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Come saltano i pesci
Come saltano i pesci
Come saltano i pesci
E-book337 pagine3 ore

Come saltano i pesci

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Info su questo ebook

Matteo è in procinto di sostenere un colloquio alla Ferrari di Maranello, dove sogna da sempre di lavorare, quando scopre all’improvviso che la sua vera madre, Anna, è morta in un incidente stradale. Il ragazzo, cui la verità sulle sue origini era sempre stata nascosta dai genitori, decide di partire verso la casa di Anna nelle Marche, e non si accorge che sul suo furgone si è nascosta la sorella minore Giulia, affetta da sindrome di Down. Nel corso del viaggio Matteo conosce l’affascinante ma problematica Angela, che si unisce ai due ragazzi, per arrivare infine a Porto San Giorgio, dove scoprirà di avere un fratellastro. Matteo verrà infine raggiunto dal padre Italo, e riuscirà a fare luce sulla sua complessa vicenda familiare.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ago 2017
ISBN9788863937244
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    Anteprima del libro

    Come saltano i pesci - Simone Riccioni

    SÀTURA

    frontespizio_pesci

    Simone Ricchioni - Jonathan Arpetti

    Come saltano i pesci

    ISBN 978-88-6393-724-4

    © 2016 Leone Editore, Milano

    Questo libro è stato tratto dalla sceneggiatura

    di Serena De Angelis e Paula Boschi

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Oggi è il primo giorno del resto della tua vita

    Graffito anonimo su una panchina di Central Park

    A Lucia e Camilla

    Prologo

    Anna guidava tenendo innestata la stessa marcia oltre ogni limite di buon senso, portando il motore quasi al punto di scoppiare. Poi, un attimo prima del disastro, passava a un’altra.

    Era più forte di lei. Aveva la patente da quasi venticinque anni e ancora non si era resa conto che quel suo stile di guida alternativo faceva la fortuna dei meccanici, prima, e delle concessionarie, dopo. Di auto infatti ne aveva cambiate già sei, e quella su cui era seduta in quel momento iniziava a perdere colpi.

    «Perché non rispondi?» continuava a chiedersi. Stringeva il telefono con la mano destra, che invece avrebbe dovuto usare per scalare in terza, così da rallentare e affrontare la serie di curve che si stavano avvicinando in tutta sicurezza. Alla velocità a cui stava procedendo – la lancetta del tachimetro aveva superato gli ottanta all’ora – quei tornanti sarebbero stati impegnativi anche per il campione del mondo di rally durante un allenamento alla Playstation.

    «Dove diavolo ti sei cacciato?»

    «Sono qui, aiutami… sono qui» avrebbe risposto Sandro, se avesse potuto, ma era steso sul ciglio della strada che saliva verso gli oliveti, privo di sensi, accasciato su un fianco con un labbro spaccato, un molare in meno, il setto nasale rotto e gli occhi talmente gonfi da fare invidia a un pugile professionista.

    Venti minuti prima la differenza tra lui e un cadavere stava per diventare inesistente, un tizio lo teneva per il collo puntandogli un coltello alla carotide. Ma poi aveva richiuso l’arma a serramanico, passando alla fase due dell’avvertimento, ovvero una scarica di pugni al volto che gli avrebbero modificato i connotati.

    E fu proprio quello che successe.

    Se Anna lo avesse visto in quel momento, avrebbe faticato a riconoscerlo. Per prima cosa la carnagione di Sandro aveva cambiato tonalità, passando da un bianco latteo a un insano colore di frutta troppo matura. Ma ogni punto di quel viso non era più lo stesso, come se un chirurgo plastico lo avesse sistemato dopo essersi scolato una bottiglia di Johnnie

    Walker.

    Anna attese ancora qualche istante, poi, all’attivazione della segreteria, lasciò un messaggio che racchiudeva una buona dose di stizza.

    «Sandro, sono Anna, si può sapere dove sei? Ti ho cercato dappertutto. Richiamami subito.» Finito di parlare cercò di appoggiare il suo Samsung nel vano portaoggetti, ma quello le scivolò di mano come un’anguilla, cadendo sul tappetino.

