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L'inizio del gioco
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E-book303 pagine4 ore

L'inizio del gioco

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Info su questo ebook

The Ivy Chronicles Series

Autrice bestseller del New York Times

Pepper è da sempre innamorata del fratello della sua migliore amica. Hunter è l’uomo perfetto, la chiave per ottenere tutto ciò che lei ha sempre desiderato: sicurezza, stabilità, una famiglia. Ma Pepper deve fare in modo che Hunter si accorga di lei, che smetta di vederla solo come “l’amica di sua sorella” e che inizi a considerarla una vera donna. Certo lei non può contare su una grande esperienza in fatto di uomini, ma ha intenzione di rimediare con l’aiuto di qualcuno che sa il fatto suo. E le sue compagne di università sembrano avere il candidato ideale, ma il barman Reece, pur essendo fantastico, è anche pericoloso, profondo, con un passato tormentato. Presto le “lezioni di seduzione” iniziano a sconvolgere le vite di entrambi, perché nessuno sa cosa può succedere quando si superano i preliminari e si fa sul serio… 

«Le mani esperte di Sophie Jordan regalano una lettura galoppante, sexy e gratificante.»
Kirkus Reviews
Sophie Jordan
ha scritto il suo primo libro alle superiori. Dopo la laurea in Inglese e Storia ha fatto l’insegnante per diversi anni e poi, dopo la nascita del primo figlio, ha lasciato il lavoro e ha deciso di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Meno di tre anni dopo, il suo primo romanzo è balzato tra i bestseller del «New York Times» e di «USA Today».
LinguaItaliano
Data di uscita15 giu 2016
ISBN9788854196667
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    Anteprima del libro

    L'inizio del gioco - Sophie Jordan

    1291

    Titolo originale: Foreplay

    Copyright © 2013 by Sharie Kohler

    Traduzione dall’inglese di Mariafelicia Maione

    Prima edizione ebook: gennaio 2018

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9666-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Indice

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Sophie Jordan

    L’inizio del gioco

    The Ivy Chronicles Series

    A Maura e May, le mie campionesse.

    Capitolo uno

    Per tutta la vita ho saputo cosa volevo. O meglio, cosa non volevo.

    Non volevo che gli incubi che mi tormentavano diventassero di nuovo realtà. Non volevo tornare al passato. Vivere nella paura. Nel dubbio costante che il terreno sotto i miei piedi potesse cedere. Dai dodici anni in poi avevo conosciuto tutto questo.

    Ma è strano come ciò da cui fuggi trova sempre il modo di raggiungerti. Quando non guardi, compare all’improvviso, ti picchietta su una spalla, ti sfida a girarti.

    A volte non puoi farci niente. Devi fermarti. Devi voltarti e guardare.

    Devi lasciarti cadere e sperare per il meglio. Sperare che quando tutto sarà finito ne uscirai tutta d’un pezzo.

    Il fumo usciva in grossi pennacchi da sotto il cofano della mia macchina, una nebbia grigia sulla notte scura. Colpendo il volante, mugugnai una bestemmia e accostai a lato della strada. Una rapida occhiata confermò che la spia della temperatura dell’acqua segnava decisamente rosso.

    «Merda, merda, merda». Spensi il motore con movimenti rapidi, rabbiosi, sperando che questo potesse miracolosamente impedire al veicolo di surriscaldarsi ulteriormente.

    Afferrai il telefono appoggiato nel portabicchieri, saltai fuori nella frizzante notte autunnale e mi allontanai un bel po’ dalla macchina. Non capivo niente di motori, ma avevo visto un sacco di film in cui un’auto scoppiava subito dopo essersi messa a fumare. Non avrei corso il rischio.

    Controllai l’ora sul telefono. Le undici e mezza. Non troppo tardi. Avrei potuto chiamare i Campbell. Sarebbero venuti a prendermi e mi avrebbero dato un passaggio fino al dormitorio. Ma questo lasciava comunque la macchina sola là fuori sulla strada. Avrei dovuto occuparmene in seguito, e già avevo un mucchio di cose da fare l’indomani. Tanto valeva pensarci subito.

    Girai lo sguardo sulla notte silenziosa attorno a me. Dei grilli cantavano sottovoce e il vento stormiva tra i rami. Non c’era esattamente un gran traffico. I Campbell abitavano su alcuni acri di terra fuori città. Mi piaceva fare la baby-sitter per loro. Era una pausa piacevole dall’affollamento del centro. La vecchia fattoria dava l’impressione di una vera casa, comoda e accogliente, molto tradizionale con i suoi vecchi pavimenti di legno e il caminetto di pietra che in quel periodo dell’anno scoppiettava sempre. Sembrava uscita da un quadro di Norman Rockwell. Era il genere di vita che desideravo tanto avere un giorno.

