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Il signore della menzogna
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E-book264 pagine3 ore

Il signore della menzogna

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Info su questo ebook

Il detective privato Will Torres viene ingaggiato da Sara Turner, moglie del senatore Castle, per ritrovare la figlia scomparsa da qualche giorno. Will, affascinato dalla donna, inizia a indagare sulla vita e le amicizie della ragazza, e scopre che nella zona si sono verificati molti casi simili negli ultimi tempi. La sua torbida relazione con la Turner e il rapporto difficile con il fratello Jimmy fanno però deragliare le indagini. Toccherà quindi a un amico di Will, il capitano della squadra omicidi Stefan Teokratis, scoprire il terribile segreto che lega tutte le ragazze scomparse.
LinguaItaliano
Data di uscita24 lug 2018
ISBN9788863938104
Il signore della menzogna

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    Anteprima del libro

    Il signore della menzogna - Ignazio Pandolfo

    CAPITOLO PRIMO

    Una leggera foschia stagnava a mezz’aria. La visibilità era scarsa, ma Martin Radek conosceva bene quei luoghi e guidava veloce, seguendo sicuro la striscia bianca al centro dell’asfalto. Era rilassato e allegro, mentre zufolava sottovoce il motivo di una vecchia canzone di cui ricordava solo qualche verso.

    Ai lati della strada, solo l’ombra incombente del bosco. Le luci dei fari del pick-up scorrevano su quell’intrico di querce, sicomori, felci e abeti neri che apparivano fulminei, per svanire subito, riassorbiti dalla notte.

    All’improvviso, dalla nebbia, emerse un cartello contorto con una scritta mangiata dalla ruggine. Lui rallentò e girò a sinistra.

    «Finalmente ci siamo…» disse sottovoce. Riprese quindi a canticchiare, tamburellando con la punta delle dita sul bordo dello sterzo.

    La strada era sterrata e procedeva in salita restringendosi sempre di più. Il pick-up aveva preso a sobbalzare. Fu costretto ad andare più adagio.

    Quando apparve l’antico muro scalcinato e più in fondo quel cancello arrugginito che conosceva bene, accostò in uno spiazzo erboso sulla destra e spense il motore.

    Brancolando nel buio aprì il vano portaoggetti alla ricerca di una torcia. L’accese. Rovistò ancora per qualche secondo e trovò anche il mazzo delle chiavi.

    Fuori faceva un freddo cane. S’infilò il cappuccio nero di lana che teneva in tasca, si riempì i polmoni dell’aria umida e aromatica del bosco e si avviò lasciandosi dietro un brandello di fiato condensato. Il cancello era chiuso con una catena e un lucchetto. Lo aprì e si diresse rapido verso la villa, seguendo il viale delimitato da siepi incolte di bosso e dai resti di antiche statue.

    In fondo alla strada, si ritrovò davanti la sagoma nera della vecchia costruzione di pietra e legno che, come un’enorme e minacciosa creatura appostata nelle tenebre, sembrava aspettare proprio lui.

    Si fermò per un istante. Con il cono di luce spazzò l’imponente facciata ricoperta dal secolare mantello di edera. Poi, lasciandosi sulla destra una fontana in pietra, colma di foglie rimaste a imputridirsi per anni, attraversò di corsa quello che una volta doveva essere stato un prato e che ora era solo una spianata coperta di erbacce.

    Il portone di legno massiccio di quercia era stato rinforzato da poco e la serratura sostituita. Si concentrò qualche istante, per trovare la chiave giusta e con qualche difficoltà riuscì ad aprire.

    Nel salone, vasto come una piazza d’armi, aleggiava un soffocante odore di muffa che tagliava il fiato.

    Folgorati dallo sciabolare del lampo di luce, presero consistenza le sagome spettrali di vecchi mobili ricoperti di polvere e ragnatele. Dalle pareti pendevano i brandelli di quel che restava della carta da parati. Il soffitto era ricoperto da scene mitologiche di ninfe e satiri che, stimolati da quel bagliore, sembrarono animarsi di una vita fittizia, come fossero i custodi di quell’enorme nulla.

    Per niente impressionato, raggiunse quello che una volta era stato il locale delle cucine. Da lì passò in un bugigattolo dove sollevò una botola polverosa che si apriva su una sconnessa scala di legno, che sembrava sprofondare nelle viscere della terra.

