Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il grande Rudi
Il grande Rudi
Il grande Rudi
E-book290 pagine4 ore

Il grande Rudi

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il pugile Rodolfo Quattrociocche è un personaggio controverso: il pubblico lo ama, ma allo stesso tempo sono in molti a pensare che sia un venduto. Quando sparisce, le numerose ambiguità del suo passato tornano a emergere. A indagare su di lui, la giovane e irascibile Eva Fortis, praticante presso un importante quotidiano sportivo milanese. Per lei, la scomparsa di Quattrociocche diventerà occasione per riflettere sul rapporto con gli uomini, tra tutti con il proprio padre, che Eva riuscirà forse a comprendere solo una volta risolto il mistero sconvolgente che si nasconde dietro al Grande Rudi.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ago 2018
ISBN9788863938388
Il grande Rudi

Correlato a Il grande Rudi

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il grande Rudi

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il grande Rudi - Francesco Vecchi

    PRIMA PARTE

    Da un’Ansa dell'8 ottobre 2013, ore 22.53

    RODOLFO QUATTROCIOCCHE RISCHIA LA VITA IN UN’IMMERSIONE SUBACQUEA. L’EX PUGILE CAMPIONE DEL MONDO TRATTO IN SALVO DA UN RISTORATORE DELLA ZONA. FUORI PERICOLO.

    Genova. Il campione di boxe Rodolfo Quattrociocche ha rischiato la vita in un incidente subacqueo. Salvato da un ristoratore della zona, è sotto osservazione all’ospedale di Arenzano. Ora è fuori pericolo. L’incidente è avvenuto questa mattina nei pressi della spiaggia di Varazze, dove l’ex pesi massimi ha effettuato un’immersione subacquea nelle prime ore del mattino. Colto da un malore, è stato tratto in salvo dal titolare di un ristorante adiacente all’arenile, ex bagnino professionista. Immediato l’intervento dei sanitari che, secondo le prime ricostruzioni, l’avrebbero rianimato direttamente sulla spiaggia per poi portarlo nella struttura ospedaliera di Arenzano, dove è stato sottoposto ad alcuni accertamenti. Non risulta che abbia riportato danni: lo scompenso cardiaco è stato dovuto probabilmente allo scarso allenamento e all’acqua fredda. Un’imprudenza commessa a poco più di un mese dalle celebrazioni per la sua impresa: il prossimo 13 novembre saranno passati vent’anni esatti da quando sconfisse Jason Davis e divenne il più grande pugile italiano della storia moderna. (Segue)

    Capitolo 1

    Amo gli elenchi, da sempre; amo le cifre e le statistiche ma non la matematica; il mio numero preferito è sicuramente dispari, anche se sono indecisa: forse l’undici, forse il tre; degli elenchi colgo l’eleganza del punto e virgola, la vicinanza senza gerarchie, l’ordine assieme all’anarchia; sono una giornalista sportiva, ho ventisette anni e da quando Matteo si è trasferito a Genova vivo da sola in una casa che appartiene ai miei; non so stirare, indosso solo jeans neri e t-shirt bianche, ho un piercing al naso che non piace a nessuno e compro solo stivaletti neri; alla sera torno sempre tardi dalla redazione e al mattino quasi sempre mi risveglio sul divano; lavoro per un grosso quotidiano milanese, SportSera, ma non ricevo stipendio, solo un rimborso spese perché sono ancora praticante, forse non smetterò mai di essere praticante; mia madre vorrebbe che cambiassi mestiere, mio padre non lo so; quando scrivo il mio nome su Internet non viene fuori nulla che mi riguardi; mi chiamo Eva Fortis. 

    La sera dell’incidente di Rodolfo Quattrociocche ero seduta alla mia scrivania. La luce al neon sopra la mia testa tintinnava perché la lampadina si stava rompendo: sembrava che ci fosse dentro una mosca. L’aria appiccicosa, il tempo si era fatto di marmellata, speso nell’attesa che Max il grafico finisse di disegnare la mia pagina.