    Se fosse stato un film, sarebbe stato un ottimo lavoro di regia e di sceneggiatura: campo, controcampo, ripresa dall’esterno dell’auto, poi dall’interno, dettaglio sul cellulare, e poi inquadratura degli occhi di Anna, prima puntati verso il basso a cercare il Samsung, e poi spalancati di colpo guardando qualcosa di fronte a sé.

    E infine la telecamera a mostrare la curva a destra verso la quale la macchina stava correndo.

    Fu un attimo.

    Mentre Anna si abbassava per raccogliere il cellulare, la Punto non sterzò seguendo la traiettoria della carreggiata. Priva di guida, seguì la direzione dei propri pneumatici.

    Nel giro di pochi istanti tutto il mondo della donna diventò terra, fango, sterpaglie, boscaglia. Nei suoi occhi prese a scorrere una serie di immagini che non erano distinte una dall’altra o articolate a formare una sequenza, ma si comprimevano nello spazio di una frazione di secondo, così da perdere i propri contorni, fondendosi con le precedenti e con quelle che venivano dopo.

    E intanto rotolava sempre più giù, fino a terminare quella folle corsa contro una quercia che se ne stava piantata lì, in assoluta beatitudine, da più di cent’anni.

    Il rumore dell’impatto fu una specie di prank! primordiale: le diverse note prima si sovrapposero una all’altra, poi si dilatarono in tutte le direzioni, facendo vibrare quello spicchio di vallata come la corda di una chitarra quando viene pizzicata.

    Per un attimo gli occhi di Anna si riempirono di migliaia di soli, mentre nelle orecchie le risuonò un coro di voci, dopodiché fu buio e silenzio.

    1

    Il Cavallino rampante

    Il bottone aggiorna era là, a pochi millimetri dal cursore.

    Matteo rilesse ancora una volta le due righe che aveva modificato, quindi spostò il mouse e fece clic.

    Aveva corretto la sezione sulle lingue straniere. Parlava inglese in modo più che accettabile, ma nel curriculum bisogna dire la verità, se non si vuole pagare un conto salato al momento della selezione.

    Il simbolo della Ferrari spiccava in alto sulla schermata del suo notebook. Da qualche tempo non c’era più l’indirizzo e-mail a cui mandare i curriculum, come lui aveva fatto per molti mesi, ma un sistema per salvare e aggiornare la propria storia professionale, sperando di essere scelti almeno per un colloquio. Quando aveva letto che cercavano soprattutto laureati si era spaventato, poi però aveva ricordato che la Ferrari produce auto, oltre a farle correre in pista. Auto belle da morire, immaginate e realizzate da designer di ogni tipo, ovviamente laureati col massimo dei voti.

    Lui non sarebbe andato a Maranello per disegnare, ma per coronare il desiderio di ogni meccanico: mettere a punto i bolidi di Formula Uno, essere parte del grande sogno.

    Aveva composto quel curriculum con cura, leggendo i suggerimenti che aveva trovato su Internet. Doveva presentare se stesso, questa era la prima raccomandazione, non con un elenco freddo dei propri titoli, ma in modo da stimolare interesse.

    Gli era venuta l’idea di filmarsi e mettere su YouTube il racconto di quello che voleva fare, per poi rimandare al video in una sezione del curriculum. Aveva provato per una decina di minuti, quindi aveva rinunciato con una smorfia: c’era il colloquio, per farsi cacciare via. Perché avvantaggiarli in quel modo?

    Aveva continuato a leggere i consigli. Doveva «mostrarsi come la soluzione al problema aziendale». Facile da dire, ma quella era la Ferrari, non una ditta che vende formaggi. I problemi aziendali… sono le auto che non vincono i Gran Premi. Formaggio anche quello, per certi versi, si disse sorridendo. Poi doveva spiegare in che modo aveva acquisito le sue competenze. La risposta era: «In officina con mio padre» ma forse non era molto professionale. Sapeva smontare e ricomporre quasi ogni auto presente sul mercato, quindi aveva cultura e inventiva per scovare qualsiasi soluzione in un tempo brevissimo, ottimizzando sforzi e costi. Si trattava solo di renderlo in parole eleganti.

