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Coda senza lucertola
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E-book384 pagine6 ore

Coda senza lucertola

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Info su questo ebook

Se non avesse un temperamento davvero un po’ speciale, la povera Désirée crescerebbe fragile e perdente: vive con un nonno arcigno che la vede solo come la colpevole derivazione della figlia morta per essersela andata a cercare, e una nonna che non fa che inzupparla di lacrime per lo stesso motivo. Il resto sono discorsi interrotti, parole smozzicate, allusioni velenose, mormorii tra parenti. Ma nessuno che le spieghi qualcosa di sua madre, e soprattutto di suo padre: come non ne fosse mai esistito uno.  
Anche trovandosi, in seguito, in situazioni difficili, umilianti o desolanti, il suo innato senso dell’umorismo la salverà e la farà amare da tutti, e aiuterà questa coda abbandonata dalla lucertola nella ghiaia bollente a ricostruirsi un corpo e una vita. Il lettore un momento si lascerà prendere dalla sua forte emotività e un altro momento sorriderà all’ironia senza complessi con cui l’orfana tratta il mondo convenzionale in cui è finita. Facile, con questo suo modo di raccontare pazzo, profondo, poetico, buffo, struggente, che irretisce e trascina.
 Il momento risolutivo è l’improvviso e inevitabile contatto con l’essere a lei più vietato dai vecchi nonni, il temibile Maschio. Che però, miracolo, non si comporterà, almeno con lei, come l’essere spregevole di cui si parla, ma anzi sarà la sua salvezza.
Fino all’incontro con un maschio molto molto particolare, facile e difficilissimo, perfetto e terribilmente sbagliato, forse impossibile, forse l’unico possibile. 
E, appena morta la nonna, Désirée, a ventidue anni, sola nella vecchia casa, troverà dei documenti che puzzano di muffa e che, come nei vecchi film di bassa qualità, le riveleranno tutto. Addirittura troppo. 
Coda senza lucertola è un romanzo divertente e intelligente che vi stupirà, nel migliore dei modi.

Donata Kalliany von Kallian, dopo la maturità al liceo classico “Parini” di Milano, si laurea in Giurisprudenza all’Università Statale di Milano. È stata redattrice di attualità del settimanale “Amica” dal 1975 al 1983 e inviata speciale di attualità e costume del mensile “Moda” (Edizioni Eri, RAI) dal 1983 al 1996. Ha pubblicato per la BUM (Biblioteca Umoristica Mondadori) il volume Di mamme ce n’è una folla nel 1988 e Adamo ti amo nel 1989. È sposata e ha quattro figli: Francesco, Paolo, Valentina e Nicolò; ha anche tre nipoti: Nicola, Cristina e Pietro.
 
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9791255370598
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    Anteprima del libro

    Coda senza lucertola - Donata Kalliany

    Cosce che capitano

    Non è il gatto. Ah, sì, è il gatto. Ma no, non è il gatto! Aiuto, cos’è che di caldo mi si arrampica lungo la coscia? Una mano. Una mano? Lo sguardo a punta del nonno che mi fissa perché sono lenta a mettere con la destra nella sinistra le carte a ventaglietto, mentre tutti, pronti, immobili, aspettano solo me. Infilare in fretta gli ultimi angolini sotto il pollice sudato, e controllare con mano, lì sotto.

    È proprio una mano, piccola e grassoccia, guidata da un braccio morbido, che serpeggia sotto la mia gonna a pieghe, lenta ma determinata. La mia, di mano, in un istinto di dubbiosa repulsione, torna su al fresco a sistemare con solerzia le carte sotto il pollice sinistro ormai bianco per la pressione e la tensione, in modo che siano ben visibili. Per fortuna non tocca a me prendere la carta, tocca alla zia di Pinuccia, mentre Pinuccia, seduta alla mia destra, tocca me. Non capisco e non la guardo, Pinuccia, mentre sotto, lei, dita umidicce, avanza con precisione millimetrica.

    Sua zia, la professoressa di lettere Zaide, nuda di sopracciglia, in segno di riflessione, alza quel tratto insopportabilmente sottile che ha disegnato al loro posto, ma in un altro posto, più in alto.

