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Riscenziello
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E-book206 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Una sorella in crisi e un nipotino con uno spiccato gusto per l'arte splatter. Un padre ingombrante, saggista di chiara fama che, tra un talk-show e l'altro, rimane genitore impeccabile. Un lavoro di pubblicitario svuotato di qualunque dimensione etica. Inizia così la tragicomica avventura di Vittorio in compagnia dell'ansia, proprio quando si ritrova a curare la campagna di comunicazione per un rinomato quanto discutibile psicoterapeuta di estrazione lacaniana. Su consiglio di Claudia, nuova fiamma e aspirante psicologa, il giovane inizia un percorso di analisi dagli esiti grotteschi. Il risultato letterario è una satira feroce e attualissima.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita30 mar 2020
ISBN9788835397762
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    Anteprima del libro

    Riscenziello - Marco Ciotola

    parafrasato.

    Io non sono razzista ma

    È cominciato per via dei rumeni. Quelli stanno a nero in un garage, e il Comune non gli raccoglie la differenziata. Nei giorni dispari mi ritrovavo il loro sacchetto di organico fuori dal cancello, e fin qui ci posso pure stare. Il punto è che, non chiudendolo nel contenitore di plastica, era facile preda dei gatti. Quindi, il lunedì, il mercoledì e il venerdì, io raccoglievo gli avanzi dei rumeni dal vialetto, una cosa che m’ha fatto salire un notevole risentimento di matrice razzista.

    C’è da dire, però, che erano bravi mica poco, tanto che la storia è andata avanti per due mesi senza che riuscissi mai a beccare sul fatto il responsabile. Quando parlavo con gli altri vicini parevo matto, pure perché, per una cosa del genere, chiunque avrebbe fatto partire svariate class action dopo un paio di giorni. Mentre io, fra una chiacchiera e un’altra, me ne uscivo con la storia della spazzatura, dei giorni dispari e dei gatti. Ma ne parlavo serenamente, mantenendo un atteggiamento dubbioso circa i colpevoli.

    «E quelli so’ i rumeni Vitto’, gli unici che stanno a nero qua!» aveva concluso Giuseppe, dell’interno 3. Poi aveva bestemmiato e cercato di organizzare sul momento una ronda notturna, coinvolgendo pure Pina, che però c’aveva 86 anni e aveva detto che no, non ce la faceva, ma avrebbe guardato volentieri dalla finestra. Pure Tonino, il brigadiere, m’aveva detto che erano i rumeni, giurandomi che la moglie aveva visto uno di loro che alle sei di mattina passeggiava con fare sospetto. Non che avessi bisogno di conferme. Avevo modo di esaminarla tre volte a settimana, pezzo per pezzo: la classica spazzatura rumena.

    Un martedì sera che ero appena riuscito a far addormentare Christian, mentre mi lavavo i denti, ho sentito i rumori di una rissa felina. Una volta uscito mi sono trovato davanti un delirio di insalata, ossa di pollo, lische di pesce e carta da forno zuppa d’olio, che fra parentesi manco c’andrebbe nell’organico. Sono sceso verso i garage ma non ho trovato nessuno. Rientrato in casa mi sono sentito agitato, ma tanto. Non sapevo che fare e per un po’ sono rimasto a guardare Linda, che dormiva. Poi ho attraversato il giardino e ho raccolto tutto. Mi tremavano le mani, e non senza difficoltà mi sono messo a scrivere, col pennarello indelebile rosso, un messaggio per i rumeni, che non fosse diretto ai rumeni ma a CHIUNQUE METTA LA SPAZZATURA SOTTO L’INTERNO 1. Ho accartocciato tre fogli prima di giudicare il risultato soddisfacente. Ostentando sicurezza ho appiccicato il pezzo di carta alla fine della discesa, e l’ho esaminato: c’erano due errori d’ortografia e uno di punteggiatura. Allora ho fatto per staccarlo, ma ho notato che c’era qualcuno che mi guardava dalla finestra del 2. Mi sono agitato ancora di più, corrodendomi nel dubbio e guardandomi intorno, fino a che ho deciso di lasciare le cose come stavano e tornarmene a casa con il magone.