    Raccontare se stesso, altro punto importante. Era stato un bambino cresciuto coi modellini delle rosse in mano, che passava i pomeriggi del fine settimana a guardare le auto sul circuito, mentre faceva i compiti per il lunedì. Era stato un giovane ragazzo che la passione aveva spinto lontano dagli uffici, nei quali pure avrebbe potuto brillare, e a sporcarsi le mani e il viso di grasso e olio difficili da mandar via, anche con una doccia prolungata. Era un giovane uomo con un sogno. Con tanti sogni, a dir la verità, ma troppo lunghi per quel curriculum.

    Si alzò in piedi mettendosi davanti allo specchio. Si immaginò durante il colloquio, in giacca e cravatta. Finse di salutare l’esaminatore, poi cominciò a recitare le frasi del curriculum, arricchendole di aneddoti e di fiducia in se stesso. Sorridere, dove possibile. Infondere sicurezza, pare facile. Convincere, la sfida più difficile.

    «La mia esperienza di vita tra le auto mi ha portato a trattarle come esseri viventi, mi sento come un medico» disse, fermandosi a pensare se fosse meglio parlare di un veterinario. «Un medico capace di comprendere i problemi delle auto, che impediscono loro di esprimersi al meglio delle possibilità. E se il mio paziente sta male, finché non ho individuato il suo problema non riesco a darmi pace.»

    Non gli piaceva, gli sembrava un discorso già ascoltato, però andò avanti per provare il resto. Ripeté alcune delle altre frasi, cercando di renderle più efficaci, e le trascriveva sul blocco che teneva sulla scrivania quando riusciva a esserne soddisfatto. Ricordava gli orali, all’esame di maturità. Ricordava la tensione di allora, la paura di non riuscire a scovare nella memoria quello che aveva studiato. Ora era diverso, si era preparato molto ma aveva soprattutto fatto pratica, e la pratica è esperienza. Non rischiava di dimenticare, e questo gli dava fiducia.

    Guardò le foto sulla parete. Lui ragazzino, fuori dai cancelli di Maranello. Era quella l’immagine alla quale teneva di più. Il grande sogno era cominciato quel giorno. Poi c’erano stati pioggia e sole, denti caduti, ginocchia sbucciate, cuori infranti. C’erano l’amore per sua madre e il rispetto per suo padre, l’affetto sconfinato per la sua sorellina speciale. C’erano state tante ragazze, ma nessuna che fosse definibile come il grande amore. O forse quell’amore c’era. Un amore rosso come il cuore, e nero come quel cavallino rampante. Pensò che un tifoso di calcio avrebbe detto una cosa simile della propria squadra, ma poi scosse la testa. La Ferrari era ben altro che undici ragazzoni in mutande. Era classe, energia, mito. Era il suo futuro, forse. Di sicuro, era il passato e il presente del suo cuore. Stava a lui trascinare quel sogno fino alla realizzazione.

    Nonostante Matteo avesse lottato con tutte le forze, le palpebre ebbero la meglio. Tirarono giù la saracinesca prima di lasciargli il tempo di togliersi la tuta con cui aveva trascorso la giornata in officina e di infilarsi sotto le lenzuola. La cosa positiva era che avevano resistito quindici minuti in più della sera precedente.

    Era quasi l’una quando la penna rossa con cui aveva rimarcato la sottolineatura a matita dell’ultima frase del quarto capitolo: «Un motore che gira magro emetterà battiti ad alti regimi e con l’acceleratore molto premuto, come quando una marcia viene tirata» gli cadde dalle mani, rotolando fino al centro della stanza. Poco dopo la penna, andò giù anche la testa, con un andamento lento e costante, fino a posarsi sulle trecentocinquanta pagine che formavano il manuale, Il carburatore, rischiando di travolgere la mitica rossa di Maranello in scala uno a dodici che faceva bella mostra di sé sulla scrivania insieme ad altri quattro modellini. Era la riproduzione del bolide con cui Gilles Villeneuve gareggiò nel mondiale di Formula Uno del 1982, prima di perdere la vita in un tragico incidente in Belgio.

    Matteo nell’82 non era ancora nato, sarebbero dovuti trascorrere altri otto anni, ma aveva sentito parlare delle gesta epiche di quello che veniva chiamato il Piccolo aviatore, e se n’era innamorato a tal punto da riguardarsi tutte le gare di quegli anni. Gli piaceva tutto di lui, dal modo in cui disegnava le curve, creando traiettorie mirabolanti che gli altri piloti potevano solo immaginare, alla grinta che metteva nei sorpassi. La parola «tentennamento» nel suo vocabolario non esisteva. Spingeva sempre al massimo. Anche con tre ruote, come successe nel Gran Premio di Zandvoort in Olanda, nel 1979.

