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Il padrone del tempo
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E-book305 pagine4 ore

Il padrone del tempo

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Info su questo ebook

Una madre affetta da depressione post parto, durante l’assenza del marito, uccide il figlio di appena tre mesi. La donna viene ritrovata in stato confusionale, vicino al cadavere, con il coltello tra le mani. Il caso sembra di facile risoluzione, ma alcuni particolari non convincono i due poliziotti Teokratis e Panetta. Lavorando sotto traccia, cominciano così a indagare sulle attività del marito della donna, un ricco operatore finanziario. I due dovranno fare i conti con omicidi efferati, personaggi inquietanti, perversioni sessuali, ambienti da incubo e manifestazioni paranormali: una vera e propria discesa agli inferi che porterà Teokratis e i suoi compagni a contatto con i più osceni segreti del male assoluto.
LinguaItaliano
Data di uscita25 lug 2019
ISBN9788863939279
Il padrone del tempo

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    Il padrone del tempo - Ignazio Pandolfo

    CAPITOLO 1

    Il grido di una sirena che risuona lontano si assottiglia nella distanza fino ad annullarsi. La luce accidiosa del primo pomeriggio filtra attraverso la tenda.

    Latte, creme, pannolini, borotalco; nella stanza grava l’odore di neonato. La madre, seduta sul bordo del letto disfatto, fissa assorta il fondo della culla. Il silenzio è assoluto come se l’intera casa stesse trattenendo il respiro. La donna si riscuote, allunga un braccio verso il comodino, prende un flacone di pillole, ne lascia cadere due sul palmo della mano. Le osserva un istante e poi, con uno scatto, le manda giù senz’acqua. Ripone la boccetta e con le mani congiunte sotto il mento, si appoggia alla sponda della culla. Il suo sguardo ora sembra perso nel nulla, come se stesse aspettando qualcosa o qualcuno.

    Fuori il cielo deve essersi coperto ancora di più; ormai la finestra non è che un riquadro grigiastro da cui cola la penombra.

    La Fondazione Vernet, situata in una maestosa villa in stile vittoriano, sorgeva a non più di venti chilometri dalla città, in una zona verdeggiante dove le macchie di querce e di ontani si alternavano a prati ricoperti da una candida coltre di neve.

    Nel suo studio al secondo piano, il professor Paul Vernet se ne stava seduto dietro la scrivania, immerso nella lettura del resoconto del bilancio di fine anno. Il silenzio in cui era immersa la stanza era disturbato solo dal ticchettio di una pendola d’epoca, unica concessione al lusso nella semplicità quasi monastica dell’ambiente. Dalla parete di fronte, un imponente crocefisso in legno scolpito, risalente al sedicesimo secolo, sembrava voler racchiudere tra le braccia spalancate l’intera stanza. Il professore, concentrato nell’analisi delle cifre, di tanto in tanto portava alle labbra il cannello d’ambra della pipa in schiuma dalla quale si alzava un aromatico filo di fumo.

    Paul Vernet era un uomo anziano che grazie al fisico asciutto e ancora prestante dissimulava bene l’età avanzata. I suoi occhi verdi esprimevano sicurezza interiore e grande esperienza della vita; l’espressione era quella di un uomo ormai in grado di guardare con profondo disincanto ogni vicenda umana. Senza distogliere lo sguardo dalle carte, con un gesto lento e misurato, egli premette il tasto della pulsantiera che stava alla sua destra. Dopo pochi istanti qualcuno bussò alla porta dello studio. «Avanti, entra pure» disse, alzandosi per accogliere Olga Stevenson, la sua segretaria personale e da qualche anno direttrice della Fondazione. Una bella signora sui quaranta, dai capelli rossi, slanciata ma piuttosto formosa. Le andò incontro e come di consueto la accolse con un rapido e appena abbozzato baciamano. Quindi, con fare signorile e affabile, la invitò a sedersi: «Prego, mia cara, accomodati» disse indicandole la poltrona davanti allo scrittoio. Tornò al suo posto, si tolse gli occhiali e le sorrise. «Ho appena finito di esaminare i conti della nostra Fondazione; sono veramente soddisfatto! Anche per quest’anno chiudiamo con il bilancio in pareggio. Ho notato inoltre che le elargizioni dei privati sono in aumento.»

