Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Gli incompiuti
Gli incompiuti
Gli incompiuti
E-book212 pagine3 ore

Gli incompiuti

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Una casa bianca travolta da una bufera di neve. Un corpo esangue, morto. Un corpo vivo, sconvolto. Un commissariato di provincia, un interrogatorio informale, l’inizio di un racconto. Ogni capitolo di questo romanzo dalla struttura a scatole cinesi è una storia che ne rivela un’altra diversa e a essa intrecciata, con protagonisti che si inseguono tra le pagine e alcuni elementi ricorrenti: l’odore di agrumi, un maglione rosa, una misteriosa casa bianca. Gli incompiuti è un libro di personaggi dalle identità sessuali ribaltate e ambigue: donne dalle qualità virili, uomini efebici, e in mezzo a loro un bambino dal sesso indefinibile costretto a compiere una scelta. All’interno della cornice pulsante di un thriller dove sparizioni e morti tengono sempre alta la tensione, si dipana una storia che scava nell’Io dei protagonisti: il mistero più grande non è l’omicidio (vero o presunto), ma la faticosa consapevolezza di essere incompleti.
LinguaItaliano
Data di uscita26 gen 2023
ISBN9788831982771
Gli incompiuti

Correlato a Gli incompiuti

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Gli incompiuti

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Gli incompiuti - Anna Kańtoch

    I.

    Racconto della neve e del sangue

    Non ricordo chi di noi due sia scomparso, quel giorno. So solo che questa storia comincia da una morte. Dal rosso di un’alba e da quello del sangue che segna le pareti bianche di questa cucina. Tutto questo rosso, il bianco… Fuori dalla finestra vedo un campo di neve immacolato arrivare fino alla linea degli alberi; la superficie gelida e soffice, che il sole trasfigura in rosa, solo in un punto è nera per le orme di piedi. Qualcuno venuto dal bosco per arrivare alla finestra. Qualcuno o qualcosa, perché non sono sicuro che siano orme di una persona. L’alba le ricopre di un alone purpureo e per un attimo le fa sembrare colme di sangue.

    L’alcol circola nelle vene, e sento il ritmo di una canzone pulsarmi dentro.

    Girl of sixteen

    Whole life ahead of her

    Slashed her wrists

    Bored with life

    Didn’t succeed

    Thank the Lord

    For small mercies

    Questa casa bianca, questa cucina bianca non sono nostre, ma ciò è del tutto irrilevante: erano semplicemente un posto buono per morire. O forse le abbiamo scelte per un’altra ragione? Sono molte le cose che ho scordato, i ricordi del dopo scivolano via da me come il sangue di Agnieszka che gocciola sul tappeto. Così, lasciando delle impronte rosse sul pavimento, raggiungo questa cucina non mia, tiro fuori il barattolo di un caffè che non mi appartiene e me ne preparo una tazza. Lo bevo bollente, accendo la musica e seguo il ritmo con la testa. Sono sicuro che più tardi mi chiederanno perché l’ho fatto, perché mi sono fatto un caffè mentre mia sorella moriva, e io non saprò rispondere. Tutto questo acquisterà un senso allora, nell’attimo in cui sarò dall’altra parte, dentro, non più fuori. Perché la percezione di dentro è del tutto diversa da quella di fuori. Quella di dentro è la percezione di un’alba, quando qualcuno decide di aprirsi le vene; quella di fuori è la percezione propria di un pomeriggio assolato, in cui la stessa persona prova a rispondere alla domanda: perché? Sono altre parole, è un altro pensiero. Noi e loro, da parti opposte, siamo come quelli che parlano lingue troppo diverse e, se oltrepasso la soglia, smetterò di capire quel che dicevo prima. La sensazione sarà quella di aver detto qualcosa di importante, ma alla fine anche questa svanirà.

    Fighting back the tears

    Mother reads the note again

    Sixteen candles burn in her mind

    She takes the blame

    It’s always the same

    She goes down on her knees

    And prays

    Era tutto logico: questo è quanto sarei stato in grado di dire.

    E anche: siamo stati insieme da sempre. Non so perché, ma mi sarebbero sembrate le parole giuste, anche se me ne sarebbe sfuggito il motivo.

    Questo è il mio inizio; per l’ispettrice capo Elżbieta Budzioł sarebbe stato tutto completamente diverso.

    Per lei, questa storia era cominciata con una telefonata.

