto sulla valle del ghiacciaio. Da lì la vista spazia per tutta la Valle Anzasca, ben oltre Pecetto, Macugnaca e Borca. Ben definita dopo la spolverata della notte, la linea della neve lungo i fianchi della valle caratterizza il paesaggio in un delicato anticipo d'inverno.

    La parete est del Monte Rosa chiude ogni accesso. Ben poche valli alpine sono così isolate poiché sbarrate da vette e crinali tanto elevati. Tutto il costone del gigante alpino corre ad oltre quattromila metri e i satelliti che lo circondano scendono sotto i tremila di rado. Il passo del Moro scollina a quell'altezza verso la Svizzera: i vecchi del paese, quei pochi con cui ho parlato, mi hanno raccontato del periodo di guerra, in cui i passatori utilizzavano il valico per mettere in salvo la popolazione ebraica o per un romantico contrabbando di sopravvivenza. Secoli ancora prima, aveva visto i popoli Walser cercare pascoli e terre più fertili.

    Gressoney in Val D'Aosta e Alagna in Valsesia si trovano in linea d'aria a meno di cinque chilometri, ma di fatto sono irraggiungibili, a meno che non si voglia salire oltre i quattromila metri, ben attrezzati con materiale da arrampicata, in quella che è ben di più di una semplice escursione.

    Prendo il cellulare: non lo spengo mai. Benché l’unica persona che possa chiamarmi è il capo per dirmi che c’è bisogno di me al rifugio. Riaccendo la connessione dati: spam, reclame, pubblicità ingannevoli di servizi che offrono esperienze inebrianti di cui nessuno può fare a meno.

    Che tristezza.

    Cancello tutte queste inutili mail, quasi nauseato. Chissà in quanti mi chiameranno oggi per offrirmi favolosi servizi imprescindibili per la realizzazione di me come essere umano? Di quante cazzate tentano di riempirci la vita...

    Guardo l’orologio. Ho bramosia di scendere a lavoro al rifugio. Al Belvedere servirò ancora le consumazioni ai due tipi. Mi disgusta, ma è necessario: ne sono attratto.

    Dopo venti minuti di cammino su una strada bianca, arrivo trecento metri più a valle alla stazione sommitale dell'impianto di risalita che sale da Macugnaga Pecetto.

    Il turno che copro inizia alle 13 e termina alle 21. Finito il servizio con la cena, il capo si occupa di chi pernotta nella struttura per tentare la scalata alla parete: resta da solo, ma terminata la consumazione, gli escursionisti sanno organizzarsi e non necessitano di altre attenzioni, dopo che gli abbiamo preparata la colazione al sacco.

    Dalla mattina alle 8 fino alle 15, Sara gestisce le pulizie ed i primi pranzi. Lei vive in paese, a Borca. Quando il titolare ha deciso i turni è stato quasi obbligato ad assegnare a me il turno della sera, per agevolare quella ragazza, neppure trentenne, che cresce un figlio da sola. Lei, la sera tardi non potrebbe scendere a valle: gli impianti chiudono alle 17 e non è pensabile farla a piedi, soprattutto in inverno.

    Io non ho battuto ciglio. A me non interessano gli orari. Potrei lavorare anche la notte. Non m'importa più di niente per la verità.

    Sara non mi ha mai raccontato la sua storia. D'altronde, anche io tengo scheletri serrati nell'armadio. In realtà non so niente di lei. Non mi concedo di cercare di conoscerla. La situazione che viviamo, i nostri turni di lavoro ci impediscono di sviluppare una dinamica classica fatta di un incontro, di un'uscita, di una cena. La realtà di Macugnaga già non offre possibilità così marcate di evasioni. E poi, io non voglio nessuno con me.

    Arrivo al rifugio ben prima dell'inizio del turno di lavoro. Mi attardo fuori con l’addetto della seggiovia, con il quale scambio qualche parola prima di entrare.

    Guardo verso l’interno attraverso la piccola finestrella della struttura. Oggi Sara si è messa il costume tradizionale con la gonna lunga nera, la camicia bianca con lo scollo ad arco, la manica plissettata e il busto addominale color oro. Ha raccolto i capelli neri in una strana coda che la fa assomigliare più a una treccia. Sistema i tavoli per il servizio: fra poco gli escursionisti occuperanno i posti e ordineranno i pranzi e le birre. Di solito si tratta di svizzeri, inglesi, tedeschi, pochi francesi, in ogni caso ben più numerosi degli italiani che spariscono con la fine di agosto.