    «Tocca a te» sollecita con calma impaziente la farmacista russa Raissa Zitomirski, che ha da un bel po’ depositato i grandi seni a punta sul tavolo della canasta come fossero stanchi del viaggio in pullman da Bordighera a Nervi; e da un bel po’ lo sguardo a punta del nonno li infilza infastidito. Li trova volgari, così a punta, lo dice sempre a mia nonna, che quella lì dovrebbe cambiare reggipetto, ma lo dice davanti a lei credendo di parlare piano perché è sordo, e nonnina, mia nonna, gli dice forte, perché è sordo, di parlare piano che sennò lo sentono, e tutti sentono benissimo, anche la farmacista, ma se ne fregano, anche la farmacista, che torna ogni giovedì per la canasta con lo stesso reggiseno, e posa i senoni a punta sul tavolo.

    Dentro quella casa lì, tenuta in vita dall’esterno da un abbraccio caldo di rose e mimose, non cambiava mai niente. Ed ecco l’evento dirompente, addirittura surreale, anzi sub-reale: quella mano irreale telecomandata da un’immobile inespressiva bambolona di porcellana che, invece che con le gambe ciondolanti da una sedia a un tavolo da gioco, sarebbe stata più giusta seduta in eterno a gambe larghe su un lettone.

    Pinuccia era più piccola di me, avrà avuto massimo sette o otto anni, ed era una bambinotta tonda e pacioccona che nessuno voleva a giocare perché si esprimeva in modo sempre un po’ confuso, ed era lenta in tutto. Anche là sotto, stava dandosi da fare in qualcosa di indecifrabile e di molto, molto lento. Cosa voleva? Cercava conforto? Ma perché lo cercava nell’incavo delle mie cosce scarne? Ecco, avanzava ancora un po’.

    «Tocca a te!» l’ha fulminata il nonno, che non la poteva soffrire e la accettava solo come appendice imprescindibile della Zaide che, pur essendo abbastanza giovane, aveva voglia di venire con la sua amica a giocare a carte con due vecchi, e nonnina ci teneva tanto ad aver compagnia. Il nonno diceva di non avere mai visto un gioco tanto stupido come la canasta, eppure, sempre con la sua faccia arrabbiata (erano proprio i suoi lineamenti che erano arrabbiati), era sempre lì.

    La mano calda, sotto, ha sussultato, è fuggita per andare a far crollare tutta l’impalcatura di carte dell’altra mano, sopra. Lo sguardo a punteruolo del nonno è diventato sguardo a pugnale avvelenato. Nonnina ha pugnalato col suo sguardo lo sguardo del nonno e ha fatto una carezza sulla testa a Pinuccia, la cui manotta, appena scartato, è tornata giù, sotto, al riparo, sotto la mia gonna.

    Toccava a me, sopra, toccava lei, sotto. E ora si infilava sotto l’elastico delle mutandine. Bollivo, sudavo. Ma cosa credeva di trovarci? Le mie mani sopra, la mia mente sotto. Anch’io, troppo lenta. Nonnina, allora, tremolio di orecchini antichi, ha portato il tè. Pinuccia, sopra, con la molletta nei capelli, molle, impacciata, Pinuccia attiva e subdola, sotto. Le signorine, come le chiamavano i nonni, porgevano di nuovo la tazza cinese istoriata ma trasparente se alzata verso la luce, e nonnina, tremolio di brillanti, di nuovo la riempiva. Sotto, la mano, indiscreta, frugava. I nonni mi obbligavano a tenere sempre tutte e due le mani sul tavolo, forse proprio per evitare l’eventuale tentazione di andare a curiosare come erano le mutande altrui.

    Prendere, pensare, scartare. Le signorine prendevano anche un biscottino ad ogni carta, come a dire passavo di lì. Io immobile, curarizzata dalla mano di Pinuccia, ora assestata fa la mia coscia e la mia pancia, nel sottobosco brulicante di altre cosce pigre e pingui, di fruscio di fodere di taffetà, di assestarsi di sederi sulla sedia, di accavallarsi e urtarsi di ginocchia, oh scusi, di gambe che si allungavano per recuperare la scarpa finita chissà perché lontana dal piede gonfio che l’aveva cacciata.

    La Zaide, sopra, ogni tanto alzava la riga troppo diritta disegnata sulla nudità della tempia, per far cenno alla nipote di prendere un altro biscottino, senza chiedersi con quale mano, dato che una teneva le carte e l’altra non c’era. La Zaide era un tipo allegro: spesso tagliava in due, ridendo con denti inaspettatamente bianchissimi, la macchia di abbondante rossetto fucsia delle labbra, anche quando non ci sarebbe stato motivo; e per fortuna, perché in quella casa di indeciso colore anziano, mai nessuno rideva, e anch’io, se volevo, dovevo farlo per conto mio, in caso di emergenza.