    Scese con prudenza, stretto tra quelle pareti di mattoni grezzi, fino a quando si trovò davanti una porta blindata.

    Per aprirla dovette usare due chiavi diverse. Poi si calò sul viso il cappuccio, lasciando liberi solo gli occhi. Ripose in tasca la torcia e girò l’interruttore.

    Il chiarore giallognolo di quattro lampade rettangolari, fissate alle pareti da rozzi telai di fil di ferro, si sparse sciropposo nel locale, illuminandolo appena.

    L’aria era carica di un terribile odore di sangue ed escrementi.

    La ragazza era lì al centro, nuda e con i polsi legati a una catena fissata al soffitto; i piedi toccavano il pavimento. Doveva essere svenuta, perché aveva le ginocchia piegate e le braccia in una posizione atroce e innaturale.

    Fu attraversato da un flash di eccitazione e se lo sentì diventare duro.

    Cazzo, se solo potessi, me la scoperei volentieri, pensò, avvicinandosi per osservarla meglio.

    Il corpo era ricoperto da una sottile patina scura che emanava un tanfo dolciastro e nauseante. Era sangue rappreso.

    «L’hanno frustata! Hanno usato lo scudiscio piccolo… per non ammazzarla» mormorò, sempre più eccitato. Per un istante fu attraversato dall’idea di masturbarsi.

    La ragazza non era cosciente, il suo respiro era appena percettibile e interrotto da pause.

    Lui sollevò il bordo del cappuccio sopra la bocca, si mise una sigaretta tra le labbra, l’accese, tirò un paio di boccate e le sfiorò il ventre con il mozzicone acceso.

    Lei non reagì. Lui aspirò ancora una volta e riprovò, pressando con più forza.

    La ragazza ebbe un sussulto e si svegliò.

    «Salve, principessa, hai dormito bene?» ghignò.

    Lei lo fissò con gli occhi lucidi e le pupille dilatate dal terrore.

    «Non aver paura, bellezza, sono qui per occuparmi di te. Lasciami dare un’occhiata» disse, ficcandole un dito in bocca.

    «Perdio, sei disidratata, così non ci arrivi a domani! Aspetta…»

    Su un bancone di legno, assieme a un caotico ammasso di attrezzi di ogni genere, c’erano anche strumenti medici: guanti in lattice, siringhe, qualche flacone di medicine e un contenitore di plastica, con il tappo a cannuccia. Lo afferrò e lo avvicinò alle labbra della ragazza, che prese a succhiare l’acqua, come una bestia assetata.

    «Ora basta, principessa, hai bevuto anche troppo, non vorrei che ti si gonfiasse questo bel pancino» sghignazzò, gettando la bottiglia sul pavimento. «Adesso fammi controllare» aggiunse, poggiandole due dita sul collo.

    «Devi avere la pressione bassa e un po’ di febbre. Vediamo di rimediare…»

    Tornò al bancone e prese ad armeggiare con fiale e siringhe.

    «Cortisone e antibiotico, con questo dovrebbe andare un po’ meglio!» esclamò, mentre le iniettava il tutto in una coscia.

    «Ecco fatto! Vedrai, domani sarai in perfetta forma.» Ridacchiò, si accese un’altra sigaretta e, con la voce diventata affannosa per l’eccitazione, riprese: «Adesso, dopo il dovere, direi che sarebbe ora di passare anche al piacere. Ti giuro, bella troia, che mi piacerebbe un sacco fotterti, ma purtroppo non mi è permesso».

    Rimase un attimo in silenzio, poi con un gesto improvviso le spense la sigaretta sul braccio.

    La ragazza lanciò un urlo e iniziò a piangere. Il suo lamento disarticolato sembrava quello di un animale al macello. Poi si urinò addosso.

    Lui, facendo un giro su se stesso, legnoso come una marionetta, si lanciò verso il bancone. «Mi è venuta in testa un’idea niente male!» esclamò, mentre rovistava frenetico tra quel ciarpame. Finalmente, da quell’ammasso di ferraglia tirò fuori un pezzo di filo spinato arrugginito, lungo quasi un metro. Lo esaminò con cura e poi lo avvolse stretto attorno ai piedi della ragazza.

    Sempre più eccitato dalle grida strazianti di lei, le si sedette di fronte, per godersi meglio lo spettacolo e prese a masturbarsi.