    Lavorare a SportSera era sempre stato il mio sogno fin da bambina. Ricordavo le estati nella casa al mare dei nonni: quando mio padre ci raggiungeva nel fine settimana, se ne restava quasi tutto il giorno assorto sulla sdraio a leggere il giornale, con la pelata che sbucava dalle pagine e i piedi incrociati nella sabbia. Non veniva neppure a fare il bagno e soltanto a me consentiva di tanto in tanto di salirgli sulle ginocchia a leggere le notizie di sport.

    Eppure non si poteva dire che avessi ingranato. Da quando ero entrata nella redazione, circa due anni prima, non avevo ricevuto altro incarico che non fosse quello di impaginare gli articoli, scrivere le didascalie o roba del genere: c’ero entrata da praticante part time e ora potevo vantarmi al massimo di essere una praticante full time.

    Mia madre aveva un modo subdolo per farmi capire che avrei dovuto cambiare mestiere. «La tua pagina era impaginata meglio di tutte le altre» diceva. Oppure: «La tua didascalia era scritta proprio bene: era lunga esattamente come la foto». E così, con un complimento in falsetto, metteva in risalto quanta poca carriera stessi facendo.

    Poi finiva sempre per insistere perché andassi a lavorare nell’azienda di mio padre, il quale, né come titolare, né come genitore, aveva mai espresso interesse perché ciò avvenisse.

    «Max, come va con la pagina?» chiesi, esasperata dal tremolio della luce al neon. Non ottenni risposta.

    Il nostro grafico sedeva nella sala accanto alla mia, dall’altra parte dell’open space. La sua presenza era tradita dai numerosi tic nervosi di cui soffriva: due brevi colpi di tosse, un sibilo col naso e poi una filastrocca, canticchiata a esaurimento: «Le linee sono tutte dritte, tutte dritte».

    Intanto, la lancetta dell’orologio veniva risucchiata verso le undici e io mi sentivo stanca. Temevo soprattutto che, nel ronzio di quel silenzio e nella vacuità di quella attesa, avrei finito per tracciare il bilancio delle mie scelte.

    «Ma sì, dai…» avrei risposto. E lo stesso avrei detto se mi avessero domandato come me la cavavo da quando Matteo si era trasferito, oppure se era buona la pizza al trancio sotto casa con la quale mi sfamavo quasi ogni sera, o se mi stava piacendo il libro che avevo sul comodino – Stieg Larsson, Uomini che odiano le donne –, se ritenevo che il divano nel mio salotto fosse comodo, se la mia Panda assolvesse ancora ai suoi compiti o qualsiasi altra domanda per la quale una risposta altrimenti sincera avrebbe imposto dei cambiamenti. Era davvero quello il mestiere che sognavo quando sfogliavo il giornale insieme a mio padre?

    Avrei voluto sfogarmi con qualcuno, magari chiamare Matteo. Ma non sarebbe servito. «Povera» avrebbe detto. «A quest’ora ancora in redazione?»

    Non gli avrei dato la soddisfazione di sentire che mi lamentavo. Lui era un altro di quelli che pensava che il giornalismo sportivo fosse un mestiere da maschi e che se proprio avessi voluto insistere, carina com’ero, che tentassi almeno con la televisione. A gambe nude su uno sgabello: è così che mi immaginavano.

    Sì, sono carina, lo ammetto. Ho capelli neri e lunghi, stile Morticia Addams e occhi azzurrissimi da husky. Vorrei un sedere un po’ più piccolo, ma ho un bel seno e le cosce sono a posto per la mia altezza. Questo però non significa che abbia voglia di mostrarle al centro di uno studio televisivo.

    «Max, ho il cane a casa che mi aspetta» urlai, scaricando la rabbia verso l’altra sala. Speravo di suscitare un po’ di solidarietà tra mammiferi. «Si chiama Arsenal» aggiunsi.

    Max era rotondo come un orso, stretto in una felpa col cappuccio, con una barba ispida su tutto il viso. Arsenal uno spinone a pelo lungo. Immaginavo che i due sarebbero andati d’accordo e che al primo sarebbe dispiaciuto se l’altro fosse stato costretto a fare pipì sulle piastrelle della cucina, immaginavo che ne avrebbe percepito l’umiliazione, lui che di sicuro in passato la pipì sulle piastrelle di qualcuno l’aveva fatta.