    Il canadese era il suo idolo indiscusso: aveva classe da vendere, e non gli mancava certo il coraggio di sfrecciare su ogni circuito, sempre al limite della velocità. Doti rare da trovare nei piloti moderni, pensava Matteo, che erano sempre più simili a robot, che non lasciavano nessun particolare al caso. Poi, un’altra cosa che pensava era che se lo avessero chiamato a lavorare a Maranello, per la Scuderia corse, gli sarebbe piaciuto trovare un pilota «romantico», simile al suo Gilles, a cui sistemare la macchina per fargli vincere il mondiale.

    Pensieri, speranze…

    Ritornando al concreto, quel manuale lo aveva già letto due volte in tre mesi, ma forse è più corretto dire analizzato paragrafo per paragrafo, frase per frase, parola per parola, come se in ogni riga si fosse nascosta la verità assoluta. Continuando a passarlo in rassegna in quel modo certosino, gli sarebbe rimasto dentro come una preghiera, che all’occorrenza avrebbe snocciolato durante il grande giorno, davanti alla commissione esaminatrice della Ferrari.

    2

    Ave Maria

    Giulia, restando in tema di preghiere, prima di infilarsi sotto le lenzuola ne recitò tre, come al solito. Congiunse le mani e abbassò leggermente la testa. La prima era per chiedere di poter stare sempre insieme a suo fratello Matteo. Attaccò con un’Ave Maria. Al catechismo, durante la preparazione per la Comunione, una suora chiamata madre Aurora le aveva detto che la Madonna ascolta sempre le richieste dei bambini. Quindi, per forza di cose, doveva tenere in considerazione anche la sua.

    «Per favore cara Maria, io voglio restare sempre con mio fratello… lui è una persona speciale… quando siamo insieme è tutto più bello… quando siamo insieme sono più felice. Per favore cara Maria, fa’ che non se ne vada mai.»

    Le altre due, invece, leggermente più brevi, erano rivolte a sua madre, Mariella e a suo padre, Italo. Voleva bene anche a loro, anzi, li amava senza compromessi, ma Matteo rappresentava qualcosa in più, poteva considerarsi un’estensione del suo corpo, la sua parte mancante che la completava.

    A quel punto poteva entrare nel letto. Si stese, si coprì fino al mento e chiuse gli occhi. Trascorsero appena un paio di minuti, poi li riaprì e sfilò le braccia da sotto le coltri, per stenderle ai lati del corpo. Infine cominciò a scalciare sorridendo, finché i piedi non sbucarono accaldati dalle coperte. Alla fine allungò una mano verso il comodino e prese il suo piccolo iPod infilandosi le cuffiette. Glielo aveva regalato Matteo per il compleanno. Era proprio quello che voleva! Matteo le aveva letto i desideri nella mente.

    Gli angoli delle labbra si sollevarono fino a disegnarle sul viso un piccolo ritratto di felicità.

    Nel frattempo Violetta aveva iniziato a darci dentro:

    Sabes cuál es la verdad

    es el latido de tu corazón!

    Sabes que lo puedes escuchar…

    ¡junto al mío!

    Giulia conosceva a memoria le parole di Hoy somos más, quindi anche quella sera si divertì a sovrapporsi alla voce della giovane cantante argentina, oscillando la testa per cercare di andare a tempo.

    Ma di Violetta, in quella stanza, ce n’era anche un’altra, appesa in versione cartacea nella parete di fronte. Aveva il microfono in mano e i capelli al vento, e oltre a incitarla a continuare, sembrava la stesse invitando a scendere dal letto e mettersi a ballare come faceva lei nei suoi concerti. Con quella sua faccia da brava ragazza. Con quel suo sorriso schietto, quell’aria rassicurante. Ma Giulia quella sera non era sintonizzata sulla stessa lunghezza d’onda. Restò distesa a farsi suonare nelle orecchie tutte quelle tracce finché a un certo punto, dopo aver controllato l’orologio, spense il suo affarino elettronico, riponendolo nell’esatta posizione in cui si trovava prima, e si alzò in piedi.