    Insomma, sono laureato in lettere, ho per le mani documenti da scrivere e correggere tutti i giorni e faccio errori d’ortografia in un cartello minatorio. Perché?

    Qualcosa mi agitava molto più della spazzatura dei rumeni e della prospettiva di dovermene occupare per sempre. Quella mia tendenza a prendere tutto alla leggera, armamentario ideologico con cui affronto da sempre le situazioni, veniva meno. Qualsiasi cosa mi passasse per la mente assumeva contorni intricati, diventava complessa. Tutte quelle certezze che solo pochi istanti prima sarei riuscito a motivare con agilità e autocompiacimento, diventavano oscure pure a me. Ad esempio, come spiegare perché più di quelli che salgono sulla metro prima di far scendere gli altri, odio chi, in procinto di uscire, ti urla che ha la precedenza? Perché non sopporto la rivendicazione, chi mette le mani avanti, d’accordo, ma è molto più complicato di così.

    Steso sul letto, ho avuto la sensazione di un punto di non ritorno: conveniva più andare avanti che tornare indietro, ma non era una cosa necessariamente legata al cartello sgrammaticato, ormai già appiccicato al muro. Poi mi è venuto una specie di attacco di panico: l’ho riconosciuto perché ne avevo già sofferto in passato, da adolescente. Un’an­sia generalizzata e ancora quella sensazione che mi potesse sfuggire tutto di mano, persino le cose che avevo già fatto o detto. Per esempio quel weekend, quella pace col mondo e quella ragazza, Valentina. Avevo vent’anni, lei diciotto. Eravamo stati due giorni a Palmarola, un’isola disabitata. Conoscevo un pescatore che lì aveva una casa costruita nella roccia, me l’ero fatto amico, l’avevo convinto persino ad accompagnarci e venirci a prendere in barca. Due giorni perfetti, all’avventura, a bastare a noi stessi, a darci energia facendo l’amore, ripetutamente. Come m’ero sentito in quei momenti non mi sarei mai più sentito nella vita, ma questa non era una cosa triste. Quel weekend mi aveva dato sicurezza, ero cresciuto. E pure se poi Valentina m’aveva tradito e io l’avevo dimenticata, erano rimaste le sensazioni. Ma in quegli istanti mi veniva da pensare solo: se non ci fossi riuscito? se non avessi avuto la forza? se la mia energia di allora fosse stata quella di adesso? Probabilmente non avrei mai vissuto quella circostanza.

    O come quando alle medie avevo copiato di sana pianta un compito di matematica, ché non avevo studiato nulla. Avevo cambiato di posto tre volte con una scusa, mi ero fatto lasciare alcune soluzioni in bagno, avevo tenuto dei fogli clandestini sotto al banco per due ore, facendo l’impossibile per non farmi beccare. Alla fine avevo preso otto, molto più di quanto prendessi di solito. Sarei stato capace di rifarlo? Avrei avuto la voglia, più che la forza? Domande che peggioravano uno stato d’agitazione già notevole.

    Poi è arrivato Christian, aveva sognato un mostro. Mi ha costretto a lasciare sullo sfondo il disagio e mettere in primo piano i bisogni degli altri, una cosa che nella vita ho fatto poche volte. E mentre rielaboravo, con molta meno dimestichezza del solito, Il posto delle fragole di Ingmar Bergman (coi classici si rilassa un sacco), ho sentito che le cose si complicavano, che non stavo bene. E ho avuto l’impressione che non lo sarei stato per un po’.

    Quella stessa settimana i rumeni hanno smesso di portarmi l’immondizia sotto casa, però.

    Gaviscon

    Seduto al tavolo della cucina, mi metto a modificare i disegni di Christian, prima che lui li dia alla maestra. Ha sette anni ma tratteggia scenari che, apparentemente, suggeriscono omicidi a catena. Siccome Linda – la madre e pure mia sorella – ha da poco affrontato una separazione burrascosa, la maestra si è più volte detta preoccupata per le condizioni del piccolo, non facendo mai ufficialmente cenno ai servizi sociali, ma evidenziando spesso quel «monolocale buio e insanguinato» che lui disegna. Che poi sarebbe casa mia, dove Linda si è trasferita da qualche mese. E il sangue l’abbiamo rimosso quasi del tutto.