    Solo che in quel momento non apprezzavo molto la sensazione di isolamento su quella strada di campagna. Mi sfregai le braccia attraverso le maniche lunghe e sottili; magari avessi preso il maglione prima di uscire di casa. Era appena ottobre, e iniziava già a fare freddo.

    Fissai lugubre la mia auto fumante. Mi sarebbe servito un carro attrezzi. Sospirando, iniziai a cercarne uno in zona sul cellulare. Le luci di una macchina in arrivo lampeggiarono in lontananza e mi immobilizzai, incerta sul da farsi. Mi prese l’idea folle di nascondermi. Un istinto vecchio, ma familiare.

    Era un film horror da manuale. Una ragazza tutta sola. Una strada di campagna isolata. Tanto tempo prima ero stata la star di un horror tutto mio. Non ero pronta a una replica.

    Mi spostai dalla strada, mettendomi dietro la macchina. Non proprio nascosta, ma almeno non ero un bersaglio evidente in piena vista. Cercai di concentrarmi sul display del telefonino e sembrare tranquilla. Come se ignorare la macchina in avvicinamento potesse far sì che il suo occupante non notasse né me né l’ammasso di metallo fumante, in qualche modo. Senza alzare la testa, avevo ogni parte del corpo sintonizzata sugli pneumatici che rallentavano e sul motore rullante, mentre la macchina si arrestava.

    Si era fermato, ovvio. Sospirando, sollevai il capo e guardai il potenziale serial killer. O il mio salvatore. Sapevo che la seconda ipotesi era la più probabile, ma l’intero scenario mi dava la nausea e riuscivo a pensare solo al peggio.

    Era una jeep. Del genere senza tettuccio. Solo una barra di sicurezza. I fari si riflettevano sulla distesa di asfalto nero.

    «Tutto ok?». La voce profonda apparteneva a un ragazzo. Gran parte del viso era in ombra. La luce del cruscotto proiettava un leggero bagliore. Abbastanza da permettermi di determinare che era piuttosto giovane. Non molto più grande di me. Venticinque anni al massimo.

    La maggior parte dei serial killer è costituita da giovani maschi bianchi. Quel fatterello casuale mi balenò tra i pensieri, aumentando l’ansia.

    «Sì», dissi in fretta, la voce troppo alta nella notte fresca. Brandii il telefono come se spiegasse tutto. «Stanno venendo a prendermi». Trattenni il respiro, in attesa, nella speranza che credesse alla bugia e se ne andasse.

    Indugiò lì nell’ombra, la mano sulla leva del cambio. Guardò avanti sulla strada e poi indietro. Verificava quanto fossimo soli? Quanto matura l’occasione per assassinarmi?

    Avrei voluto avere uno spray al peperoncino. La cintura nera di kung fu. Qualcosa. Qualsiasi cosa. Le dita della mano sinistra si strinsero attorno alle chiavi. Passai il pollice sulla punta seghettata. Potevo sfregiarlo se necessario. Gli occhi. Sì, avrei mirato agli occhi.

    Si allungò sul sedile del passeggero, lontano dal riverbero del cruscotto, immergendosi così in un’oscurità ancora più profonda. «Potrei dare un’occhiata sotto il cofano», propose la sua voce profonda, disincarnata.

    Scossi la testa. «Davvero. È tutto a posto».

    Quegli occhi che avevo appena pensato di cavare con le chiavi scintillarono da lontano verso di me. Impossibile indovinarne il colore nel buio profondo, ma dovevano essere chiari. Azzurri o verdi. «So che sei agitata…».

    «No. Non sono agitata», esclamai in fretta. Troppo in fretta.

    Si appoggiò di nuovo allo schienale, il riflesso ambrato tornò a illuminargli i lineamenti. «Non mi va di lasciarti qua fuori da sola». La sua voce mi diede i brividi. «So che hai paura».

    Mi guardai intorno. La notte color inchiostro si infittiva. «Ma no», negai; però la voce uscì sottile, priva di qualsiasi convinzione.

    «Lo capisco. Sono un estraneo. So che ti sentiresti più a tuo agio se me ne andassi, ma non lascerei mia madre sola qua fuori di notte».

    Sostenni a lungo il suo sguardo, soppesandolo, nel tentativo di scoprire qualcosa del suo carattere nelle linee in ombra del viso. Guardai la macchina ancora fumante e poi lui. «Ok. Grazie». Il grazie seguì lentamente, un profondo respiro dopo, pieno di esitazione. Speravo solo di non finire sul notiziario del mattino.

    Se avesse voluto farmi del male ci sarebbe riuscito. O almeno ci avrebbe provato. Che l’avessi invitato o meno a controllare il motore. Era questa la mia logica mentre lo guardavo accostare davanti alla mia macchina. La portiera si spalancò. Drizzò la sua alta figura e uscì nella notte con una torcia in mano.