    L’urgenza mi assaliva alle spalle in certe serate moribonde: allora aprivo la porta di uscita sul giardino, e ridevo a bocca sguaiata, sguainata, una risata lunga e larga che si sarebbe sentita almeno fino alla friggitoria di via Capolungo a sinistra, e nel salotto chic della villa confinante a destra. E ridevo, ridevo con tutta la voce che avevo nel cuore, e più ridevo più la risata prendeva coraggio dalla sua stessa solitudine: ridevo sulla palma spaurita, ridevo sulle calle spocchiose, ridevo alla luna come una licantropa rimbambita, ridevo finché non mi serpeggiava in tutto il corpo un’allegria furibonda e tornavo rigenerata dalla flebo di un’eco di risate libere e pazze che arrivavano da ogni direzione, dal parco di fronte, dal mare al di là del parco, dal paese deserto. E rientravo con mosse e smorfie da saltimbanco sbiellato nel salotto dei nonni assordato da una morente Traviata, per mettermi lì anch’io con l’aria compunta e troppo attenta, di chi non ci sente bene.

    Ogni tanto la mano curiosa e inesorabile faceva un blitz al piano di sopra in occasione dell’arrivo di un nuovo carico di dolcetti, ma tornava in fretta perché Pinuccia a masticare era velocissima, e osava minimi e cauti movimenti di avanzamento... mentre le mie gambe tentavano impercettibili mosse per sbarrarle il passo avvicinandosi, col risultato di chiuderla dentro.

    Quando è arrivata anche la cioccolata calda, la mano curiosa se n’è andata di colpo, inciampando un attimo nell’elastichino, ed è atterrata senza imbarazzo sul tavolo.

    «Facciamo un’altra mano?» ha buttato lì qualcuno... oddio, ancora mani??? Ad ogni buon conto, sono scappata in giardino.

    La manovra segreta di Pinuccia era forse una variante enigmatica del gioco del dottore che molte mie amiche però facevano con i maschi? Anch’io lo facevo, ma non sotto i tavoli, e solo con Sira e Rossana. Avevamo eletto all’unanimità medico Sira, per quel suo tono deciso e un po’ maschile, per la sua aria di comando, la sua intraprendenza e la sua indipendenza. Mica per niente nelle nostre rappresentazioni nella stanza della torretta in cima alla villa dei nonni, lei faceva sempre anche la parte del principe, io della principessa, e Rossana, che era sempre gentile e adattabile, si era presa con mirabile modestia il ruolo fisso dell’ancella, perché sua mamma faceva la sarta e lei amava tenere su gli strascichi, come appunto fanno le sarte con le spose, in chiesa, che continuano a mettere a posto un velo immobile e già perfetto.

    Ecco dunque che Sira si chinava su di me con un bacio lieve, lento, magistrale e senza difetti come se avesse fatto una scuola di bacio. Doveva sempre risvegliarmi da qualche incantesimo. Mi faceva un piacere terribile il cadere sulla mia faccia di certi capelli lunghi e pesanti color rame ossidato, e il tocco sfuggente delle sue labbra grandi, solide, adulte e decise, che indugiavano sulle mie proprio come immaginavo facessero quelle di un maschio.

    Entrando intensamente nella parte, io mi emozionavo un po’ davvero, e mi sentivo adatta al ruolo di femmina, perché mi pareva di percepire l’attrattiva che rappresentavo per quell’affascinante maschio finto. Anche come medico, lei era autorevole nel palparmi la pancia, nel prescrivermi banali aspirine o unguenti esotici e inventati, nel massaggiarmi punti del corpo decisi da lei, e afflitti da qualche sconosciuto malessere curabile soltanto con l’imposizione di mani girovaghe, libere e sicure. Ma la manotta insinuante e nascosta di Pinuccia, considerata da tutti una bamboccia imbambolata, lungi dal trasmettere quel certo fascino autoritario, inoculava piuttosto il germe di una malattia sconosciuta, strisciante e un po’ repellente.

    Dolce & gabbata

    Già le tre e mezza. E ancora niente. Lì, sedute. A tavola, noi due, con la torta in mezzo. Una torta dall’aria umile e sperduta di chi non è nel suo ambiente, gialla di una crema modesta, con qualche grumo qua e là. Una torta umana, così lontana dalle impalcature di perle e panna, montata come tulle da Prima Comunione, in vetrina in quei giorni in pasticceria.