    I disegni di un bambino pesano moltissimo sulle opinioni di un’insegnante. Sono schizzi violenti – è vero – ma Christian è un bambino sano, non gli manca nulla.

    Il periodo della separazione non è stato facile. È successo poco più di sei mesi fa; dopo una lunga sequenza di litigi, il padre, Domenico, ha picchiato mia sorella. Quando mi ha riferito la cosa l’ho aiutata a traslocare da me. Poi sono tornato a casa loro per affrontarlo, ma ha picchiato anche me.

    La casa era in affitto e nessuno dei due poteva pagarla. Lui aveva già perso il lavoro e, in conclusione, non è in grado di dare l’assegno mensile per il piccolo. Non ancora, almeno.

    Christian non l’ha presa proprio male. A un primo periodo anaffettivo ne ha fatto seguito uno in cui cercava figure genitoriali ovunque. Ora è in una via di mezzo, e mi pare si sia legato molto a me.

    Linda, dal canto suo, è sempre stata una ragazza particolarmente concreta, ma non per questo insensibile. È che non ricordo mai una vera conversazione con lei su quello che era successo. I traumi, più che rimuoverli, li ignora. Ricordo, ad esempio, che per molte settimane successive al­l’aggressione, quando le chiedevano come andava, lei descriveva dettagliatamente la guarigione delle ferite sul viso, e lo faceva senza la minima emotività o richiesta d’empatia. Non accennava mai neanche a Domenico, il marito, come se le ecchimosi derivassero da una caduta. Faceva un quadro clinico, tutto qua.

    Intento a cercare il pastello a cera verde per il disegno, comincio pure a pensare alla storia da raccontare stasera, ché mi sembra d’avere a che fare con un’ansia principalmente anticipatoria. Da mesi ormai dedico uno spazietto serale alla rielaborazione di trame dei film classici per Christian. Non l’hanno mai attratto storie di maghi, supereroi e personaggi dei cartoni in voga adesso, tipo Peppa Pig. Io poi sono un ottimo narratore, in grado di trasformare Fronte del porto, Toro scatenato o Il buio oltre la siepe in mirabolanti fiabe per bambini. Mi viene facile e lui è contento. Talvolta sperimento, come quando provai col Decalogo di Kieslowski, ma lì obiettivamente esagerai.

    Di solito gli scarabocchi tra il grottesco e lo splatter del piccolo mi divertono un sacco. Stavolta però devo fare i conti con un affanno emotivo non da poco. Tiro un piccolo sospiro di sollievo solo quando il verde comincia ad attecchire, e tutte e tre le teste sanguinanti diventano angurie.

    «Siamo fuori stagione» fa Linda, in piedi dietro di me.

    «Lo so, ma erano teste troppo grosse per farci di nuove le mele. Poi la maestra rompe le palle con la storia della prospettiva.»

    Linda si irrigidisce tutta e ruota il capo in direzione di Christian: «Non usare st’espressioni, che il piccolo sente. Tutto nervoso stai!»

    Ha ragione, sto tutto nervoso. Ne abbiamo parlato in mattinata, al telefono. La sua diagnosi è stata spietata, anche un po’ frettolosa: «Tu stai esaurito, te lo dico io. Mo’ fammi andare, che si secca il sugo.» Che fra parentesi è un sugo fatto pure con le mele, buonissimo. Comunque, prima che esigenze culinarie costringessero Linda a chiudere, avevo parlato tanto. Ero partito dalla spazzatura sparsa sul vialetto; perché non sarà certo un disagio legato al nuovo sistema di riciclaggio porta a porta, ma da qualche parte dovevo pure cominciare.

    «Vabbè, ma quelli so’ i rumeni che la lasciano, che ci vuoi fare?»

