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Vaniglia
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E-book266 pagine3 ore

Vaniglia

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“Vaniglia” è un romanzo che tocca con dolcezza le varie stagioni della vita.Dalla spensieratezza dell’età giovanile, alle nuove responsabilità che si affacciano nell’età adulta fino al tramonto della vita.
“Vaniglia” cerca di riportare alla luce la profonda bellezza della nostra esistenza anche di fronte al dolore scaturito da una malattia come l’Alzheimer che, lentamente, ti spoglia di tutto, di quella che è stata la tua storia personale, la tua identità.

 
LinguaItaliano
Data di uscita8 nov 2018
ISBN9788868272746
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    Anteprima del libro

    Vaniglia - Vittoria Maria Pagani

    Francesco

    1.

    Mio zio era lì.

    Posizionato nella parte del salone polifunzionale che più gli piaceva: vicino alla finestra grande.Timidi raggi di un pallido sole di metà marzo facevano brillare i suoi occhi azzurri un po’ socchiusi e sonnolenti. Probabilmente si era svegliato da poco. In fondo ero arrivata presto: erano solo le tre di pomeriggio. Quel giorno le operatrici socio sanitarie l’avevano vestito con il maglioncino rosso, dal quale sbucava la camicia di colore blu chiaro e un paio di pantaloni della tuta. Me lo ricordavo quel golfino, glielo avevo regalato l’ultimo Natale che aveva a casa sua prima di essere internato nella Casa Famiglia di Stia, quattro anni fa. Mi soffermai un attimo a osservarlo e sorrisi: il colore rosso ancora gli donava molto al viso. Presi l’unica sedia che trovai libera vicina a un tavolo e la misi di fronte alla sua carrozzina. Il suo sguardo sembrò farsi più attento. Al di là dei suoi grandi occhiali tondi, credetti per un attimo che ne suoi occhi si fosse costruita un’espressione di gioia. Ma forse mi sbagliavo: i medici, qualche mese fa, mi dissero che la progressione della malattia l’aveva reso inespressivo. Con il cuore in mano, non potei dare a loro torto.

    Malattia. Mio zio Fernando era malato di Alzheimer.

    Mi immaginai una lavagna nera piena di scritte e di immagini che piano piano si cancellano una a una. Come un’inesorabile spugna che lentamente annulla i tuoi ricordi. Come se niente fosse mai esistito. Terribile solo al pensiero. La tua persona, la tua identità si sfuma delicatamente e meschinamente lungo i giorni. Una corsa inarrestabile. Una corsa contro il tempo che ti dimentica, che ti spoglia di tutto quello che hai. Ricordi di momenti felici e tristi si mescolano nello stesso sapore: il sapore del niente.

    Ogni volta che mi chinavo ad abbracciarlo, puntualmente mi domandavo se in quell’abbraccio avrebbe riconosciuto il mio profumo. Vaniglia. Mi ricordo di come, appena le sue capacità olfattive iniziavano a captare questa fragranza, si ostinasse a dire che sapevo di caramella. «Troppo dolce!» esclamava sempre.

    E ora mi ritrovavo ad abbracciare un corpo che, con molte probabilità, mi considerava straniera, sconosciuta, come se quel momento fosse sempre il primo abbraccio della vita.

    Mi rendevo conto di come dentro di me si creasse una specie di vuoto, di spazio sospeso in cui gioia e dolore si tenevano per mano: gioia, perché mio zio era lì, accanto a me, e la sua presenza bastava come testimonianza del nostro legame indissolubile, del nostro rapporto così unico e speciale che ci ha sempre permesso di colorare i nostri ricordi di dolcezza e immenso affetto. Dolore, perché richiedeva un grande sforzo accettare serenamente la sua condizione attuale e il ripetersi nella testa che lo zio di ora, in fondo, era la stessa persona di dieci anni fa.

    Nella mia testa mi ripetevo spesso queste parole, ma non mi riuscivano a dare conforto così facilmente come quando, il calore delle sue braccia, che tentavano fievolmente di tenermi stretta al suo corpo, mi facevano sentire a Casa.

    Mi risedetti sulla sedia. Gli presi le mani fra le mie:

    «Ciao zio, non mi dire che anche oggi ti sei dimenticato come si sorride!»