    E nessuno che arrivava. E più si aspettava, e più il campanello non suonava. La casa, rabbuiata dai mobili neri scolpiti a foglie, frutti e fiori, comprati, ripeteva nonnina con fierezza, all’Esposizione di Parigi del 1900, sapeva di sacrestia: la sola luce pomeridiana, pur in quel paese intriso di suffumigi d’onde verdi e bianche, di bagliori di fiori di carne viva, di soli invadenti anche un momento prima di annegare, era quella della mimosa spudorata che premeva, incandescente, contro i vetri del salotto.

    Spettri di poltrone di vecchio velluto marrone scuro alitavano polvere maligna soprattutto quando gli si passeggiava sui braccioli saltando dall’uno all’altro per esorcizzare tutto quel sussiego stantio. L’unica spada di sole riuscita a infilzare da parte a parte quell’ibrido di museo e di bric-à-brac si era istantaneamente trasformata in un grande batterio serpentiforme al cui interno si agitavano altre colonie e colonie di infimi insetti infuriati.

    Silenzio, noi due. Fissare con occhi immobili la torta forse ci faceva pensare che da lì potesse scattare un prodigio. Invece era un incantesimo. Di quelli che ogni tanto paralizzano le favole.

    Mia nonna, nonnina, vestito nero dal colletto di pizzo e nastro bianco intorno al collo per tener su le rughe, l’eterna collana di perle vere da portare sempre sennò si ammalava, i soliti anelli degli anniversari e delle bisnonne, il tic. Il tic era la cosa più notevole della sua faccia perché coinvolgeva sia la bocca che gli occhi. Pare le fosse venuto dopo la morte della mia mamma. Mi dicevo, pensa che mondo divertente se ad ogni morte di persona cara, a ogni essere umano venisse un tic... Non ci si capirebbe più, in una Babele da cui nascerebbero nuove espressioni d’emergenza, controtic, tic paralleli, tic antagonisti. Il suo si produceva in una brevissima strizzatina d’occhi e contemporaneamente in un giro in senso antiorario delle labbra chiuse. E lei in quei momenti consisteva in un organizzatissimo gran tic, alonato da quei bei capelli bianchi accompagnati indietro con delicatezza e ondeggiamenti verso lo chignon.

    Il tic trascinava come effetto collaterale il tremolare degli orecchini col brillante, dunque diventava un tic pieno di bagliori, vezzosissimo, ma intanto erano le quattro e mezza e non si osava dirlo: nessuna invitata sarebbe venuta alla festa della mia Prima Comunione perché tutte le bambine sontuose erano andate alle feste sontuose delle altre bambine sontuose come spose principesse che, con pizzi belgi, organze ricamate, gonne gonfie, catenine d’oro, cerchietti di fiorellini fra i capelli, erano posate, come bambole in un negozio, ai miei due lati in chiesa...

    E a casa loro certo c’erano vere mamme sorridenti, salatini, dolcettini, tovagliolini, ciliegine. E zii come se piovesse. Perché da me neppure un parente purchessia, una cugina, non so, non dico una madre, ma almeno una madrina?

    Chi mai del resto avrebbe avuto voglia di venire a festeggiare alcunché da due statue magre in delusa attonita attesa davanti a una torta solitaria e, di là, il mistero di un nonno sigillato in una stanza imbevuta di un’indelebile emanazione di fumo di pipa, di carta ammuffita, di lucido da scarpe, di cuoio rancido, di pipì (aveva il vaso da notte nel comodino) e sempre visibile solo a metà, come il busto di marmo del prozio notaio da cui aveva ereditato quella scrivania pesante che pareva il bancone di un tribunale?

    Il nonno si staccava raramente dal suo minuto maneggiar fogli, libri di pelle, pagine ricoperte di conti inutili e aggrovigliati da ingegnere, e comunque le poche mie amiche che venivano in casa fuggivano al solo sentire da lontano il suo zoppicare, perché quando sollevava quegli occhi violentemente azzurri e cattivi, seminava il panico. Insomma, niente cannoncini, niente panna, niente mamma, solo noi due, un’orfana schiacciata dalla solitudine di quella casa nera, e una nonna col tic, molto distinta ma anche molto stinta.

    Nonnina era un amore, ma divertente proprio no. Quando non piangeva per la morte della mia mamma e non mi compiangeva con lunghe litanie sulla mia irrimediabile orfanità, era seria, un po’ sognante a ritroso, e dolce ma sbiadita, come se le avessero passato sopra una lieve spennellata di inesistenza.