    «Le linee sono tutte dritte, tutte dritte» rispose invece. Due colpi di tosse e poi un sibilo col naso.

    Afferrai il tabacco e ci riempii la cartina che tenevo in mano. L’intervista a Margherita Granbassi era pronta: il nostro corrispondente l’aveva mandata più di un’ora prima e io l’avevo corretta. Avevo trovato la foto e scritto la didascalia ma, senza la pagina di Max, non c’era nient’altro che potessi fare. 

    Pensavo di essere brava nel mio mestiere, o comunque migliore di quello che aveva fatto l’intervista. Eppure non facevo progressi. La prima volta che mi avevano affidato una pagina, era stata la quarantacinque. Ora ero alla quaranta. Ero avanzata di cinque pagine in due anni e a questo ritmo sarei arrivata a occuparmi della prima tra sedici.

    «Datti una mossa, palla di lardo» bisbigliai, rivolta nella direzione di Max.

    Mi sentii rincorsa da un senso di impazienza. Pensai che fosse colpa di quel tempo lento che non passava mai, o forse di Arsenal, che attendeva davanti al pianerottolo.

    Ricordavo quando era arrivato in casa per la prima volta, in una scatola piena di ritagli di giornale. Aveva corso impazzito e poi, per l’eccitazione, aveva fatto un goccio di pipì tra i piedi miei e di Matteo. Il cane era suo ma il nome l’avevo scelto io.

    «Sì, Arsenal: come la squadra di Londra» gli avevo detto e lui mi aveva guardato come si guardano quelli che sanno dire intere frasi al contrario o quelli capaci di fare cinque pieghe con la lingua o ancora quelli che ricordano i numeri di tutte le targhe: con un po’ di ammirazione e moltissima diffidenza.

    Ora mi stavo occupando io del cane, me l’aveva lasciato in attesa di sistemarsi a Genova dove si era trasferito da pochi mesi. Ancora non era venuto a prendersi tutti gli scatoloni che aveva impilato nel corridoio ma quando si fosse stabilizzato al lavoro e avesse trovato casa, avrebbe portato via tutto, si sarebbe ripreso il cane e avrebbe dato per scontato che mi trasferissi anche io.

    «Ma sì, dai…» avrei risposto a chi mi avesse chiesto se ero contenta.

    Finii di rigirarmi tra le mani la sigaretta che avevo fatto, leccai il bordo di carta e la sigillai, pronta per andare a fumarla. Prima di lasciare la scrivania controllai le agenzie ancora una volta: che Margherita Granbassi non avesse detto nulla e nulla le fosse accaduto.

    Rodolfo Quattrociocche rischia la vita in un’immersione subacquea. L’ex pugile campione del mondo tratto in salvo da un ristoratore della zona. Fuori pericolo.

    Non era né gialla né rossa, l’agenzia Ansa sul grande pugile italiano e sul suo incidente era bianca come le notizie meno importanti. E invece lo era, lo era per me. Mi guardai attorno, per vedere se anche gli altri l’avessero letta: più che un’agenzia, sembrava che fosse un messaggio indirizzato a me soltanto.

    Tornai con la testa a una sera di venti anni prima: l’immagine del nostro televisore acceso, nel salotto di casa, e mio padre che mi tiene stretta al petto, ride e scuote i miei pugni dentro i suoi, io che mi sento felice come fosse Natale. 

    «Dai, dai!» urla, mulinando le mie braccia mentre Quattrociocche sta spingendo alle corde un gigante nero che ciondola come un ubriaco. L’atmosfera eccitata tutt’attorno, l’odore del dopobarba di papà, la sua pelle finalmente vicina, l’emozione di poter stare alzata fino a tardi e infine l’esultanza, quando il gigante nero tocca terra con la faccia. L’aria stralunata del vincitore mentre l’arbitro gli solleva un braccio verso l’alto. La voce del telecronista che grida: «Campione del mondo, Rudi, sei campione del mondo! Te ne saremo per sempre grati, per sempre grati…».