    Cominciò leggermente a oscillare con la schiena: destra sinistra destra sinistra, per poi fermarsi, aprire la bocca ed emettere un lungo suono, come un leggero grido. Ebbe tutta la mia attenzione possibile: questo era il suo modo migliore di comunicare.

    Iniziai a frugare dentro la mia borsa. Era davvero incredibile: più mi ripromettevo di tenerci dentro solo lo stretto necessario e più il tutto si trasformava in un ammasso di cianfrusaglie inutili che avevano il solo scopo di spazientirmi mentre ero intenta nella mia ricerca. Finalmente trovai la busta bianca con all’interno la fotografia.

    «Signora, non si dimentichi di parlare a suo zio, mi raccomando! Anche se non può partecipare attivamente alla conversazione, non si lasci abbattere. Le assicuro che è importante» mi disse un medico della Casa Famiglia quando Fernando iniziò a perdere progressivamente la capacità di espressione.

    E io non me lo feci ripetere due volte.

    Mio zio risiedeva in quella parte della struttura denominata Nucleo Protetto in cui porte e finestre erano bloccate con un particolare sistema di sicurezza proprio per evitare che persone affette da Alzheimer potessero continuamente uscire senza sosta e senza meta. Composi il codice di sicurezza per sbloccare la porta che dal salone polivalente portava al resto della struttura e uscii spingendo la carrozzina di mio zio. Mi direzionai verso quello che chiamavano Il giardino d’inverno: questo non era altro che un lungo tunnel di vetrate che collegava la parte della Casa Famiglia adibita ad RSA al grande salone del Centro Diurno dove le persone anziane, iscritte a questo servizio, usufruivano della possibilità di trascorrere la giornata in buona compagnia, tra tombolate, giochi di carte, parole crociate, canti e feste, fino alle sei del pomeriggio, ora in cui il pullmino arrivava a prenderli per riaccompagnarli ognuno nelle proprie abitazioni.

    Il lungo tunnel era colorato da bei vasi di fiori e da verdi alte piante che andavano a comporre un grazioso quadro di primavera. Ma la vera primavera si stava svegliando al di fuori di quelle vetrate. I primi fiorellini stavano iniziando a punteggiare tutta l’erba del giardino, gli uccellini avevano cominciato a volteggiare, sempre più numerosi, fra le folte chiome degli alberi che si erano appena rivestiti dopo aver passato, spogli, un lungo e freddo inverno. E poi c’era il sole, che ogni giorno lottava contro il buio per accaparrarsi un pezzettino in più di luce. Se ti soffermavi anche solo un attimo a guardare il cielo nel tardo pomeriggio, il sole ultimamente sembrava vincere sempre.

    Presi posto a un piccolo tavolino e scansai un’altra sedia per lasciare spazio alla carrozzina di Fernando. Aprii la piccola busta bianca e tirai fuori la fotografia. La tenni delicatamente fra le mani con la paura di poter lasciare qualche fastidiosa ditata su quella immagine. Un’immagine incredibilmente bella e importante per poter essere anche minimamente rovinata. Avrei tanto voluto rubare il sorriso di mio zio da quella foto per poterglielo dare in quel momento in cui le emozioni sembravano esseri sconosciuti nel suo volto.

    «La malattia del signor Fernando, oramai, è progredita a tal punto da renderlo inespressivo».

    Inespressivo: la parola che mi tornava sempre in mente, più di tutta la restante analisi clinica che, subito dopo, continuò a comunicarmi il medico.

    Nella foto mio zio indossava lunghi pantaloni di cotone leggero color beige contornati da una cintura di pelle nera, una camicia a maniche corte bianca con il taschino e un paio di scarpe nere.

    Io avevo degli stivaletti di colore marrone chiaro, jeans abbastanza aderenti, una canotta a tinta unita rossa, con sopra una camicia aperta beige. Abbracciati davanti al portoncino (nonché mia porta di ingresso) n° 11 sorridevamo, pieni di gioia, davanti all’obiettivo.

    Mi avvicinai ancora di più al suo volto. La scritta sul retro 16 settembre 2006 venne un po’ coperta dalle mie dita.

    «Ehi zio, ti ricordi questa foto? L’abbiamo scattata come ricordo del primo giorno in cui mi trasferii qui a Stia per iniziare l’università». I miei occhi si riempirono di emozione. Sperai che anche nei suoi fosse così.