    Camminando sulle punte per non far rumore, percorse il corridoio oltrepassando la stanza dove stavano dormendo i genitori, fino a raggiungere la camera del fratello. Prima di entrare si fermò un istante davanti alla porta, poi mise la mano sulla maniglia e si fece avanti.

    Matteo era ancora ripiegato sulla scrivania. Da quando si era accasciato, non si era mosso di un centimetro. Dalla bocca mezza aperta usciva qualche piccolo sbuffo, di tanto in tanto.

    Giulia lo osservò a lungo, poi si avvicinò al guardaroba. Facendo attenzione a non svegliarlo, lo aprì.

    Sembrava tutto in ordine.

    Subito i suoi occhi s’illuminarono, come se qualcuno avesse acceso un focherello dentro le iridi. Per sicurezza però iniziò a contare quello che c’era dentro, pezzo per pezzo, come in un inventario. Le camicie appese erano sette, le giacche due, e le felpe quattro, tutto come il sabato precedente. Passò in rassegna i pantaloni: anche quelli erano a posto. Di giubbini, però, ne mancava uno. La cosa le lasciò addosso una certa dose di ansia.

    Perché quello verde e impermeabile non era al suo posto?

    Poteva essere che… Matteo sarebbe partito? Il viaggio verso Maranello sarebbe stato più lungo del previsto, e non sarebbe mai più tornato da lei? Lei lo avrebbe aspettato, sotto il sole o sotto la pioggia, ma per quanto tempo avrebbe resistito? Come avrebbe fatto senza di lui, non lo sapeva proprio. In qualche modo, certo, ma non le veniva proprio in mente.

    Uscì dalla stanza perplessa, ma invece di fare il percorso inverso e ritornare a letto, andò in cucina. Pensare alla pioggia le aveva fatto desiderare le gocce sul viso e sulle labbra. Decise di prendere un po’ d’acqua dal rubinetto, ma avrebbe fatto rumore, così prese la bottiglia che era nel frigo. Si riempì per metà il bicchiere, accertandosi che non fosse troppo fredda. Bevve piano, guardando distrattamente i ripiani davanti ai suoi occhi. D’un tratto, si fermò. Versò le ultime gocce nel lavello, lasciando fuori la bottiglia, per controllare il contenuto dell’elettrodomestico. Dal basso in alto c’erano zucchine, melanzane, una busta d’insalata pronta da mangiare, una bottiglia di latte, una di passata di pomodoro, una confezione di uova, uno spicchio di parmigiano, due vasetti di yogurt, uno di marmellata, e infine due pacchi di carne conservati sottovuoto.

    Appena se ne accorse li prese per gettarli nella pattumiera. Poi, con aria soddisfatta, richiuse lo sportello, spense la luce e tornò a infilarsi sotto le coperte.

    3

    Dimensioni oniriche

    A circa duecento chilometri dall’appartamento dove vivevano Matteo e Giulia, quella stessa notte, Angela sognava sapendo di sognare. Ma lei, al contrario dei due fratelli, non era a casa.

    Dentro quella dimensione onirica stava navigando nella notte con una fragile barchetta, sopra un mare liscio come il vetro, con la vela che tagliava placidamente un denso strato di nebbia grigiastra.

    Qualcuno stava combattendo in mezzo alla nebbia: soldati si sparavano addosso, invisibili nella foschia. Angela sentiva gli spari, ritmati, regolari, implacabili, con i pensieri divisi a metà.

    Se una pallottola dovesse bucare la vela o il fondo della barca la situazione per me si metterebbe male, perché l’acqua è fredda e sotto ci sono gli squali, pensava per metà con preoccupazione.

    L’altra metà del suo pensiero era più tranquilla: non c’è nulla da temere, non sono davvero in mezzo al mare, è solo un sogno, se la situazione dovesse peggiorare dovrei solo spingermi fuori da qui e rientrare nel mio corpo addormentato.

    Ma di rientrare nel suo corpo addormentato, in verità, non aveva nessuna fretta.

    La realtà non era così bella né desiderabile, là fuori, come presto avrebbe scoperto.

    Quella che batteva da più di due ore sul vecchio tetto rivestito di eternit era semplice pioggia, ma dall’interno della fabbrica sembrava una raffica infinita

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