    Sembrava ancora di sentirla quella vecchia telecronaca, girare come un disco dentro la mia memoria. Mi alzai dalla scrivania e raggiunsi la stampante per raccogliere il lancio d’agenzia che volevo leggere sulla carta, tenere tra le dita.

    Per diversi anni dopo quella sera, Rodolfo Quattrociocche, campione del mondo dei pesi massimi del 1993, aveva abitato in camera mia. Era rimasto inchiodato in un poster ai piedi del mio letto e fissato per sempre con quello stesso sorriso sudato che gli avevo visto sullo schermo della nostra televisione.

    C’era rimasto nonostante le lamentele di mia madre e i suoi tentativi di farlo sparire. Ricordo che una volta, tornata da scuola, dovetti andarlo a recuperare, arrotolato dentro il bidone della spazzatura del condominio. Lo riparai con dello scotch e lo rimisi al suo posto. «Ma perché non puoi anche tu avere il poster di Kevin Costner, come le altre bambine?» chiedeva mia madre. Ma io ce li avevo tutti e due: Kevin Costner e Rodolfo Quattrociocche, uno di fianco all’altro, il primo bellissimo, l’altro, Rudi, eroe di mio padre.

    Immaginarselo gonfio come un barile e privo di sensi, qualche metro sotto la superficie dell’acqua, non era facile. Ma così lo descriveva il testo dell’Ansa: un’immersione imprudente alle prime ore del mattino, dalle parti di Varazze, in Liguria; un calo di pressione probabilmente dovuto anche all’acqua fredda; la perdita di coscienza e l’intervento del proprietario di un ristorante sulla spiaggia che stava aprendo il locale. Il ristoratore, nonché ex bagnino, aveva riconosciuto Rodolfo Quattrociocche prima che si immergesse, nonostante la muta e nonostante la stazza. Aveva seguito le sue operazioni e si era buttato in acqua dopo che, passati diversi minuti, non l’aveva visto riaffiorare. Rianimato da un’ambulanza chiamata dalla moglie del ristoratore, Quattrociocche era stato trasportato all’ospedale di Arenzano dove sarebbe stato tenuto in osservazione tutta la notte. Ora era fuori pericolo.

    C’era una storia dietro quelle poche righe. Ce la vedevo. Una storia di decadenza, come si intuiva dalla descrizione del suo fisico decotto: gonfio e fasciato dalla muta. L’equipe medica che tenta di rianimarlo sulla ghiaia ligure, grigia e sporca. Una gelida immersione all’alba e la figura di un colosso dello sport che si eclissa nel mare torvo del mattino. Sarebbe scomparso se non ci fosse stato l’intervento dell’ex bagnino? E se non fosse stato Rudi Quattrociocche, se non ci fosse stata la Dolce Notte di Las Vegas, così come l’avevano chiamata i giornalisti, quale bagnino o ristoratore sarebbe rimasto a osservarlo mentre scompariva all’orizzonte? Era stato il suo passato grandioso a salvarlo ancora una volta. O forse a condannarlo, a riportarlo sulla terraferma perché scontasse il suo lento tramonto.

    Mi ero già scritta mezzo articolo in testa, mentre scivolavo lungo il corridoio per raggiungere l’ufficio del caposervizio di turno quella sera. Lo trovai in piedi, dentro l’armadio, con il naso infilato dentro un vecchio almanacco del calcio.

    «E questa?» chiesi, lasciandogli scivolare il testo dell’agenzia sulla scrivania.

    «Questa cosa?»

    «Come ti sembra?»

    Lui raccolse il foglio e lo guardò come se per leggerlo fosse costretto a puntarci sopra le narici. Era un signore dalle giacche polverose e sguardo uguale. Pensai che uno come lui, anziché il borotalco, usasse gli acari per profumarsi.

    «Che notizia!» disse. «Fermo subito le rotative.» E io per un istante credetti che fosse serio.

    «Non ti sembra interessante?»

    «Che cosa? Che Rodolfo Quattrociocche non è neppure morto?»

    «D’accordo, non è morto. Ma c’è andato molto vicino. E poi, stiamo parlando del Grande Rudi. Parola non di uno, ma di Quattro, Quattrociocche» dissi, facendo il verso a una vecchia pubblicità che mio padre citava sempre.