    «È vero» confermò lei «quest’anno, per fortuna, abbiamo avuto un importante aumento delle donazioni e dei lasciti.»

    «Segno che la nostra attività comincia a essere conosciuta e apprezzata» Paul la interruppe. Quindi con fare rilassato si lasciò andare contro la spalliera della poltrona, tirò un paio di boccate e riprese: «Domani mi piacerebbe che fosse padre Matheson a officiare la messa di Natale, come la scorsa settimana. Pensi che sarà possibile?». 

    «Sì, vedrai che non ci saranno problemi.»

    «Ne sono felice. Spero solo che questa volta anche mia moglie possa partecipare.»

    «A proposito, come sta Angie?»

    Il volto del professore parve oscurarsi. «Un po’ meglio… ma cosa vuoi che ti dica, in fondo siamo tutti nelle Sue mani; non possiamo che rimetterci alla Sua volontà.»

    Olga non disse una parola. L’uomo tacque per qualche istante e lanciò uno sguardo verso il crocefisso; poi, come liberatosi di quell’idea angosciosa si riscosse: «Molto bene. Mi pare non ci sia altro da dire».

    «Allora io andrei…» disse lei alzandosi, e quando fu sulla soglia aggiunse: «Volevo ricordarti che ho provveduto ad annullare il tuo appuntamento per domani pomeriggio con la signora Mills».

    Paul Vernet annuì e fece un cenno di saluto con la mano. 

    La donna non aggiunse altro e andò via.

    CAPITOLO 2

    «Allora Peter, come sto?»

    Il vecchio dottore alzò gli occhi dalle carte, lanciò a Teo uno sguardo mansueto da sopra le lenti. «Direi bene, è tutto a posto… esami del sangue, test da sforzo, radiografie, pressione. Tutto in ordine. È sorprendente.»

    «Perché? Cosa vuoi dire?»

    «Se devo essere sincero, non me l’aspettavo.»

    «Non capisco, Peter…»

    «Vedi Teo, il tuo è uno stile di vita assurdo. Non hai orari, mangi schifezze, dormi poco, sei sempre sulla corda, bevi litri di caffè. Per non parlare delle quaranta sigarette al giorno. Insomma, ero convinto di trovarti a pezzi e invece sei ancora dannatamente sano.»

    «Quindi, cosa dovrei fare?»

    «Come tuo medico personale posso solo consigliarti di non continuare a sfidare la fortuna. In altre parole, dovresti cambiare abitudini, magari farti assegnare a un ufficio meno gravoso. Devi pensare di più a te stesso. La cosa che mi ha stupito è come tu sia riuscito a trovare il tempo per sottoporti a tutti gli esami richiesti.»

    «Ho preso qualche giorno di ferie.»

    Il dottore con espressione sbalordita chiese: «Ferie? Vuoi dire che per qualche giorno Chicago ha potuto fare a meno di Stefan Teokratis, il suo poliziotto più in gamba?».

    «Ho affidato la baracca al mio vice, il tenente Joe Panetta.»

    «Perbacco che nome! Sembra quello di un gangster italoamericano!»

    «Macché, Joe è il miglior elemento che abbia mai avuto. Di lui mi fido ciecamente.»

    Il medico si tolse gli occhiali e prese a pulire le lenti con un angolo del fazzoletto. Era un gesto metodico che denotava precisione e calma. «Quanto ti manca alla pensione?» chiese sottovoce.

    «Lasciare la squadra omicidi? No, non ci penso nemmeno, non saprei dove sbattere la testa. Comunque, la pensione è ancora lontana.»

    «Il tuo vero problema è che sei un uomo solo, da quando la povera Lisa non c’è più…»

    «Ti prego, Peter, non cominciare anche tu! Ormai sono passati dodici anni. E poi non credere; io ci provo, ma con le donne sono davvero uno sfigato!» ridacchiò.

    «Ma che dici! Non hai ancora nemmeno cinquant’anni, e non sei poi tanto male.» 