    Avevo proseguito con l’ansia serale e gli attacchi di panico, che mi costringevano a una lunga serie di notti in bianco.

    «Tu non pranzi mai e la sera t’abbuffi, mica ti fa bene. Guarda che la gastrite può dare anche un senso d’oppressione, lo diceva ieri Luciano Onder. Poi è logico che non dormi.»

    Avevo chiuso cercando di tratteggiare i particolari di quello stato ansioso persistente, «liquido», così l’avevo definito, non sapendo neanche bene il perché. Le avevo detto che la cosa mi preoccupava, e avevo capito sin da subito che non sarebbe durata poco. Avevo espresso il desiderio di parlarne con qualcuno, uno che mi potesse aiutare davvero.

    «Prova con Antonio.»

    «Antonio chi?»

    «Antonio Ruffolo, l’amico di papà. Ha sofferto un sacco per quella cosa del videopoker, ma mo’ l’ha superata benissimo.»

    Che non era esattamente la consulenza a cui pensavo, ma indirettamente mi aveva fatto ricordare di chiamare nostro padre, che – detto fra noi – un pochino c’entra di sicuro con questo mio attuale stato d’animo. Lui è stato un giornalista di successo, pensatore eccelso, e ha scritto pure un paio di libri. L’anno scorso ha fatto qualche apparizione dalla Gruber, a Otto e mezzo. Poi però non l’hanno più chiamato, perché in una puntata di marzo ha detto a un opinionista che persone come lui bisognava ucciderle da piccole. Con l’età aveva cominciato a essere molto più esplicito, quello sì. Non riusciva più a nascondere l’intolleranza verso chi, secondo lui, portava avanti ragionamenti «di comodo», si mostrava «intellettualmente disonesto», così diceva.

    Ma conduceva un’esistenza brillante, l’aveva sempre condotta. Al contempo instancabile lavoratore e padre modello, non ci fece mancare mai nulla. Da più giovani ci riunivamo tutti attorno alla tavola e lo ammiravamo alla tv: era una soddisfazione. Nella vita di tutti i giorni dava costantemente l’impressione – mai ostentata, né ricercata – di una mostruosa superiorità intellettuale rispetto a chi gli stava vicino. Mai una parola fuori luogo, mai una frase banale, mai un’escandescenza, mai una pressione verso di me, verso Linda e Aldo. Sempre misurato, affettivo il giusto. Insomma, uno così ti mette ansia, pare che qualunque cosa farai non ti riuscirà mai bene come a lui. E il fatto che non ti manifesti disappunto è ancora peggio. Perché – voglio dire – io non ho sfondato nel giornalismo, non ho mai mostrato il suo equilibrio né quel­l’intelligenza, e se non fosse stato per la sua raccomandazione non avrei nemmeno ottenuto il lavoro che ho adesso. Non sarebbe più liberatorio se mi dicesse che sono un inetto, che non se l’aspettava fossi diventato così coglione? Ma il punto è che non lo pensa.

    «Vitto’, è successo qualcosa?»

    «No, niente pa’. Che deve succedere?»

    «E tu non mi chiami mai la mattina.»

    «E vabbè, c’avevo un momento.»

    «Che, ti hanno licenziato? Vuoi che ci parlo io?»

    «No, tutto apposto. È che… no niente. Linda e io vi volevamo invitare domani a cena. Alla fine mica ci dobbiamo vedere per forza sempre di domenica a pran-»

    «Ma perché, ti è uscito fuori un impegno per domenica?»

    «No! Intendevo mica solo la domenica. Linda ha fatto il sugo quello buono, con le mele.»

    «Gli si è seccato, l’ho sentita un minuto fa. Mica m’aveva detto nulla di stasera. Che c’hai, stai male?»

    «Ma no, volevamo solo chiederti alcune cose. Se venite stasera ne parliamo.»

    «C’è il cineforum.»

    «Vabbè dai pa’, non è importante. Ci vediamo allora.»

    Ha insistito ma non me la sono sentita. Magari ci parlo davvero domenica, mi sono detto. Poi però c’è stato un

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