    «Già qui oggi? Non inizi il turno alle tredici?»

    «Mi sono alzato presto. Ho finito prima del solito le mie cose.»

    «Visto che sei qui, posso uscire un po' prima? Mio figlio ha la febbre.»

    «Chiedilo a Franco. Se lui è d'accordo. Per me non ci sono problemi.»

    «Grazie Claudio, mi fai un favore.»

    Mi allontano da lei senza risponderle, poi mi volto.

    «Bello il costume acchiappa turisti.»

    «Guarda che questo è vero! Non è una riproduzione da mercatini: era di mia nonna. L’ha cucito a mano prima di sposarsi!»

    Si volta e mi sorride, fa roteare la gonna che sembra anticipare il suo movimento verso la cucina. Non vede che non ho nessuna reazione.

    Una coppia di tedeschi con due bimbi piccoli entra nel rifugio e in un italiano stentato, chiede di sedersi. Indico un tavolo che gli apparecchio. Piano, piano iniziano ad arrivare i primi escursionisti. Li immagino di ritorno da un bivacco notturno in parete o semplici camminatori del fine settimana.

    Ma io aspetto qualcun altro che so che tornerà. Durante tutta la notte passata insonne non sono riuscito a preparare un piano, qualcosa per cercare di scucirgli una confessione o qualsiasi altra cosa.

    Sto fuori davanti all'entrata e mi guardo intorno; cerco con lo sguardo i due tizi di ieri. L’attesa non dura molto: eccoli arrivare.

    Provo a non farmi notare interessato a loro. Si siedono al tavolo adiacente alla porta. Io rientro e fingo di ignorarli, ma con modi molto sbrigativi, mi bloccano, chiedono due birre ed il piatto tipico del rifugio.

    Dopo avergli risposto con un grugnito, apparecchio, porto la comanda in cucina e spillo le birre nei boccali. Si spogliano dell'attrezzatura tecnica e occupano tutto lo spazio disponibile.

    Gli appoggio le birre sul tavolo e li ignoro come essi fanno con me. Poi mi avvicino a Sara.

    «Pensano sia di loro uso esclusivo?» mi chiede.

    «Lascia perdere: neppure il buongiorno hanno dato.»

    «Da dove vengono?»

    «Non ne ho idea. Mi hanno detto tre parole. Non ho saputo riconoscere l'accento.»

    Non le rivelo che li ho serviti anche il pomeriggio precedente.

    Averli rivisti oggi, dopo l’ultima nottata insonne, mi amplifica la rabbia. Avrei voluto avvicinarmi a loro e picchiarli, prenderli a pugni senza sosta, spaccargli la faccia, farli soffrire a lungo, renderli delle maschere di sangue e vederli morire dopo infinite sofferenze.

    E mi sarei rovinato la vita.

    Dovrei chiamare le forze dell'ordine e farli arrestare, ma non ho prove. Le frasi che ho sentito non sono sufficienti: nessuno crederebbe alla mia teoria. E non confesserebbero certo perché io ho avvertito la polizia: personaggi capaci di quelle cose godranno di protezioni molto in alto, perché un semplice denuncia possa incriminarli.

    Non posso lasciarli andare così: coloro che sembrano i veri responsabili del dramma che ho vissuto insieme a decine di persone non possono stare lì impuniti a festeggiare la loro impresa.

    Chiedo a Franco se li conosce, ma risponde di non averli mai visti o di non ricordarli.

    Stanno per terminare il pranzo e sbrigativi come sono entrati, altrettanto veloci se ne andranno. Devo pensare rapido, agire per capire chi sono e come poterli rintracciare. Se pagheranno con la carta di credito gli chiederò un documento.

    Ma pagano in contanti: questa gente non lascia tracce. 

    «Sara, ho bisogno di una cortesia mentre torni a casa.»

    «Certo, Claudio, dimmi:»

    «Vedi quei due tipi? Non mi piacciono per niente, parlano di bracconaggio, non so se per semplice conversazione o per loro stesso interesse. Credo

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