    «Sarà pure così, ma credimi, non è affatto facile. Senti cosa mi è capitato: un paio di mesi fa ho provato a rimorchiare una stagista, una ragazza sui trenta. Avevo intenzione di chiederle di uscire con me. Lei sembrava disponibile e così, tanto per fare un po’ di conversazione, un giorno le ho parlato della mia collezione di vinili di Johnny Cash.»

    «E allora?»

    «Sai che mi ha risposto? Johnny chi? Capisci, non aveva idea di chi stessi parlando! Ti rendi conto?»

    «Perbacco!»

    «Aspetta, non ho finito: mi ha anche chiesto cosa fossero i vinili! Sembrava proprio una creatura arrivata da un altro pianeta. Ovviamente ho lasciato cadere la cosa, e non se n’è fatto più niente.»

    «E così non conosceva Johnny Cash… Evidentemente era troppo giovane per te.»

    «Forse, ma a me piacerebbe avere una compagna, non una badante. Comunque, ormai sono talmente abituato alla solitudine che ci ho fatto il callo.»

    «A proposito, oggi è la vigilia. Come pensi di trascorrere la serata?»

    «Da solo a casa, come da dodici anni a questa parte. Te l’ho detto, ormai ci sono abituato.»

    «È quello che credi. In realtà alla solitudine non ci si abitua mai.» 

    Il volto di Teokratis si rabbuiò. «Hai ragione, chi è solo nei giorni di festa lo è due volte» ammise fissando l’amico.

    «Stammi a sentire, Teo, perché non vieni a cena a casa mia? Ormai mia moglie ti considera un membro della famiglia, e poi rivedresti i miei figli e i miei nipoti.»

    «No, ti ringrazio Peter, sei davvero gentile… grazie lo stesso.»

    «Come vuoi» sospirò il dottore, quindi si alzò e con fare rituale si sbottonò il camice, lo ripose nell’armadietto e indossò il cappotto. 

    «Come sei arrivato?» gli chiese.

    «In taxi.»

    «Allora mi permetterai se non altro di darti uno strappo fino a casa. Nevica da due giorni e per strada saranno almeno cinque sottozero.»

    «Peter, sei un vero amico! Grazie anche per aver aperto solo per me il tuo studio in un giorno come questo.»

    «Ma stai scherzando? Piuttosto sono felice di averti trovato in forma. Dai andiamo, si è fatto tardi.»

    Fuori l’aria era immobile e tersa, come di cristallo. La neve, che aveva ricoperto ogni cosa con il suo candore, rendeva le luci dei lampioni sfavillanti e cancellava le ombre. Perfino la strada, dove il traffico era piuttosto scarso, sembrava più larga e le facciate dei palazzi apparivano più luminose.

    Teokratis rabbrividì e si tirò su il bavero del soprabito.

    «Meno male che il vento è calato» mormorò il medico.

    I due uomini ingobbiti e avvolti dal loro fiato condensato, si avviarono verso il SUV ricoperto di ghiaccio, che sembrava quasi aspettarli. Nonostante il gelo, il motore del Sierra si avviò al primo tentativo sprigionando una densa nuvola di vapore. Il dottore attese che i cristalli si sbrinassero, accese il riscaldamento portandolo al massimo, poi lasciò l’area di parcheggio per immettersi sulla Chicago Avenue. Il vecchio guidava piano e con attenzione, mentre il capitano osservava distratto lo strano contrasto generato dai locali traboccanti di folla che si aprivano sui marciapiedi quasi deserti. «Come sta Virginia?» gli domandò all’improvviso.

    «Che vuoi che ti dica Teo, non bene; anche mia moglie sta invecchiando. La prossima settimana vorrei farla visitare da un collega neurologo, e non ti nascondo di essere in ansia.»

    «È normale essere angosciati per qualcuno che si ama molto. Capisci adesso perché preferisco starmene da solo? Non voglio cadere di nuovo in questa trappola.»

    «Già…» disse il dottore tirando un sospiro «forse non hai torto. Dopotutto anche tu hai passato dei brutti momenti… Se non ricordo male, è questa la direzione giusta, vero?»

    «Sì, dopo il ponte gira a sinistra.»

    Il dottore superò un mezzo spargisale che arrancava rumoroso, quindi rallentò di nuovo.