    Se nella sua mente i ricordi si erano addormentati, ero certa che nel suo cuore battevano forte, semplicemente avevano perso la voce. Perciò mi proponevo di essere, in qualche modo, la loro espressione, come una profonda melodia che cerca di accordare armoniosamente i suoni di una vita.

    2.

    Il sale. Mi mancava il sale.

    Com’era possibile averlo dimenticato? Eppure l’avevo segnato sul biglietto della spesa. Non riuscivo a spiegarmelo. Ora avevo sul fuoco una pentola carica di acqua bollente, un piatto di fusilli ancora crudi, un po’ di salsa di pomodoro già versata nel tegamino e la bustina di parmigiano grattugiato già sul tavolo. Mancava solo quel dannato sale grosso.

    Aprii la porta e citofonai a mio zio: in quel momento mi sentii ancora più fortunata ad averlo così vicino.

    Forse non è in casa pensai mentre i secondi continuavano a susseguirsi senza mostrarmi un minimo cenno di risposta. Fin quando non sentii una voce chiara e forte provenire dall’esterno del piccolo loggiato che abbracciava entrambi i nostri ingressi.

    «Maddalena, non avrai ancora bruciato il mestolo di legno, spero!»

    La sua ironia aleggiò leggera nell’aria fresca di ottobre. Affacciato alla finestra, mi guardava con aria curiosa e un po’ agitata, pronto a scoprire quale altro danno avessi combinato in cucina. Effettivamente fare la cuoca non era di certo il mio mestiere. Non avevo molta fantasia nella preparazione dei piatti, e il solo pensiero di ammucchiare numerose quantità di cocci nel lavandino e doverli poi lavare a mano, mi terrorizzava. Appena mi trasferii a Stia, mi ricordo che i piatti, i bicchieri e perfino le posate fossero rigorosamente di plastica. Usa e getta. Molto più semplice e meno fastidioso. Iniziai a cambiare un po’ le mie abitudini poco dopo, quando le cene con gli amici divennero sempre più frequenti e ciò permise di accorgermi quanto fosse poco dignitoso accoglierli con una tavola imbandita in quella maniera.

    «No zio, per ora quel mestolo è ridotto a un mozzicone di legno, ma resiste! In compenso mi sono resa conto di non avere il sale grosso per salare l’acqua della pasta».

    Mi aprì il portone e salii le scale a due a due. Trovai la porta di ingresso leggermente accostata.

    Fernando indossava un bel paio di jeans e un maglioncino di cotone leggero nero. Sopra l’insostituibile grembiule con la rappresentazione del Davide di Michelangelo. Mi faceva sorridere la sua quotidiana tenuta da cucina: quel grembiule lo considerai sempre un imbarazzo per l’arte italiana.

    La pasta quel giorno venne un po’ salata. Forse quella strana forma di entusiasmo per aver recuperato l’ingrediente base per non trasformare il mio pranzo in un piatto immangiabile, aveva fatto in modo che le mie dita non controllassero sufficientemente bene la loro presa con il sale.

    Una mela rossa fu la conclusione di quel pasto.

    Dopo aver sistemato diligentemente la cucina, mi sedetti un attimo sulla sedia. Com’era graziosa la mia casetta. Il mio piccolo nido in cui affrontare quelli che dicono essere gli anni più belli della gioventù. Mi ringraziavo ogni giorno di aver fatto quella scelta. E ogni giorno mi rendevo conto di quanto fosse stata la scelta migliore che potessi prendere. Mi ricordo la prima mattina che mi svegliai in quel piccolo appartamento. Non mi sembrava vero. Dov’erano andati a finire tutti i rumori di una grande città come Milano? Gli antipatici clacson delle macchine già incolonnate nel traffico alle sette e mezza di mattina, il treno che scorre veloce sulla ferrovia sotto casa e le forti sirene che gridano a gran voce per farsi spazio fra le strade.

