A Berlino che giorno è
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Anteprima del libro
A Berlino che giorno è - Silvano Dragonieri
SpazioTempo
Collana di Narrativa e Poesia/17
curata da
Alessandro Lattarulo
Silvano Dragonieri
A BERLINO
CHE GIORNO È
Edizione ottobre 2015
ISBN 978-88-8459-356-6
WIP Edizioni Srl
Via Capaldi, 37/A - 70125 Bari
tel. 080.5576003 - fax 080.5523055
www.wipedizioni.it - info@wipedizioni.it
In copertina:
Blank notebook with music and cassette
di Tumlam
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senza l’autorizzazione dell’Autore e dell’Editore.
A zio Black
INDICE
GIOVEDÌ 12 GIUGNO 2014
SABATO 14 MAGGIO 1988
GIOVEDÌ 2 GIUGNO 1988
MARTEDÌ 14 GIUGNO 1988
MERCOLEDÌ 15 GIUGNO 1988
GIOVEDÌ 16 GIUGNO 1988
VENERDÌ 17 GIUGNO 1988
SABATO 18 GIUGNO 1988
DOMENICA 19 GIUGNO 1988
LUNEDÌ 20 GIUGNO 1988
VENERDÌ 12 GIUGNO 2015
POST SCRIPTUM
NOTE DELL’AUTORE
GIOVEDÌ 12 GIUGNO 2014
Ho sempre odiato la cravatta. Non avevo mai sopportato di dovermi annodare quel terribile cappio al collo. Solo dopo le numerose insistenze di mia moglie avevo ceduto a una simile tortura. Oltretutto mi ero sempre rifiutato di imparare le cervellotiche manovre di dita e polsi per autoimpiccarmi, per cui anche quel giovedì mattina lasciai che fossero le delicate mani della mia consorte ad accalappiarmi con un nodo Windsor.
L’occasione però non si poteva mancare: una convocazione a Cinecittà, nel quartier generale del re dei produttori italiani, Mauro De Benedictis, era un privilegio concesso a ben pochi.
Nell’ambiente cinematografico era conosciuto come er Cobra
, per la sua capacità di azzannare e fare piazza pulita dei rivali. I suoi film occupavano immancabilmente la testa delle classifiche. Non sbagliava mai un colpo.
Nel mio curriculum vi erano solo tre lungometraggi, invero ben accolti dalla critica e con una soddisfacente risposta di pubblico. Girare un film col Cobra
avrebbe significato entrare nell’olimpo dei registi italiani.
Maria Elena mi scansionò a fondo, con maggiore cura di una TAC ad alta risoluzione, e corresse ogni impercettibile difetto estetico: fu una strage di punti neri e di peli che spuntavano irriverenti dal naso. Finalmente ricevetti il suo via libera, sotto forma di bacio sulla fronte, accompagnato dalle scaramantiche paroline magiche «torna vincitor!»
L’appuntamento era fissato per le dieci. Scesi dal taxi alle nove e quarantacinque e passeggiai nervosamente sotto il celebre studio, per entrare nel quale qualsiasi giovane regista italiano avrebbe sgozzato la propria madre. Ogni dieci secondi circa il mio indice destro si piegava a uncino e tentava disperatamente di creare uno spazio vitale tra la trachea e l’ultimo bottone della camicia. Il sudore aveva disegnato sulla schiena una chiazza che si allargava ad ali di farfalla.
Alle nove e cinquantacinque mi feci coraggio e decisi di guadagnare la porta d’ingresso dello studio. Il portiere aveva già provveduto ad annunciare il mio arrivo e, alla fine della scalata, mi ritrovai al cospetto di un’avvenente segretaria le cui sole gambe corrispondevano pressappoco alla mia altezza.
«Buongiorno, sono Francesco Carone.»
«Buongiorno, il dottor De Benedictis la riceverà tra breve, si accomodi pure.»
Mi indicò una poltrona in pelle sulla mia destra e tornò alla sua postazione. Io mi sedetti dove suggerito. Ingannai l’attesa giocherellando con il mio smartphone, non mancando di gettare appena possibile furtive occhiate al vertiginoso stacco di cosce in grado di correggere come per incanto la miopia che mi trascinavo dall’età di nove anni.
Dopo pochi minuti udii un doppio squillo. La segretaria si alzò come un automa e con un professionale gesto della mano mi invitò a seguirla. Percorremmo un corridoio che a me sembrò infinito e, appena girammo a destra, la conturbante collaboratrice si fermò davanti a un’enorme porta scorrevole che si aprì come per magia. Un fascio di luce solare abbagliò i miei occhi. Appena le mie retine si riassettarono, misero a fuoco la figura di De Benedectis, seduto dietro alla scrivania di rovere, resa celebre dai pochissimi giornalisti a cui era stato concesso di descrivere il suo ambiente di lavoro. Indossava una camicia celeste sbottonata fino al petto, al centro del quale svettava una vistosa catena d’oro con crocifisso taglia extra large.
«Ahó, che stai a fà lì impalato? Sedite.»
Conoscevo benissimo i suoi modi rudi e spicci, per cui mi ero preparato psicologicamente a ogni sua colorita esternazione. Mi avvicinai e gli tesi una mano umidiccia. Ricevetti una stretta che quasi mi spaccò il quinto metacarpo.
«Buongiorno dottor De Benedictis, grazie per avermi ricevuto.»
«C’hai ‘na seppia al posto della mano, li mortacci tua!»
Risi imbarazzato mentre sentivo il calore invadere le gote. Mi accomodai sulla sedia di fronte alla sua scrivania. Er Cobra
puntò le mani sulla scrivania e mi fissò, accompagnando lo sguardo con un sorriso istrionico.
«A Francè, te seguo da molto tempo sai, il tuo ultimo film alla mostra de Venezia ha spaccato, io t’avrei dato er Leone d’oro.»
«La ringrazio del complimento, ma non esageriamo. Comunque sono molto soddisfatto per il premio della critica.»
«Sticazzi, meritavi molto di più. Perciò so’ molto curioso de legge er copione. Devo capì se vale la pena de investì ‘na barca de soldi pe’ ‘na faccia de babbione come te. Hai detto che è una storia autobiografica?»
«Sì, certo, è il racconto di un viaggio incredibile che ho fatto nel lontano 1988 con due cari amici. Penso potrebbe venir su un bel film.»
De Benedictis sospirò, sollevò la cornetta e digitò dei numeri sul display del telefono.
«A bona, nessuno me deve disturbà per dù ore, tassativo!»
Riagganciò la cornetta, incrociò le mani a mo’ di preghiera e mi guardò dritto negli occhi.
«Tira fuori er copione e raccontami il film: com’è che se chiama?»
«A Berlino che giorno è» risposi, cercando di stemperare la tensione