    * * *

    Riesco a immaginarla, Budzioł: una donna né vecchia né giovane, né bella né brutta, in jeans e maglione dozzinali, di quelli che si vendono al mercato. Con i capelli chiari, tinti, stretti in una coda tenuta con un banale elastico. Il trucco marcato sugli occhi e il rossetto acceso, che lascia una pesante impronta sulla tazza di caffè, contrastano con il suo look sportivo. L’ispettrice capo tiene una sigaretta tra le labbra, il fumo si alza pigramente in un filo sottile, si incorpora alla vecchia tappezzeria e alle tende perennemente annerite. Oltre la finestra si risveglia il mattino, il sole si fa spazio a fatica attraverso i vetri sudici e si riversa sulla scrivania in una striscia fiacca, coperta più dalla polvere che dalla luce. Il collega del mattino sta facendo tardi e l’ispettrice sta già mettendo in fila le parole da usare per il rimprovero; si lamenta perché così ci si attende da lei, anche se in fin dei conti le fa piacere quel ritardo. Le piace fare il turno di notte, essere sola e tranquilla. Budzioł si lagna sempre di avere colleghi della sua stessa età, dell’inesorabile scorrere del tempo, della salute, dello stipendio troppo basso e del lavoro troppo noioso; tuttavia, nel profondo dell’anima ritiene di non essere cambiata granché dagli anni dell’università, vuole credere di avere la stessa voglia che aveva prima. Le cose in realtà sono cambiate da un po’, ma questo lei ancora non lo sa.

    L’ispettrice capo Budzioł sta finendo il caffè quando squilla il telefono.

    È in quel momento che si decidono i nostri destini. Budzioł tende una mano, ma poi la ritira. Potrebbe far finta di non aver sentito, di dover uscire o di essere in bagno. Perché no? Che importanza potrebbe mai avere? In questo posto dimenticato da Dio non succede mai niente di importante. Lei non è mai stata contraria a lavorare oltre la fine del turno, a patto che ci si risparmi di star fuori in questo gennaio raggelante.

    Alla fine, però, la spunta il suo senso del dovere, o forse solo la banale curiosità, ed Elżbieta Budzioł alza la cornetta.

    Me l’immagino aggrottare la fronte e cambiare l’espressione del viso. Angoscia, poi incredulità, angoscia di nuovo.

    «È uno scherzo?» chiede infuriata con sé stessa, perché il tono avrebbe dovuto essere perentorio e invece è suonato inaspettatamente come una domanda. Ultima possibilità per la voce all’altro capo della linea per scoppiare a ridere e ammettere che sì, è solo uno scherzo. E invece si sente solo un click soffuso, e la comunicazione si chiude.

    Si fanno le sette del mattino. A est il cielo è ancora limpido, ma da nord stanno già arrivando nuvoloni gonfi di neve. L’ispettrice capo Budzioł, una volta fuori dal commissariato, scruta le nuvole prima di dire di sbrigarsi al collega del mattino Łukasz, in ritardo e ancora insonnolito, perché potrebbe mettersi a nevicare da un momento all’altro. Łukasz china la testa pensando che questa fretta non abbia senso, che si tratti sicuramente di uno scherzo cretino, ma un attimo dopo l’ansia di Elżbieta travolge anche lui e, una volta in strada, Łukasz pesta con forza sull’acceleratore.

    In questa cucina bianca si trovano due corpi bianchi, uno vivo, l’altro morto, uno maschile, l’altro femminile. E sangue, ancora sangue, tanto caldo, rosso. L’ispettrice capo Budzioł mi si avvicina con un’espressione severa del viso che la rende simile a un’insegnante, ma questa severità non cela l’ansia che le straripa dagli occhi.

    «Cos’è successo?» chiede.

    Ho sulla punta della lingua le parole esatte da usare, pronte a essere pronunciate, chiarificatrici. Prima che riesca ad aprire la bocca, però, le parole svaniscono, e io resto con un vuoto in testa e un senso di perdita che in un attimo si dilegua come un sogno.

    «Stavamo sempre insieme», confesso, perché per qualche motivo mi sembra che sia la risposta più adeguata.

    Proprio come avevo immaginato.

    * * *

    «Non capisco. Che vorrebbe dire stavamo sempre insieme? Lei e chi altro?»

    «Agnieszka, mia sorella».

    «Ah». La donna che si è presentata come Elżbieta Budzioł spegne con un gesto teatrale la sigaretta nel posacenere, mentre io sto qui a chiedermi cosa voglia dire l’espressione Ah. Ah, commovente, ah, è ovvio, ah, che sciocchezza?