    «Sì, il più grande schifoso dello sport italiano» rispose lui, rientrando dentro all’armadio degli almanacchi.

    Sapevo a che cosa faceva riferimento: all’incontro venduto.

    La fama di Rudi era stata rovinata dal sospetto che fosse un corrotto. Non erano mai riusciti a provare nulla, ma questo non aveva cambiato il giudizio di molti. A quelli bastava l’evidenza del match della rivincita.

    Sei mesi dopo l’impresa di Las Vegas, Quattrociocche concesse a Jason Davis la possibilità di riconquistare il titolo. L’incontro non durò neppure il tempo di una ripresa: Rodolfo andò a terra dopo poco più di trentacinque secondi e la gente si chiese come fosse possibile. Sei mesi prima era riuscito a strappargli la cintura e ora non era stato in grado di fronteggiarlo nemmeno per un minuto? Doveva essersi venduto il match, conclusero, senza appello.

    «Negli annali c’è scritto che è stato l’ultimo grande campione della boxe italiana» protestai. «Tutto il resto sono voci.»

    «Sì, voci molto dettagliate però: una borsa di soldi, cinquecentomila dollari… Non sono riusciti a incastrarlo, ma io il mio giudizio c’è l’ho e me lo tengo. Trentacinque secondi, ti rendi conto?»

    Avrei voluto vederli, tutti questi accusatori: avrei voluto vederli sul ring davanti a quel colosso nero. Avrebbero pianto come bambini e un rivolo di piscia gli avrebbe rigato le cosce. Jason Davis era mostruoso. Era stato campione del mondo nel ’91 per ben quattro volte, poi nel ’92 e poi di nuovo nel ’94 e nel ’95: a stupirmi era che un piccolo italiano rabbioso fosse riuscito a batterlo una prima volta, non che la seconda fosse andato ko appena dopo il gong. Il Grande Rudi per me era sempre rimasto grande.

    «Hai finito o no, quella pagina sulla Vezzali?» chiese il caposervizio. Portava un paio di occhiali fuori moda di almeno vent’anni. Se glieli avessi spaccati con un destro alla Quattrociocche, gli avrei fatto solo un favore.

    «Intendi la Granbassi?» chiesi.

    «Sì, la Granbassi.»

    «No, sto aspettando che Max finisca di disegnarmela.»

    Sentii tossire dentro l’armadio.

    «Ciccione maledetto» borbottò. Poi prese il telefono e lo fece chiamare.

    «Max» disse a bocca spalancata «vieni qui.»

    Max aveva il fiatone quando si presentò nell’ufficio del caposervizio ma non perché avesse corso: ce l’aveva sempre. Aveva dei pantaloni a costine che si allacciavano molto al di sotto della linea della pancia. Mi ero sempre chiesta come facessero a non cadere.

    «Allora? ’Ste pagine?» chiese il caposervizio.

    «Ho finito.»

    «Anche la pagina sulla Granbassi.»

    «Manca quella.»

    «E allora muoviti, che lei deve andare a casa. Dai, che sono le undici.»

    Max mi guardò come si guarda una donna in una redazione sportiva. Poi mi attraversò con gli occhi e raggiunse la scrivania, sulla quale era rimasto il foglio dell’agenzia.

    «No. Cosa gli è successo?»

    «Stava per lasciarci le penne» risposi.

    «Il Grande Rudi?»

    «Già, un incidente di sub.»

    «Pazzesco. E nemmeno una settimana fa è morto Jason Davis. Ti immagini? In meno di un mese, bam bam, secchi tutti e due.» Scosse la testa. «Dov’era finito? Era un pezzo che non si faceva vedere in giro.»

    Mi voltai verso il caposervizio. Ma lui aveva già ripreso a compulsare i suoi almanacchi e noi eravamo solo due scocciatori. «Andate fuori, con le vostre chiacchiere da bar.»