    Venne sul pavimento mentre la ragazza aveva smesso di urlare e se ne stava ormai accasciata e incosciente, con le ginocchia ripiegate e i piedi ricoperti di sangue.

    Si tirò su i pantaloni, si accese un’altra sigaretta e avvicinandosi le controllò di nuovo il collo con la punta delle dita.

    «Tutto a posto» mormorò soddisfatto. «Cristo santo, è stato fantastico!»

    Spense la luce, inquadrò con la torcia per l’ultima volta la ragazza. Poi, chiusa la porta blindata alle sue spalle, si avviò verso l’uscita.

    Appena fu all’esterno, si tolse il cappuccio e respirò a pieni polmoni l’aria pulita della notte. Quindi ritornò di corsa al pick-up, fece inversione e prese velocemente la strada del ritorno.

    Accese la radio proprio nel momento in cui stavano trasmettendo Stayin’ Alive, uno dei suoi pezzi preferiti. Fu così che, in preda all’entusiasmo, si mise a cantare, mischiando il suo falsetto a quello dei Bee Gees.

    CAPITOLO SECONDO

    L’autoradio trasmetteva un vecchio brano dei Pink Floyd.

    «Che pezzo magnifico!» fu l’ultima frase del ragazzo, prima che l’auto impazzita uscisse di strada.

    Era notte, stavano tornando da una maledetta festa di addio al celibato. Suo fratello Jimmy, allora, aveva appena diciannove anni e gli sedeva accanto.

    Lui, completamente ubriaco, si era intestardito a voler guidare a tutti i costi.

    Poi l’impatto e il risveglio in ospedale.

    Jimmy ne era venuto fuori a pezzi. Sarebbe rimasto per sempre inchiodato su una sedia a rotelle. Lui, miracolosamente, se l’era cavata senza gravi danni, ma dal terribile senso di colpa per essersi messo al volante in quelle condizioni non si sarebbe ripreso mai più.

    La penombra malinconica della domenica pomeriggio stava cominciando a occupare la stanza.

    Il detective William Torres sospirando accese la lampada, si guardò attorno e, nel tentativo di allontanare quei tristi ricordi vecchi ormai di dieci anni, riprese a trafficare con le scartoffie che occupavano il piano della scrivania.

    Da quasi un’ora era intento a spulciare tra gli elenchi dei clienti, le fatture, i solleciti e le ricevute delle carte di credito, controllando che tutto corrispondesse ai dati che comparivano sul monitor del computer.

    Quel lavoro serviva a chiudere i conti della settimana. Avrebbe potuto svolgerlo in qualunque altro momento, ma si era imposto di farlo ogni domenica, giusto per tenersi occupato ed evitare di trascinarsi da un bar all’altro o a bivaccare in una sala corse o in qualche bisca clandestina.

    Era stato proprio a causa dei guai provocati dalla sua dipendenza da alcol e gioco d’azzardo che i suoi superiori gli avevano «consigliato» di lasciare la polizia.

    Da quel giorno la sua vita era cambiata. Erano passati quasi cinque anni, e da allora non aveva più bevuto un goccio e aveva chiuso con il gioco e gli strozzini.

    Gli inizi della sua nuova attività d’investigatore privato erano stati duri, ma con l’impegno e grazie all’esperienza e alle amicizie nell’ambiente, poteva dire di avercela fatta. Le entrate adesso gli garantivano una certa tranquillità, tanto da potersi permettere anche il lusso di pagare le parcelle del professor George Tennison. Il suo psicanalista.

    E poi quel lavoro gli lasciava anche molto più tempo da dedicare al fratello.

    Certo, quando lavorava ancora nella squadra omicidi, si occupava di ben altro. Ora doveva accontentarsi di trattare robetta tipo rilasci su cauzione, ricerca di persone scomparse, pedinamenti e soprattutto indagini matrimoniali.

    «Già, dannate indagini matrimoniali…» disse tra sé, con un sorriso amaro. Sul filo dei ricordi, tornò al giorno in cui Carol, sua moglie, lo aveva lasciato. I primi tempi erano stati un disastro: all’inizio aveva provato a rimediare un paio di storie con delle conoscenti, ma non era andata. Per risolvere il problema sessuale si era anche accostato a qualche prostituta, con risultati del tutto deprimenti. Da allora non aveva più toccato una donna e in fondo, ormai, non gli sembrava di risentirne più di tanto.