    Silenzio. Solo silenzio. Un silenzio così profondo che quasi mi faceva sentire a disagio. Non ero abituata, semplice. Mi dovevo sforzare per sentire qualche rumore di prima mattina. I cinguettii degli uccellini in lontananza, il leggero fruscio delle foglie dell’albero di fico, le pantofole di mio zio al piano di sopra che si apprestavano ad andare in cucina per prepararsi una tazza di caffelatte. La mia casetta era abbastanza piccola. Bastava aprire il portoncino di ingresso per ritrovarsi subito in cucina; qualche passo più in là e ti ritrovavi, sulla sinistra, un grande sgabuzzino salva vita utilissimo per conservare quelle mille e più cose che ognuno tende ad accumulare man mano che i giorni passano. Un salottino con una scrivania in ciliegio, un armadio color perla e un bel divano rosso cupo in grado di trasformarsi in un letto a castello. La camera invece era composta da un letto matrimoniale contornato da una morbida ecopelle blu mare uguale alla testata, mentre i comodini e gli armadi erano di una tonalità grigio chiaro. Il bagno era molto piccolo, ma particolare: appena prima della doccia vi era una porta finestra che dava su un piccolo appezzamento di giardino privato, al centro del quale svettava un rigoglioso albero di fico.

    Chiunque entrasse in quella casa, affermava che fosse molto calda e accogliente. Forse ciò era dovuto al fatto che le pareti di ogni stanza fossero dipinte di un colore diverso: giallo tenue la cucina, color aragosta il salottino, azzurri la camera e il bagno. O forse a rendere così piacevole l’ambiente domestico era il prezioso consiglio che mio zio mi diede il primo giorno che mi trasferii qui a Stia e che, quotidianamente, mi impegnavo a seguire alla lettera: «Da questo momento non avrai solo il compito di tenere in ordine la casa, ma anche di viverla e colorarla di profondi e dolci sorrisi attraverso le stagioni che, in questi anni, si costruiranno davanti ai tuoi occhi».

    Mio zio era rimasto vedevo molto giovane, così giovane che non ebbe nemmeno il tempo di mettere alla luce dei figli insieme a sua moglie. E da quel giorno Fernando non uscì più con nessun’altra donna, o almeno era quello che la mia famiglia si era sempre raccontata in tutto quel tempo.

    Mio zio possedeva quello sguardo di chi aveva fatto la guerra. E di chi l’aveva sconfitta. Battagliero d’animo, era abituato a non lasciarsi sopraffare dai dolori della vita. Un enorme sorriso riusciva imperterrito a rubare il posto alla tristezza e alla malinconia che, a volte, incombevano nelle sue giornate. A ottant’anni sarebbe stato bello poter condividere ancora la quotidianità con la propria amata accanto. Invece, una leggera brezza estiva l’aveva portata via in punta di piedi appena dopo quattro anni di matrimonio. E in punta di piedi la vita di mio zio cambiò radicalmente e per sempre.

    «L’amore percorre strade incredibili» mi ripeteva frequentemente ogni volta che si parlava di mia nonna, sua sorella. «Pensa, da una foto, da una semplice foto, è nato un legame indissolubile».

    Fu proprio così. Mio nonno Francesco si era innamorato prima di una foto e poi di quella persona che, effettivamente, sarebbe diventata sua moglie.

    Fernando venne imprigionato in Egitto a El Alamein. E con lui mio nonno. Tra la sofferenza e la paura si fece spazio un sincero sentimento di amicizia, una forza concreta per affrontare al meglio quei drammatici momenti.

    «Ci rincontreremo» si erano detti. «Una volta finito tutto questo inferno, ci rincontreremo, è una promessa».

    E più la loro amicizia cresceva, contornata dall’abbraccio freddo della prigionia e dal timore di poter perdere la vita da un momento all’altro, più Francesco si innamorava segretamente di quegli occhi dolci impressi in quella fotografia che mio zio baciava ogni sera prima di addormentarsi, con la speranza di poter nuovamente vedere sorgere il sole.

    3.

    Pochi passi e ero arrivata. Meno male.

    Nonostante l’aria fosse abbastanza mite, quel giorno soffiava un vento fortissimo.

    La fermata della Sita, il pullman che collegava Stia a Firenze, si trovava a pochi metri da casa mia, accanto al bar più grande del paese: il Bar Roma.

    Mi avvicinai al bancone e ordinai un bicchiere di cedrata e un cornetto ripieno di marmellata alle more. L’abitudine di girarmi e dire: «Zio, vuoi qualcosa?» sembrava non avermi abbandonata nemmeno nel corso di quegli ultimi anni. Presi posto al tavolino più vicino alla porta di ingresso. Osservai. Il locale era gremito di uomini che, con molte probabilità, avevano superato la settantina.