    Mi accovaccio. È piccola, la stanza in cui ci troviamo. Ha le pareti ricoperte di scaffali impilati, stracolmi di documenti polverosi e un computer antidiluviano sulla scrivania. L’unico punto di colore è rappresentato da un disegno alla parete, con una giraffa rosa, sorridente, che indossa un cappellino arancione. Sull’aria ammorbata dal fumo di sigaretta grava anche l’odore umido di lana bagnata; quell’odore mi ricorda la mia infanzia, l’epoca in cui andavamo a sciare, solo che ora l’origine di quell’odore non sono i miei calzini fradici ma un maglione da lavoro che si asciuga sul termosifone.

    «Mi sento male», dico. «Forse dovrei andare in ospedale».

    «Mi dispiace». L’ispettrice capo accenna alla finestra, oltre la quale soffiano raffiche violente che sferzano fiocchi di neve sui vetri; sembrano sciami di strani insetti polari dai corpi spigolosi, geometrici. «È la nevicata più brutta che abbia mai visto. Siamo costretti a stare qui almeno per un paio d’ore».

    Quel suo sorriso di cortesia resta appeso nel grigiore fumoso della stanza come il ghigno del gatto di Alice nel paese delle meraviglie.

    «Che ne dice di stendersi un po’? C’è un divano nella stanza accanto. Le trovo un dottore appena smette di nevicare». Sospira. «Lei ci ha fatto prendere un bello spavento, quando l’abbiamo trovata. Era pallido come un fantasma, il che non è strano, viste le… circostanze».

    Le circostanze. Eufemismo ideale, comodo e morbido, a sottolineare il fatto che mi hanno trovato accanto al corpo morto di mia sorella.

    «Dovreste chiamare un’ambulanza», dico io, ma l’ispettrice scuote la testa.

    «Non ci verrebbe nessuno qui, in montagna. E poi la neve sta per posarsi».

    Precisazione cristallina, verosimile. Eppure lei sa bene che hanno fatto un errore, e ora sta cercando di capire se anch’io me ne sia reso conto. Può essere che sia per questo che mi trattano così bene, per le circostanze.

    «Allora questo non è un interrogatorio ufficiale?» chiedo per rassicurarmi.

    «Certo che no. Stiamo solo ammazzando il tempo».

    «Devo andare in bagno».

    «Si sente poco bene? Se ha bisogno di qualcosa…»

    «Devo solo andare in bagno».

    L’ispettrice capo sospira.

    «Venga con me».

    Mi porta in una stanzetta grande quanto uno sgabuzzino per le scope, in cui lo spazio ricoperto di muffa è suddiviso meticolosamente tra il water e un secchio con un mocio spelacchiato. Appoggio le mani al lavandino e mi guardo nello specchio pieno di macchie scure. Mi gira la testa, la gola mi brucia per l’odore pastoso e umido dell’intonaco che si scrosta dalle pareti. Il mio viso somiglia molto al suo, pieno di lentiggini, con gli zigomi sporgenti e le labbra sottili. Quando siamo arrivati qui mi hanno permesso di cambiarmi, perché avevo la maglia completamente indurita dal sangue rappreso. Allora ho sfilato dal nostro zaino il maglione di ricambio di Agnieszka – non avevo preso niente di mio per cambiarmi – e ora porto un maglione rosa, che ha ancora quell’odore di agrumi. L’odore di mia sorella.

    Due gemelli, insieme da sempre. Fino a questo momento, perché oggi ho reciso il nostro cordone.

    Avevo nascosto una lametta nella tasca dei pantaloni, piccola e talmente sottile che non se ne sono accorti quando mi hanno perquisito per controllare che non avessi niente di pericoloso con me. La tiro fuori un po’ goffamente, la butto nel water e tiro lo sciacquone. Il gorgoglio dell’acqua copre per un momento l’ululato del vento. Osservo la lametta volteggiare, brillare argentea, ma quando l’acqua scende la lametta resta lì, sul fondo, come una barchetta in miniatura affondata dopo una tempesta.

    Lo sciacquone si riempie di nuovo. Ci mette un sacco di tempo, e io non posso fare nient’altro che restarmene immobile in quello spazio angusto, tra il lavandino sporco e il secchio ancora più sporco. E aspettare. E ascoltare. Uno spiffero gelido si insinua da uno spiraglio della finestrella e mi fa il solletico al collo, ma io aguzzo l’orecchio per cogliere qualche frammento della conversazione che sta avvenendo nel corridoio. Elżbieta Budzioł e l’altro poliziotto che si chiama Łukasz stanno bisbigliando, ma per fortuna ho da sempre un ottimo orecchio.

    «… la telefonata dell’altra sera. E ora un’altra. È morta, ha detto proprio così quel tizio. O tizia. Tu che ne dici, è stato qualcuno che ha sbagliato numero? A me sembra così strano… E poi lì non c’è il telefono, il più vicino è a due chilometri».