    A volte aveva paura di essere sull’orlo della depressione ma Tennison non faceva che rassicurarlo: «Niente depressione, tutti i tuoi problemi nascono dalla disgrazia che è capitata a tuo fratello» gli diceva sempre.

    Il flusso interiore di Will s’interruppe all’improvviso, quando avvertì la terrificante e abissale assenza di rumori che a quell’ora regnava nel palazzo deserto.

    Lui aveva sempre odiato il silenzio e, per spezzare quell’assedio opprimente, lasciò la bolla di luce che inglobava la scrivania e si accostò alla finestra.

    Per un istante sul cristallo apparve il riflesso della sua figura. Era un uomo alto e dal fisico ancora atletico, anche se appesantito dai quasi cinquant’anni. I suoi occhi erano chiari, ma i capelli neri e la carnagione scura tradivano le sue origini ispaniche.

    Ebbe appena il tempo di percepire un fugace senso di disagio nello scoprirsi un po’ più vecchio di quanto ricordasse. Poi la sua immagine si dissolse e apparve lo spettacolo serale della metropoli. Dal ventesimo piano, Chicago, con il suo mare sterminato di luci arancioni, si perdeva in tutte le direzioni, verso un orizzonte reso invisibile dalla foschia.

    Era novembre inoltrato e faceva freddo. Un leggero nevischio circolava nell’aria, fluttuando lento verso la strada, dove si sarebbe trasformato in fango.

    Rimase per un paio di minuti a osservare quello spettacolo che di solito accresceva nel suo animo il senso della sconfitta.

    In fondo sono sempre stato un perdente, sin dai tempi del gioco d’azzardo, pensò, prima di tornare a sedersi.

    Stava per riprendere a fare i conti con il passato, quando il ronzio del cellulare lo richiamò alla realtà. Sul display era comparso un numero sconosciuto.

    Per un attimo ebbe la tentazione di non rispondere. Poi, pur di sfuggire all’atmosfera negativa che lo stava ingoiando, prese il telefono.

    «Pronto, parlo con il detective Torres?»

    Era la voce di una donna sicura di sé, anche se sembrava innervata da una certa tensione.

    «Sì, signora, sono io.»

    «Lei non mi conosce, il mio nome è Sara Turner. Avrei bisogno di parlarle con urgenza.»

    «Non c’è problema! Potremmo vederci domani, qui da me in ufficio.»

    «Mi ascolti, detective, devo vederla subito, ho bisogno del suo aiuto.»

    «Ma, signora, ormai è tardi…»

    «Forse non mi sono spiegata. Ho urgenza di incontrarla! Se è una questione di denaro…»

    «No, il denaro non c’entra… Va bene, d’accordo, dove possiamo vederci?»

    «Più tardi sarò a cena al Club Bub, al 901 di Weed Street.»

    «Sì, conosco il posto… facciamo lì tra un’ora?»

    «Va bene, la ringrazio, detective. A più tardi.»

    Will guardò l’orologio. Si erano fatte le otto. Ci pensò su un istante, quindi compose il numero di Norman Rydel, il suo segretario.

    Era sicuro di trovarlo in casa. Norman era un gay monogamo che amava passare le sere a guardare la tv con il suo compagno Tom.

    Lo aveva assunto con certo scetticismo iniziale, ma poi il ragazzo si era rivelato un ottimo elemento. In particolare si era dimostrato molto abile nell’uso della rete. Norman era un vero e proprio hacker per il quale non esistevano né password né blocchi di alcun genere. Era capace di violare qualsiasi sito protetto e di entrare e uscire da banche dati, anche istituzionali, con estrema facilità. Così lo aveva aiutato a risolvere con successo molti casi.

    Il telefono squillò per qualche secondo, poi rispose Tom.

    «Ciao, Tom, vorrei parlare con Norman.»

    «Okay, un momento.»

    Mentre aspettava, si sorprese ad ascoltare il suono della tv che riempiva il sottofondo con urla e il rumore di spari. Deve essere un film western, pensò.

    «Ciao, Will, come va?»

    «Scusa il disturbo, Norman, ho bisogno del tuo aiuto.»

    «Dimmi, di che si tratta?»