    «Ci siamo, al prossimo isolato siamo arrivati.» 

    Peter accostò sulla destra: «Bene, eccoti a casa! Mi raccomando, ogni tanto fatti sentire».

    «Sì, certo. Grazie di tutto e buon Natale.»

    «Buon Natale a te… Mi raccomando, Teo, non essere stupido, cerca almeno di smettere di fumare. Lo dico come tuo amico oltre che come medico. Ti voglio bene e ci tengo alla tua salute.»

    «Sta’ tranquillo, farò del mio meglio, te lo prometto.» 

    «Okay, ci conto. Ancora buon Natale!» l’auto ripartì. 

    Teokratis rimase a osservarla fino a quando non scomparve dietro l’angolo, poi entrò nell’androne del palazzo. Nell’attesa dell’ascensore prese una sigaretta ma, dopo averci pensato su un momento, la ripose nel pacchetto.

    Il buio e il silenzio lo accolsero nella casa gelida. Accese la luce e, senza neppure togliersi il cappotto, attraversò il soggiorno. L’angolo accanto al divano, là dove ogni anno Lisa sistemava l’albero di Natale, era vuoto. Dopo tanto tempo, credeva di averci fatto l’abitudine; eppure quella mancanza gli provocò una stretta al cuore. Dalla finestra del soggiorno il suo sguardo poteva spaziare sulla distesa luminosa della città. Nella distanza, la colossale linea dei grattacieli si stagliava in un freddo alone iridescente: era la superficie gelata del lago che, come uno specchio, rifletteva verso il cielo i bagliori della metropoli.

    Andò in cucina, attivò il riscaldamento e cominciò a organizzarsi per la cena. L’orologio segnava le diciotto. Prese a rovistare nella dispensa ma non trovò nulla. Anche il frigorifero era vuoto: solo due cartoni di latte scaduto e un pezzo di formaggio ricoperto da una patina verde di muffa, che emanava un odore acre. Stava fissando perplesso quella desolazione quando il suono del cellulare lo riscosse. Sul display era comparso il nome di Joe Panetta. «Ciao Joe, come stai?»

    «Non c’è male, capo. Ti ho chiamato perché io e Marianne vorremmo invitarti a cena.»

    «Ma Joe, così senza portare qualcosa… nemmeno uno straccio di regalo.»

    «Figurati! Marianne ne sarà felice. Lo sai, ti vuole un gran bene. Così potrai anche rivedere le bambine. Da quando hanno sentito che ti avremmo invitato, non stanno più nella pelle.»

    «Be’, quand’è così mi sembra impossibile rifiutare.»

    CAPITOLO 3

    Erano le nove. Teokratis uscì dall’auto, respirò a fondo l’odore della neve e raggiunse Joe che lo aspettava davanti alla porta adornata da una ghirlanda di vischio e agrifoglio. Joe Panetta era un quarantenne atletico, con i capelli tagliati corti e l’espressione che denotava decisione, coraggio e buon senso.

    Il vialetto che attraversava il giardino era libero dalla neve. Ai lati s’intravedevano lo scheletro di un’altalena e i resti di quello che doveva essere stato un pupazzo di neve, con una carota al posto del naso. Sulla soglia era comparsa Marianne, splendida nell’abito da festa, che lo accolse con un sorriso radioso. «Teo, sono proprio felice che tu sia qui con noi!»

    «Scusami tesoro, ma è stato Joe a insistere; non avrei mai voluto turbare la vostra intimità» si giustificò lui.

    «Non dirlo nemmeno per scherzo, mi fa un grande piacere rivederti» disse conducendolo nel soggiorno. Marianne era una donna sui trentacinque, dai capelli biondi, che risplendeva di luce propria e che promanava concretezza e sicurezza interiore.

    I due si abbracciarono sotto lo sguardo orgoglioso di Joe.

    L’ambiente era accogliente: la legna nel caminetto crepitava e impregnava l’aria con la sua fragranza resinosa. In un angolo del soggiorno, le luci blu dell’albero scintillavano a intermittenza nella penombra.

    «Gloria, Amy, venite. Guardate chi c’è, lo zio Teo!» 