    Alla funebre tavola dei festeggiamenti con la tovaglia bella, lei se ne stava rigida, tenuta su da una colonna vertebrale di malinconica signorilità, nonché da un’antica giacchetta stretta e molto ben fatta, e io tenuta giù dal vestito della Comunione che, anche quello, era stato di Ottavia, la cugina di Milano, figlia della zia Giulia, sorella della mia mamma. Seta bella frusciante ma già un po’ ingiallita in quattro o cinque anni, che si era rotta sotto le ascelle: così nonnina aveva pensato di far rifare da una sartina di Nervi il corpetto, ma non avendo trovato in paese seta ingiallita, aveva ripiegato su un artificiale decisamente giallo. Forse era per via del vestito mezzo ingiallito e mezzo giallo che nessuno veniva alla mia festa.

    Era scoccata ormai la disperazione delle cinque, un’ora in cui se quello che doveva succedere non è successo, non succederà più. Forse era anche per via dell’acconciatura, che nessuno veniva alla mia festa. Quando, tornata a casa dalla cerimonia collettiva in chiesa, mi sono precipitata allo specchio (prima, guardarsi allo specchio era peccato perciò il lungo lavoro di nonnina all’alba era restato per me un assoluto mistero), ho provato un improvviso strappo in mezzo al petto. Adesso che dopo la Comunione si poteva peccare, solo adesso potevo scoprire che ero un mostro: nonnina aveva ricreato per me con un tulle bianco nuovo di nylon rigido un’impalcatura terrificante che ricordava troppo, veramente troppo da vicino le pettinature che avevano lei e le sue quattro sorelle da giovani, nelle foto marroncine che guardavamo ripetutamente nei pomeriggi di pioggia, con sopra il dito nodoso di nonnina che indicava una per una le cinque vecchie ragazze, dai nomi infelicemente messi insieme di Lina, Maria, Pia, Fanny (mia nonna) e Gina (avevano anche un fratello, Pio!, sì, Pio e Pia... incredibile) lì immobili, a braccetto, con seni che apparivano tutti grandissimi, e invece qualcuno era costruito sul nulla dalla stoffa delle camicette arricciate e strizzate in vita sopra le gonne lunghe. Facce tutte identiche, e tutte insignificanti. E appunto, marroncine: il loro padre, un baffuto generale dai capelli biondi a spazzola, faceva bere loro l’acqua in cui aveva bollito dei chiodi per dargli un po’ di ferro, e io attribuivo quel colore non certo alla tecnica fotografica del tempo (mia nonna era del 1875) ma all’acqua ferruginosa che avevano mandato giù. E poi, tutte con quella matassa di capelli, lisci o ricci, che montava dalle tempie fino a uno gnocco piazzato ben in alto sulla testa, ma passando da un gonfiore abnorme ai lati e sopra la fronte. Ecco, proprio quello che nonnina aveva imposto col velo alla mia testa di bambina, pensando che fosse l’unico modo di essere belle. Un mostro. Una signora vecchia e fuori del tempo, ero. Avevo già digerito i guanti che non erano guantini piccoli, corti fino al polso e candidi da Prima Comunione come quelli delle altre, ma dei guantoni di filo a rete ma soprattutto enormi perché erano di nonnina, e beige (neppure gialli come la parte di sopra del vestito o ingialliti come la parte di sotto) e che risalivano larghi e goffi su per la manica. E avevo digerito le scarpe, che erano mie, ma tagliate in cima al ditone perché erano diventate piccole e accuratamente dipinte con una cosa che si chiamava appunto bianchetto, e che aveva la caratteristica di renderle come di gesso, disperatamente bianche e opache.

    Ma la pettinatura di tulle no. Quella non ce la facevo a mandarla giù, nella gola strozzata dall’immensa infelicità provocata dall’immagine di quella là nello specchio, che essere orfani in confronto è niente. Con quella scoperta atroce nel cuore, mi ero seduta alla tavola tombale imbandita di una sola torta tendente a un precoce invecchiamento, come per omogeneizzarsi all’ambiente.

    Alle sei, la crema che ingialliva la torta in tinta col mio vestito aveva l’aria tristissima e quasi lacrimava un pianto raggelato e scisso simile a una maionese abbandonata al caldo. Al chiarore ormai debole della mimosa che andava spegnendosi davanti alla finestra, ho inzuppato nel pianto della gola il primo spugnoso boccone. Nonnina, con gli occhiali un po’ bassi sul naso a pallina, osservava la fetta da vicino, e con sguardo professionale da entomologo, rigirandola da tutte le parti, decretava: «Devo avere messo troppo poco zucchero. E averla lasciata troppo nel forno. E forse ci voleva un po’ più di burro».