    «Sta diventando un paese di vecchi!» Fernando me lo ripeteva sempre.

    Effettivamente, già all’epoca non potevo dargli torto. La grande maggioranza dei ragazzi, anelavano a trasferirsi per studiare nelle città più vicine, come Firenze e Bologna. Io, invece, ero andata controcorrente: ero stufa di sentirmi solo un numero, più che una persona, all’interno della realtà scolastica, perciò mi trasferii a Stia per studiare nella piccola facoltà di Arezzo che faceva parte dell’Università degli Studi di Siena.

    Un giorno di inverno, quando un’abbondante nevicata nascose sotto il suo manto bianco la vallata, mi ritrovai a seguire una lezione di filosofia morale da sola con il professore. Ne venne fuori un interessante dibattito per due ore: un’esperienza unica. Un bellissimo ricordo.

    E ora, quel pezzetto di carta che avevo conquistato con tanto impegno e orgoglio, aveva fatto in modo che trovassi un impiego come educatrice (divenuto, poi, un lavoro a tempo indeterminato) in una struttura diurna per persone diversamente abili. La vita aveva scozzato le carte con il tempo, facendomi fare ritorno nella mia città nativa: la grande Milano.

    Finii di sorseggiare la mia cedrata e raccolsi velocemente le briciole dal tavolo: si stava facendo tardi. Pagai e mi trascinai sonnolenta, insieme alla valigia, fuori dal bar: eppure ero abituata a svegliarmi presto.

    Misi la valigia nel bagagliaio e salii le scalette. La porta si chiuse dietro di me poco prima di prendere posto a sedere. Curva dopo curva il pullman iniziò a lasciarsi Stia alle spalle: e io con lui. Sentii come un nodo in gola. Ammisi a me stessa che a ogni partenza avevo come il terrore che quella potesse essere stata l’ultima occasione per vedere mio zio vivo. Ultimamente nella sua condizione era abbastanza stabile, ma quegli occhi, quel suo volto così inespressivo, lo rendevano come morto.

    Ripresi la foto fra le mie mani. Possibile che mio zio non fosse riuscito nemmeno ad accennare una sorta di sorriso? Se n’era fatta anche una copia di questa immagine per poi incorniciarla e metterla sopra il suo tavolino posto al centro del salotto. E ora era rimasto impassibile. Come se gli avessi mostrato un foglio bianco davanti ai suoi occhi: la reazione, in fondo, era stata la stessa. Mio zio era malato. Malato. Una parola che ancora non ero riuscita ad affiancargli del tutto. Malato di una malattia che lo rendeva come un foglio bianco. Un dannatissimo foglio bianco. E io dove ero andata a finire? I nostri ricordi, tutto ciò che avevamo vissuto insieme?

    Appena mi trasferii a Stia, nacque l’abitudine che ogni mercoledì sera, dopo cena, salivo in casa di mio zio per chiacchierare davanti a una calda tazza di caffelatte e a un ricco vassoio di biscotti Pan di Stelle, pronti per essere inzuppati. Con il trascorrere delle settimane, Fernando divenne il mio consulente preferito, la persona migliore a cui chiedere consiglio e raccontare le proprie confidenze. Non solo. Grazie ai suoi racconti, mi diede la possibilità di ricostruire nella mia mente tanti fotogrammi della mia infanzia. «Quando ogni estate trascorrevi il mese di agosto qui a Stia e mi combinavi sempre tanti guai!» diceva sorridendomi.

    Anche ora avevamo un appuntamento ogni settimana: sì, ma nella Casa Famiglia dove oramai viveva. Era come se ci fossimo dati il cambio: ora toccava a me riportargli alla luce, anche solo per un secondo, i ricordi che custodiva a ogni battito del suo cuore. Perché ne ero certa che lì ci fossero ancora e che nessuno, nemmeno una grave malattia, fosse in grado di cancellarli nel loro più profondo.

    «Inespressivo. La malattia di suo zio è arrivata a un punto da renderlo inespressivo». Parole che, come lame, continuavano a farmi male nella testa e nello spirito.

    Fra i binari della stazione ferroviaria di Firenze Santa Maria Novella il vento si era notevolmente

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