    Precedute da una serie di gridolini gioiosi, due figurette bionde irruppero nella stanza. Teokratis si chinò e le due bimbe gli saltarono al collo. «Piccole mie, come siete cresciute! Quasi non vi riconoscevo.»

    «Certo, dall’ultima volta che le hai viste, è passato più di un anno» commentò Joe.

    «Bambine care, purtroppo lo zio non ha potuto portarvi neanche un regalino.»

    «Ma noi abbiamo già i nostri» ribatté Gloria contegnosa, sgranando i suoi grandi occhi azzurri «sono tutti lì» aggiunse con fare sostenuto, indicando l’albero. «Sì, proprio laggiù» ripeté l’altra, accarezzando con sussiego la testa di un consunto orsetto di peluche.

    «Dopo cena andiamo in chiesa. Verrai anche tu?» chiese Gloria, che delle due sembrava la più sfacciata.

    «Dopo cena? Ma non è tardi?»

    «Ormai siamo grandi, l’ha detto papà… possiamo benissimo!» affermò la bimba, con aria di sufficienza. Poi, rivolgendogli un’occhiata sospettosa: «Zio, ma tu vuoi bene a Gesù?».

    «Gesù? Certo che gli voglio bene.»

    «Allora verrai alla messa con noi?»

    «Sicuro… certo che sì» balbettò confuso.

    «Tutti vogliono bene a Gesù. Anche lui!» fece l’altra ficcandogli sotto il naso l’orsetto. «Ma di più a Gesù o a Babbo Natale?» continuò la piccola, implacabile.

    «Eh? Gesù… no, tutti e due.»

    «Bambine, smettetela di tormentare lo zio!» Il provvidenziale intervento della madre interruppe quello che stava diventando una sorta di surreale interrogatorio. «La cena è pronta. Andate a lavarvi le mani!» ordinò loro Marianne, con tono affettuoso e severo al tempo stesso.

    Teokratis respirò sollevato e andò nella sala da pranzo. La tavola era apparecchiata e decorata in maniera impeccabile. Joe si raccolse in una breve preghiera di ringraziamento, seguito dallo sguardo compunto delle bimbe che se ne stavano serie, con le manine giunte. Quindi la cena ebbe inizio.

    Aveva quasi dimenticato quali fossero le sensazioni e l’atmosfera di un pasto normale, e proprio per questa ragione quella cena sontuosa gli sembrava ora il più bel regalo che potesse ricevere per la vigilia di Natale. Erano anni che i suoi pasti si esaurivano in squallidi fastfood o trangugiando in fretta un panino. Quando gli capitava di mangiare a casa – sempre da solo e davanti alla TV accesa – il massimo del lusso che si concedeva consisteva in improbabili pietanze cinesi precotte, che acquistava in un lurido negozietto poco distante dalla sua abitazione. Quella sera invece, ritrovatosi davanti un maestoso tacchino arrosto in salsa di mirtilli, con patate al forno, accompagnato da frittelle e da ogni genere di verdure cotte, fu colto da un momento di confusione. Dovette quasi riprendere confidenza con quei sapori, dei quali aveva perso anche il ricordo. Quando ebbe mandato giù un paio di bicchieri di un delizioso vino rosso, ricominciò a interloquire con i suoi amici: «Complimenti, Marianne, è tutto squisito. Hai fatto un vero capolavoro!».

    Lei, con aria compiaciuta, si alzò per andare in cucina.

    «Anche il vino è veramente ottimo! Cos’è?»

    «È un Chianti, un vino italiano; toscano per essere precisi» rispose Joe.

    «Davvero magnifico!» disse, e ne bevve un altro sorso. «Ma vuoi far uscire davvero le bambine a quest’ora, con questo freddo?» 

    «Sicuro, non c’è problema, basta coprirle bene. E poi la chiesa è a due passi da qui.»

    «A proposito Joe, ma tu sei cattolico o cosa?»

    «Cattolico praticante.»

    «Cattolico? Caspita! Come mai non me l’hai detto?»

    «Veramente, non me l’hai mai chiesto.»