    Mi calava addosso una sera freddina, attraverso il vestito per metà ingiallito e per metà decisamente giallo. Il nonno, tra un po’, sarebbe uscito appoggiandosi di gran peso sul bastone, con la sua barbetta luciferina, la sua bocca sprezzante e i suoi occhi taglienti e, trascinandosi dietro un’aura di pipa e di pipì scadute, incurante che quella doveva essere stata per me, come per tutti i bambini, una giornata importante, memorabile e radiosa, mi avrebbe chiesto duramente se avevo fatto i compiti, almeno.

    Nonnina era scarsa nei dolci perché non ne faceva mai, mentre si occupava molto di cucinare cose che piacessero al nonno, come risotti con dentro cose, tipo funghi, carciofi, pisellini, champagne, poi scaloppine annegate in salse biancastre e francesi, cotolette fritte nel burro (era per lo più l’Artusi che la consigliava, che si esprimeva in dosi ridicolissime, tipo alquante uova, alquanta farina), pesci che mentre cuocevano prendevano a puzzare di morto, e che io odiavo ma dovevo trangugiare per forza perché secondo il nonno quando si vive al mare si deve mangiare il pesce, e quando decideva che dovevo mangiare una cosa, dovevo finirla, fino al rischio di vomito), e poi il suo epico, celeberrimo, mitico, manzo alla California.

    La gente ha il vezzo un po’ letterario di chiedere agli altri: qual è l’odore della tua infanzia? E in genere vengono fuori zagare in un tiepido aranceto siciliano, biscottini per il tè appena usciti dal forno di una antica casa di campagna, rose moribonde in salotti con verande, profumi di Dior nei vestiti della madre. Per me, è manzo alla California. Cioè, praticamente, aceto e chiodi di garofano. A me pare che succedesse tutti i giorni, ma ammetto che è irreale, sarà stato piuttosto una volta la settimana: verso le sette di mattina venivo svegliata dal mio naso, cioè da quell’odore là, aceto e chiodi di garofano.

    Capivo perché le svenute venissero svegliate con l’aceto: si infila dappertutto e non gli si può sfuggire. Con i chiodi di garofano, poi, era una vera violenza: non era un odore, era una fanfara, un tamburo che, pungente e aggressivo, andava girovagando per la casa infiltrandosi nelle scarpe, nei cassetti della biancheria con i fiori di lavanda, in bagno, e anche in sogni molto lontani da uno stracotto, come quelli prodotti nella mia mente di orfana dai libri ottocenteschi che leggevo a casaccio frugando in quella casa di vecchi, genere I tre moschettieri o L’uomo che ride, I miserabili, comprati chissà quando a fascicoli, cioè mollicci, di cartaccia ruvida, scritti in piccolo ma comodi da leggere a letto come giornalini.

    Tanto, Topolino nonnina non me lo comprava mai: io lo vedevo in mano alle mie amiche ma non osavo chiederlo in prestito pensando che fosse considerato poco dignitoso in una famiglia per bene come la mia. Lo portava ogni tanto mio cugino Francesco da Milano e me lo lasciava lì.

    Nonnina metteva la pentolona sul fuoco al mattino presto mentre era ancora in vestaglia e il giardino manteneva il respiro umido della notte, e quando la mimosa riapriva sbadigliando giallo i mille piumini chiusi per paura dell’oscurità e ricominciava a spandere un profumo indiscreto da soubrette, mi trovavo di fronte all’improvvisa apparizione di un essere minuscolo, una creatura irreale acquattata in una camicia bianca lunga e ricamata, come una principessa da fiabe il cui corpo nella storia conta sempre molto poco, infatti non vengono mai descritte, non so, le braccia o le gambe, ma solo eventualmente la boccuccia rossa e carnosa o gli occhi azzurri, o i lunghi capelli biondi. Ecco, lei in quel momento consisteva esclusivamente in quei capelli lunghi e bianchi che, con la testa e il busto piegati verso sinistra, spazzolava con una grazia violenta e ostinata, un torrente in piena, spumeggiante tutt’intorno a un faccino rugosissimo, con la bocca un po’ deformata, meglio, gonfiata, da una doppia dentiera. Non sorrideva, perché non sorrideva quasi mai, ma lì nella penombra bianca dell’alba, tra palme e glicine, al nascente sole della mimosa, io provavo davanti a lei una sensazione di fierezza, di paura di perderla, di voglia di stritolarla di abbracci, di ammirazione, di fortissimo possesso, una specie di apnea.