    «E il cellulare del ragazzo?»

    «Ho controllato, non sono partite chiamate da lì».

    «E allora chi è stato?»

    «Dio solo lo sa. Comunque sia, c’era qualcun altro con loro. Qualcuno è uscito dal bosco e ha camminato fino alla finestra della cucina. Sono riuscita a scattare qualche foto prima che si mettesse a nevicare. Guarda…»

    Łukasz abbassa la voce così tanto che il resto mi sfugge. Poi mi pare di carpire qualcosa, tipo che Łukasz non si era accorto dei tagli ai polsi, tralasciando il fatto che la ferita alla mano destra era profonda tanto quanto quella alla sinistra, praticamente impossibile in un caso di suicidio. O almeno poco probabile. Poi ancora qualche frase sussurrata che non capisco e infine la parola disperazione, chiara e secca come il suono delle pigne che cozzano sul terreno. Ora è il viso di Agnieszka a guardarmi dallo specchio, pallido e terrorizzato.

    È il mio viso.

    Quando il water interrompe lo sciabordio premo ancora sullo sciacquone, ma la lametta è ancora lì. La pesco con disgusto, di nuovo goffamente – le dita proprio non vogliono darmi retta – e la nascondo dietro il tubo arrugginito del lavandino. Per ora dovrebbe essere sufficiente.

    L’ispettrice capo bussa alla porta.

    «Si sente meglio?»

    «Sì!» rispondo a voce alta. «Esco subito».

    Ora mi guarda in un modo diverso rispetto a prima, più sospettosa, con maggiore attenzione. Un segreto, appiccicoso e brunastro, la lega a Łukasz come un filo invisibile. Segreto è una parola consistente che con la sua sola presenza appesantisce l’aria, e tutti respiriamo a fatica.

    Torniamo alla stanza di prima, passando davanti a un calendario agricolo appeso al muro. Poco fa non ci avevo fatto attenzione. Esamino il muso placido di una mucca, la data stampata in rosso a grosse lettere: gennaio 2004. Mi si seccano le labbra immediatamente, e tutto intorno comincia a girare.

    Sono certo che la data non sia giusta, ma non potrei dire perché.

    E poi sento così tanto la mancanza di Agnieszka che ogni secondo che passa mi dilania il cuore, un pezzo per volta.

    * * *

    «Cominciamo dall’inizio». L’ispettrice capo si accende l’ennesima sigaretta. «Lei e sua sorella vi siete imbucati in una casa vuota per l’inverno per passarci un po’ di tempo, giusto? Non avete rubato niente, forse solo un po’ di alcol dal mobiletto dei liquori o qualcosa dal frigo, ammesso che ci fosse qualcosa. Cose da studenti, dico bene?»

    Non faccio caso all’ironia della sua voce, annuisco e basta. Noi davvero non abbiamo fatto niente di male. I proprietari di quella casa di certo non hanno subito danni da parte nostra, se non che ci siamo seduti sul loro divano o abbiamo guardato un po’ di tv. Di sicuro supereranno la perdita di una bottiglia di vino o di una vaschetta di gelato. L’abbiamo fatto solo per divertirci, senza voler fare del male a nessuno. Non mi sento in colpa. Non per questo, per mille altre cose sì, ma non per questo. Abbiamo avuto persino lo scrupolo di non sbirciare negli armadi e nei cassetti, abbiamo solo acceso un po’ di musica e poi ci siamo messi a ballare in soggiorno. Il corpo caldo di Agnieszka tra le mie braccia, il suo respiro che mi solleticava il collo quando rideva perché mi aveva pestato un piede. Il suo sussurro lieve che si insinuava nell’orecchio: Sai quant’è vecchia questa canzone? Avrà almeno cinquant’anni.

    «Dico bene?»

    «Sì».

    «Che è successo, in questo caso?»

    Resto zitto. Dalla manica sbuca un rivolo rossastro, che mi fa il solletico quando scende fino alla mano. Mi asciugo il sangue sui pantaloni prima che l’ispettrice capo riesca ad accorgersene.

    «C’era un’altra persona con voi, vero? Abbiamo trovato alcune impronte che partono dal bosco. E qualcuno ci ha telefonato. Non è stato lei».

    Non è stata neanche Agnieszka, aggiungo io nella mente. Quella voce non era né di una ragazza né di un ragazzo, era diversa, così come le tracce che partivano dal bosco.

    Diverso. Parola corta, obliqua, che stona in bocca e che

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1