    Max mi restituì il testo dell’agenzia dritto sulla bocca dello stomaco. Soffocai un lamento e quasi gli fui grata: mi aveva trattato come avrebbe trattato un collega maschio. Lo seguii fino all’uscio a testa alta. Poi, anziché proseguire verso il nostro open space, presi a camminare nella direzione opposta, verso l’ufficio del vicedirettore. Avevo un paio di stivaletti nuovi che mi piacevano un sacco. Ricordo di essermeli guardati contenta, mentre camminavo lungo il corridoio dei bolliti.

    «Se mai ti daranno una stanza qui» mi avevano detto quando ero arrivata al giornale «vorrà dire che hai già fatto abbastanza: a quel punto sei bollita e puoi smettere di lavorare.» Era dove avevano l’ufficio tutte le grandi firme del giornale e per raggiungere la direzione bisognava passare da lì.

    Camminai a naso dritto. La reazione di Max mi aveva dato fiducia: anche lui si chiedeva che fine avesse fatto Rudi Quattrociocche e magari come avesse vissuto il suo tramonto, e poi ancora perché si fosse immerso in quella maniera imprudente. Un incidente? Un gesto disperato? E la morte di Jason Davis, un semplice caso? 

    Pensai che fosse l’occasione che stavo aspettando e che l’errore fino a quel momento era stato aspettarla e basta. I miei capiservizio vivevano sepolti sotto strati di almanacchi: se anche fossi stata un talento del giornalismo, non se ne sarebbero accorti, perché ero una ragazza e perché erano spaventati da qualunque cosa potesse modificare la loro routine. Ma ora ero stufa. Ora ero pronta a dare battaglia.

    Bussai alla porta di Giandomenico Barba, vicedirettore, che ero carichissima e per poco non la spalancai. Barba mi guardò come se fosse caduto un calcinaccio.

    «Disturbo?»

    «Vieni, vieni.»

    Nella stanza qualcuno aveva appena smesso di fumare. La temperatura era un po’ più bassa che in corridoio: la finestra doveva essere stata chiusa da poco.

    «Eva, ciao. Stai andando?»

    «No, devo ancora chiudere la mia pagina.»

    «Ti dà fastidio se mi accendo una sigaretta?»

    «Prego, prego.»

    Nel posacenere sulla scrivania ancora brillava il mozzicone della precedente, non del tutto spento. Alle spalle del vicedirettore, una parete di ricordi ne raccontava la carriera. C’era una sua foto, con ancora i capelli, fianco a fianco con il velocista Michael Johnson, una sciarpa del Real Madrid e il pass plastificato delle Olimpiadi di Atlanta del 1996. Un’immagine dello stadio di Mosca, immerso nella neve. E una sua caricatura, fatta da qualche collega vignettista, che non era per nulla male: il naso era quello di un bracco tipo Snoopy, i capelli in testa erano disegnati in numero di tre, il sopracciglio destro era alzato, come sempre.

    «Dimmi» disse. Con lo stesso sopracciglio.

    «Te lo ricordi Rodolfo Quattrociocche? Ha avuto un incidente.»

    «Grave?»

    «No, però ha passato la notte in osservazione.»

    «Mmh…»

    «Mi è stato detto che non è il caso di farci un articolo. E va benissimo. Non voglio criticare. Anzi, al contrario: vorrei capire. Vorrei che mi spiegassi il perché.»

    Si alzò, si spostò verso la finestra e soffiò il fumo fuori.

    «Te lo chiedo io, il perché» disse. «Perché dovremmo farci un articolo?»

    «Perché è stato l’ultimo grande campione della boxe italiana. Perché è stato il protagonista di un’impresa storica. Perché tra un mese saranno vent’anni da quella impresa e perché nemmeno una settimana fa è morto Jason Davis. Se sono tutte coincidenze, valgono comunque un pezzo.»

    «Ottime ragioni. Ma fai anche questi conti: cinquanta pagine di giornale, quindici solo di pubblicità, più l’inserto di calcio internazionale del martedì, che sono dieci, domani c’è la Champions e sono altre dieci. Ne rimangono quindici: abbiamo la Formula Uno e abbiamo l’intervista esclusiva alla Granbassi. Bisogna fare delle scelte.»

    «Però Rudi ha ancora tantissimi tifosi.»

    Immaginai gli occhi di mio padre correre sulle righe che avrei potuto pubblicare l’indomani, la

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1