    Cioè, l’amavo. Nessuno aveva una nonna così d’argento, con le mani grandi, magre e ricamate di vene gonfie e azzurrine, gli occhi piccoli, miti e plagiati da una tristezza lontana e potentissima, i capelli da fata antica di secoli, circonfusa d’aceto e di chiodi di garofano, e che mi voleva. Lei mi voleva.

    Nessuno mi voleva, e lei pareva volere solo me: forse avrebbe preferito avere la mia mamma, ma la mia mamma era morta quando avevo quattro anni, e le ero avanzata solo io. Nonnina era l’unico motivo per cui ero certa di esserci, e pensavo sempre che se fosse morta anche lei, io non ci sarei più stata, sarei svanita nel nulla.

    Forse perché lei parlava sempre della sua morte: era vecchia e, anzi, avrebbe dovuto morire lei al posto della mia mamma che era così giovane forte e bella; alla fine insomma era sempre presente fra noi in un modo o nell’altro quella misteriosa normalità che consisteva nello scomparire alla vista degli altri, e io mi sentivo tutti i giorni miracolata per esserci ancora, nonché per avere, come diaframma fra me e il mondo, quella tiepida entità di ignota natura che mi proteggeva dal nonno, con la sua faccia deliziosamente spiegazzata che si sgualciva esageratamente le poche volte che rideva: e praticamente l’unica cosa che le induceva un risolino timido e intenso erano i concetti un po’ osé, come la parola pipì.

    Veniva voglia di dire «Pipì pipì pipì!» solo per vederla ridere scandalizzandosi. Salvo poi citare con naturalezza un vecchio prete che frequentava la casa di suo padre, e che quando c’era il pollo a pranzo, chiedeva appunto, spiritosone, il boccon del prete, che era poi, precisava lei seriamente, il piscio culo.

    Non mi sono mai spiegata come potesse venir fuori da quell’angelo liofilizzato e in tutti i sensi candido, come fosse normalissima, l’ orrenda espressione piscio culo che, diceva, era quella usata dalle domestiche e dai contadini della loro casa di campagna, ma che io perfino oggi trovo imbarazzante, e sì che di parolacce ne so veramente tantissime.

    L’amavo. Ogni mattina, vedendo che c’era ancora e non era evaporata durante la notte, e che anzi si era materializzata ancora una volta e con maggiore concretezza nell’ectoplasma di un ennesimo manzo alla California ancora più intenso di aceto e di chiodi di garofano del solito, le saltavo addosso e la baciavo dappertutto, con un impeto da amante, anche se lei mi teneva un po’ a distanza con le mani perché era stata allevata col principio che, uno, non si toccano gli altri, due, non ci si lascia andare agli istinti.

    Ma io, che ero stata amata fino a quattro anni da una mamma passionale e sensuale (che strane parole per descrivere una mamma), poi più niente, ero rimasta un animalino irrefrenabile e non addomesticabile, e baciavo, baciavo a man bassa dove capitava, e lei, svanita nel labirinto dei ricami, si difendeva come una verginella mentre il candore dei capelli si spargeva dappertutto, in una lotta impari, perché io ero forte e lei fragile, o così almeno pareva. Finita la lotta, si ricomponeva, chiocciando un po’ come una gallina che si rassetta le piume, si pettinava da vecchia signora, si infilava in un vestito sempre nero per il lutto e, sottile sui tacchetti, alzava la testa, si infilava orecchini, anelli, nastrino per il collo, e ricomponeva subito il puzzle della sua faccia triste.

    Il nastrino alla gola lo metteva per tener su la pelle del collo, che infatti, in certe posizioni, spioveva come i bargigli di un tacchino. Per esempio quando ero malata, e lei si chinava su di me a sentire con le labbra gonfie di dentiera se avevo la fronte calda, e questo era uno dei momenti più belli della mia vita, perché mi pareva di essere sua, di avere qualcuno di mio, a cui importava se morivo, ed era come se mi abbracciasse, anche se non lo faceva mai, ma si sentiva che la sua mano magra, asciutta e calda mi amava. E allora la faccia che mi veniva vicino, era una faccia assolutamente diversa dalla solita, in cui i lineamenti quasi non esistevano più, nascosti da quella cascatina di pelle, e io cercavo sempre di tirarla giù per le spalle dicendo «Vieni qui che ti voglio baciare la pelle di tacchino», e lei rideva per l’insolenza. Credo mi sia venuta da lì l’idea che l’amore sia essenzialmente una cosa che ti fa baciare i difetti.