    Il capitano rimase un attimo sovrappensiero, spostò con la punta del coltello un frammento di polpetta che era rimasto nel piatto, bevve ancora e mormorò: «Mai… Sì, certo. Nel nostro lavoro la religione non conta molto».

    «E tu, capo, cosa sei?»

    «Mio nonno era di fede ortodossa, mio padre invece non aveva molto tempo per queste cose; si ammazzava di lavoro per la famiglia. Io, sinceramente, non mi sono mai posto il problema. Di sicuro sbagliando; del resto come sempre in vita mia» ammise cupo. 

    Joe rimase in silenzio a fissarlo.

    «Non fate quelle facce serie. Questa è una notte di festa!» La voce gioiosa di Marianne, che era rientrata in salone spingendo il carrello dei dolci, li riscosse. «Coraggio ragazzi, ecco il dessert!» La donna pose al centro della tavola una maestosa cheesecake al limone e un vassoio ricolmo di piccoli dolci ripieni di frutta secca, su cui le bambine si avventarono golose.

    Teokratis stava assaporando con lentezza quasi lussuriosa la torta, mentre con lo sguardo intenerito osservava le bimbe che, con i musetti impiastricciati di crema pasticcera, erano intente a scherzare tra loro e a disputarsi canditi e caramelle. La cena stava volgendo al termine. «Mamma, possiamo prendere due mince pies per Babbo Natale?» chiese una delle bambine indicando il vassoio dei dolci. 

    «Certo care, fate pure.»

    Le bimbe presero due dolci e li misero davanti al camino.

    «Mamma, la carota…» fece Gloria.

    «Oh Signore, l’avevo dimenticato! Ma è proprio necessario?»

    «Mamma, per favore!…» insistette lamentosa la piccola.

    Marianne andò in cucina e tornò con una carota, che le bambine posizionarono con estrema cura accanto ai mince pies.

    «Cosa state facendo?» chiese loro Teokratis, curioso.

    «I dolci sono per Babbo Natale, li mangerà quando sarà sceso giù dal camino» risposero all’unisono le bimbe.

    «E la carota?»

    «Ma zio, la carota è per la sua renna!» fece Gloria con aria saccente.

    Un ghigno furbesco spuntò sul viso del capitano: «Siete sicure che Babbo Natale abbia solo una renna?».

    Le bimbe lo guardarono confuse: «Sì… cioè no…».

    «Se non ricordo male, a me pare che le renne siano due» insinuò Teokratis, sforzandosi di rimanere serio.

    «Mamma, per favore, un’altra carota.»

    «Teo, ti prego, non ti ci mettere anche tu!» insorse divertita la donna. «Okay, okay, ora vi prendo la carota, ma poi basta. Si è fatto tardi, dobbiamo sbrigarci. Tra poco inizia la messa.» 

    Dalla folla dei fedeli si alzavano canti che, sovrastati dalle note solenni dell’organo, risuonavano tra gli archi delle navate. La chiesa era gremita e molti di quelli che non avevano trovato posto assistevano in piedi alla celebrazione. L’aria era satura dell’odore d’incenso. Teokratis, che non metteva piede in una chiesa da anni, seguiva impacciato le varie fasi del rito e non faceva che alzarsi mentre tutti si mettevano a sedere e viceversa. 

    Quando il sacerdote iniziò l’omelia, egli tentò di concentrarsi su quelle parole ma, di lì a poco, cominciò a distrarsi e a guardarsi attorno annoiato, mentre i suoi pensieri avevano preso a fluttuare in maniera incoerente in tutte le direzioni. Con la coda dell’occhio si accorse che le bimbe stavano cominciando a ciondolare dal sonno. Sbadigliò e con uno sforzo di volontà, riuscì a stento a simulare un minimo di partecipazione.

    Si riscosse quando giunse il momento della comunione. I devoti cominciarono a incolonnarsi nel corridoio che divideva le due navate, e anche Joe e sua moglie si diressero verso il prete che, con aria raccolta e ispirata, dispensava il sacramento. Teokratis stava osservando i suoi amici che, a mani giunte e a capo chino, si apprestavano a ricevere l’ostia, quando il suo sguardo fu attratto da una coppia, anch’essa in fila in attesa del sacramento, la

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