    I suoi passi scricchiolarono sul brecciolino sparso, il raggio della pila si fissò dritto sul mio veicolo ancora avvolto di vapore. A giudicare dall’angolazione della faccia, pensai che non mi degnasse di uno sguardo. Andò dritto alla macchina, alzò il cofano e ci sparì sotto.

    Le braccia conserte e strette al petto, avanzai con prudenza, spostandomi piano piano verso la strada per riuscire a vederlo esaminare il motore. Allungò una mano e toccò diverse cose. Dio sa cosa. Ne sapevo di meccanica quanto di origami.

    Ripresi a studiare i suoi lineamenti in ombra. Qualcosa scintillò. Mi sforzai di vedere. Aveva un piercing al sopracciglio destro.

    All’improvviso un altro fascio di luce illuminò la notte. Il mio potenziale meccanico si raddrizzò, allontanandosi dal cofano, e si mise tra me e la strada, le lunghe gambe divaricate e le mani sui fianchi, in attesa della macchina che si avvicinava. Per la prima volta lo guardai in viso senza impedimenti nel riflesso aspro dei fari in arrivo, e inspirai bruscamente.

    La luce crudele avrebbe potuto renderlo più brutto o evidenziarne i difetti, invece no. Per quanto riuscivo a vedere non aveva imperfezioni fisiche. Era sexy. Punto e basta. Mascella squadrata. Occhi azzurri incavati sotto splendide sopracciglia scure. Il piercing era discreto, solo uno scintillio d’argento sulla destra. I capelli sembravano biondo scuro, tagliati cortissimi, a spazzola. Emerson avrebbe detto che era leccabile.

    Il secondo veicolo si fermò accanto alla mia macchina e io spostai l’attenzione sul finestrino che si abbassava. Leccabile si chinò per sbirciare dentro.

    «Oh, ehi, signor Graham. Signora Graham». Tolse una mano dalla tasca dei jeans per fare un piccolo cenno di saluto.

    «Problemi alla macchina?», domandò un uomo di mezza età. Il sedile posteriore era illuminato dal basso riverbero di un iPad. C’era seduto un adolescente; lo sguardo incollato allo schermo su cui picchiettava, all’apparenza non si era nemmeno accorto che la macchina si era fermata.

    Leccabile annuì e mi indicò. «Mi sono fermato ad aiutarla. Credo di aver capito il problema».

    La donna dal lato passeggero mi sorrise. «Non preoccuparti, tesoro. Sei in buone mani».

    Più tranquilla dopo quella rassicurazione, annuii. «Grazie».

    Mentre la macchina si allontanava, ci guardammo, e io mi resi conto che non gli ero mai stata così vicina. Ora che parte dell’apprensione si era calmata, fui bombardata da tutto un nuovo fuoco di fila di emozioni. Per cominciare, un’improvvisa, estrema timidezza. Be’, soprattutto quella. Infilai dietro l’orecchio una ciocca di capelli ribelli e spostai il peso da un piede all’altro, a disagio.

    «Vicini», spiegò lui con un gesto verso la strada.

    «Vivi da queste parti?»

    «Già». Infilò una mano in tasca. Il gesto fece sollevare la manica e rivelò una parte maggiore del tatuaggio che si arrampicava dal polso su per il braccio. Per quanto non fosse minaccioso, decisamente non era il classico ragazzo della porta accanto.

    «Io stavo facendo la baby-sitter qui vicino. I Campbell. Forse li conosci».

    Si avvicinò di nuovo alla mia auto. «Abitano in fondo alla mia stessa via».

    Lo seguii. «Quindi pensi di poterla aggiustare?». In piedi accanto a lui, adocchiai il motore come se sapessi cosa stavo guardando. Giocherellavo nervosamente con l’orlo delle maniche. «Perché sarebbe fantastico. Lo so, è un macinino, ma ce l’ho da tanto». E in quel momento non potevo permettermi una macchina nuova.

    Inclinò la testa per guardarmi. «Macinino?». Sollevò un angolo delle labbra.

    Mi strinsi nelle spalle. C’ero cascata di nuovo: avevo messo in bella mostra il fatto di essere cresciuta insieme a persone nate prima che inventassero la televisione.

    «Significa macchina vecchia».

    «So cosa significa. Solo che non l’avevo mai sentito usare da nessuno, a parte mia nonna».

    «Già. L’ho imparato così». Dalla nonna e da tutti gli altri al residence per anziani di Chesterfield.

    Si girò e andò verso la jeep. Continuai a giocherellare con le maniche, osservandolo tornare con una bottiglia d’acqua.

    «Sembra che il manicotto del radiatore perda».

    «È un male?».