    Era in ansia per me per un nonnulla: forse aveva paura, come fosse una fatalità, che sarei morta anch’io come la mia mamma: c’era lei vicino alla sua Lea all’ospedale quando stava malissimo, pensando a quella povera bambina di quattro anni che ero io e che sarebbe rimasta sola. Le scaldava forsennatamente i piedi, a Lea, con le mani sotto le coperte, perché i suoi piedi erano davvero molto molto freddi, e strofinava strofinava, ma i piedi a un certo punto avevano cessato di lasciarsi scaldare, e man mano che lei saliva con le dita sui polpacci, stavano diventando freddi anche quelli, e poi le ginocchia fredde, e poi lentamente ogni parte del corpo andava raffreddandosi, finché era morta tutta.

    Non sapevo che la gente morisse a poco a poco cominciando dai piedi e andando su su fino al cuore e alla testa. Pensavo che fosse la testa a morire prima, perché nella testa c’è la faccia che è la cosa più importante perché guarda, bacia e parla, e se muore quella è terribile, mentre i piedi e il resto pazienza, tanto non dicono mica molto.

    Di marmo ce n’è una sola

    L’unico momento in cui mia nonna perdeva l’inguaribile nostalgia che aveva nella voce, era quando, già col cappellino in testa, la veletta sulla faccia, e la borsetta al braccio, mi chiamava per andare a trovare la mia mamma. Sebbene fosse una lunga gita a piedi, mai che preparasse panini col salame e fette di torta al cioccolato: tanto si andava dalla mamma, e questo era una cosa bella in sé.

    Erano un bel po’ di chilometri in salita, da Nervi a Sant’Ilario, e lei taceva e respirava corto sbuffando e risucchiando avanti e indietro la veletta. Ogni tanto ci fermavamo a riposarci e allora era un lungo canto d’amore per quella sua figlia così luminosa, per i suoi occhi azzurro inesorabile e i suoi capelli neri senza scampo. Peccato, che io non le assomigliassi per niente... Beh, pazienza, erano belli anche i miei occhioni neri... Strano, perché nella loro famiglia tutti, proprio tutti, avevano gli occhi chiari. Ma, pensavo io, non c’era caso che io potessi assomigliare a... per esempio, a qualcuno che potesse eventualmente essere stato mio papà? Evidentemente no: la parola padre, trattandosi di me, non veniva mai usata. Certo, che, povera bambina, ero stata proprio sfortunata.

    Ci rimettevamo in moto, e dal suo respiro lentamente affannoso, come non potesse aspettare a dirmela, nasceva sempre, esalata appena, la solita parola: orfana. Uffa. Che fossi orfana era fin troppo chiaro a tutti, ma c’era proprio bisogno di ribadire tutti i momenti quel noioso concetto? Povera bambina, che era diventata orfana già a quattro anni... Povera bambina senza mamma. Povera bambina, che destino crudele. Povera la tua mamma, morta così giovane. Povera me che ho perso una figlia, povera bambina che ha perso la mamma così presto... Una povera bambina orfana.

    Orfana a me??? urlavo ogni tanto affacciandomi sul nulla scosceso della vallata. Orfani sarete voi! Orfani tutti gli altri! Orfano tutto il mondo! Sì, orfani sarete voi, signori di tutto il mondo! E mi mettevo a cantare forte e a saltare per la strada in salita, e a ridere fortissimo, sonoro, mentre nonnina si asciugava la fronte con un fazzolettino infilato sotto la veletta e si affannava a sussurrare a se stessa che ero proprio un po’ matta e che certo assomigliavo a... mah!, chi dice mah cuor contento non ha (aveva sempre un proverbio pronto)... comunque lei mi voleva tanto bene lo stesso, perché ero figlia della sua Lea, che mi aveva lasciato lì così orfana.

    Ma lassù, nella stanza della torretta in cima alla villa, ero sempre la principessa. Salutavo il mio popolo con gesti minuti della mano concedendo sorrisi a desta e a sinistra. Sì, questa era la mia vera vocazione. Invece per lo più piangevo a faccia in giù sul letto del sottoscala perché il nonno

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