    «Tra un’ora ho appuntamento con una certa Sara Turner, e vorrei arrivarci preparato. Dovesti fare una ricerca rapida su questo nome.»

    «Capisco, aspetta un istante, ho il computer proprio qui davanti. Sara Turner, hai detto?»

    «Esatto.»

    «Vive qui in città?»

    «Credo di sì.»

    «Età?»

    «Non ne ho idea, forse sui trentacinque o quaranta…»

    «Certo è un po’ poco. Aspetta, lasciami dare un’occhiata… non è un nome molto comune. Fammi controllare. No, non mi pare ci sia niente di particolare… Aspetta un attimo, forse questa potrebbe essere interessante, ascolta: Sara Turner, quarantadue anni, nata a Rochester. Perbacco, se è lei si tratta di un pesce bello grosso! È la moglie di Mike Castle.»

    «Vuoi dire il senatore democratico?»

    «Sì, proprio lui. Che dici, potrebbe essere lei la persona?»

    «Non so, forse. C’è qualche altra notizia?»

    «No, niente di speciale. Però ho qui una foto con il marito. Santo cielo, è proprio una gran bella donna! Adesso te la mando sul cellulare, così quando la incontrerai, se si tratta di lei, potrai riconoscerla.»

    «Molto bene Norman, sei grande. Ci vediamo domani in ufficio. Grazie.»

    L’immagine doveva essere vecchia di un paio d’anni. Si trattava di una foto scattata durante una manifestazione politica, probabilmente una convention elettorale o qualcosa del genere.

    Sara Turner era una bruna dall’aspetto piuttosto sensuale, inguainata in un elegante tailleur blu elettrico, sicuramente firmato. Il marito era un uomo pingue, biondiccio, che portava delle spesse lenti da miope. Indossava un completo beige e una cravatta scura a pallini.

    Lei, un po’ più alta, gli stava accanto torreggiando nel tipico atteggiamento da first lady. Lui, da politicante di professione, sorrideva verso l’obiettivo sforzandosi di trasmettere un’aria tranquilla e autorevole.

    Will spense il cellulare soddisfatto, lo ripose in tasca e uscì.

    Il taxi accostò di fronte al locale, dal lato opposto della strada. Il Club Bub era un ristorante alla moda e davanti al suo ingresso si accalcava una folla composta da eleganti coppie borghesi, auto di lusso e giovani yuppie rampanti.

    All’interno, dietro un leggio con la lista delle prenotazioni, una giovane bionda, occhialuta e con il volto atteggiato in un sorriso di circostanza, di tanto in tanto chiamava il nome di qualcuno dei clienti che se ne stavano in fila ad aspettare il proprio turno.

    Will si avvicinò e le mormorò all’orecchio di essere atteso dalla signora Turner. La ragazza lo sbirciò per un istante da sopra gli occhiali, gli elargì una cortese espressione di assenso e gli fece cenno di accomodarsi.

    Il locale era molto vasto, affollato e rumoroso. Defilato in un angolo, un pianista jazz suonava degli standard che nessuno sembrava ascoltare, sovrastati com’erano dal chiacchiericcio, dalle risate e dal tintinnio di piatti e bicchieri.

    Per qualche secondo scrutò la sala. Non c’era un solo tavolo libero e non riuscì a scorgere nessuno che corrispondesse alla persona che cercava.

    Chiese a una cameriera che lo pilotò tra la folla, fino a una saletta riservata ai fumatori.

    Quella che si ritrovò davanti, anche se un po’ cambiata, era proprio la donna della foto. Era una bruna splendida, che dimostrava molto meno della sua età e che, anche da seduta, lasciava intuire un fisico statuario. I suoi occhi grigi irradiavano una sorta di sensualità quasi animale che lo investì come un’onda d’urto. Will rimase per un attimo senza fiato, ripensando con rammarico a tutti quegli anni che aveva trascorso condannandosi alla più completa castità.

    Lei aveva appena finito di mangiare e ora se ne stava pensierosa, reggendo con entrambe le mani una coppa di vino bianco nella quale, con il suo sguardo velato di tristezza, sembrava perdersi.

    Finalmente, quando fu certo di aver recuperato la freddezza necessaria, tossì per richiamare la sua attenzione.

    Lei lo guardò e, senza mutare espressione, lo invitò

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