    Aprì la bottiglia e verso l’acqua nel motore. «Questo lo raffredderà. Ora dovrebbe funzionare. Almeno per un po’. Quanto devi andare lontano?»

    «Venti minuti circa».

    «Probabilmente ce la farà. Non andare oltre perché si surriscalderebbe di nuovo. Domattina presto portala da un meccanico e fai cambiare il manicotto».

    Respirai più liberamente. «Non sembra troppo grave».

    «Non dovrebbe costare più di un paio di centoni».

    Sussultai. In pratica avrei svuotato il conto in banca. Avrei dovuto cercare di fare qualche turno extra all’asilo o trovarmi degli incarichi in più come baby-sitter. Almeno, in quel caso potevo studiare un po’, una volta messi a letto i bambini.

    Lui richiuse il cofano con un tonfo.

    «Grazie tante». Misi le mani in tasca. «Mi hai risparmiato la telefonata al carro attrezzi».

    «Quindi non sta venendo nessuno a prenderti?». Di nuovo accennò un sorriso e capii che mi trovava divertente.

    «Già». Feci spallucce. «Forse me lo sono inventato».

    «Non fa niente. Non eri proprio in una situazione ideale. So che posso mettere paura alla gente».

    Lo guardai bene in viso. Paura? Sapevo che probabilmente scherzava, ma in effetti aveva quel certo non so che. Una vibrazione pericolosa, con quei tatuaggi e il piercing. Anche se era sexy. Era come il vampiro oscuro dei film che ossessionava le ragazze. Quello combattuto tra il desiderio di mangiarsi l’eroina e la voglia di baciarla. Io preferivo sempre il mortale gentile e non capivo mai perché la protagonista non scegliesse lui. Oscuro, pericoloso e sexy non facevano per me. Nessuno fa per te. Respinsi quel sussurro mentale con un colpo deciso. Se mi avesse notata il ragazzo giusto – quello che volevo – sarebbe cambiato tutto.

    «Paura non direi… non proprio».

    Rise piano. «Ma sì, invece».

    Per un attimo piombò il silenzio. Lo osservai bene. La maglietta dall’aria comoda e i jeans consumati erano casual. I ragazzi al campus li indossavano tutti i giorni, ma lui non sembrava casual. Non assomigliava a nessuno che avessi mai visto lì. Portava aria di guai. Il genere che fa perdere la testa alle ragazze. All’improvviso non respiravo bene.

    «Be’, grazie ancora». Con un piccolo cenno di saluto risalii in macchina. Mi guardò girare la chiave. Grazie al cielo non uscì fumo da sotto il cofano.

    Allontanandomi, mi rifiutai di rischiare uno sguardo nello specchietto retrovisore. Se Emerson fosse stata con me, ero sicura che non se ne sarebbe andata senza il suo numero di telefono.

    Gli occhi di nuovo sulla strada, mi sentii perversamente felice che lei non ci fosse.

    Capitolo due

    Spinsi la porta con la spalla, le mani occupate da un sacchetto di popcorn e una bottiglia di gassosa. Entrai nella stanza attigua e crollai sulla sedia girevole di Georgia. Come sempre, quella di Emerson era coperta di vestiti.

    Gli

    ABBA

    pulsavano nell’aria, la musica di rito quando Emerson si preparava per uscire. Ogni volta che la sentivo esplodere attraverso le pareti sottili, sapevo che era cominciata la toilette.

    Appoggiata la bottiglia sulla scrivania, insieme al suo casino di libri e quaderni, mi ficcai un pugno di popcorn in bocca e la guardai entrare ancheggiando in una minigonna attillata. La folle stampa a zig-zag bianchi e neri si adattava bene alla sua forma esile. Sussultai immaginandola addosso a me. Brutta visione. Non ero una ragazzina alta un metro e cinquantadue per quarantacinque chili di peso.

    «Dove vai stasera?»

    «Al Mulvaney».

    «Non è il tuo solito campo da gioco».

    «Di recente il Freemont è troppo pieno di canaglie delle confraternite».

    «Pensavo che fossero il tuo genere».

    «Forse l’anno scorso. L’ho superata. Quest’anno mi piacciono più…», inclinò la testa, osservandosi nello specchio appeso alla porta, «…gli uomini, immagino. Basta ragazzini per me». Mi rivolse un sorrisetto. «Vuoi venire?».

    Scossi la testa. «Domani ho lezione».

    «Sì. Tipo alle nove e mezza». Fece un cenno, disgustata. «Per favore. Io ce l’ho alle otto».

    «E probabilmente la salterai».

    Mi fece l’occhiolino. «Il prof non segna mai le presenze. Chiederò gli appunti a qualcun altro».

    Probabilmente a qualche sventurata matricola a cui si sarebbe annodata la lingua solo vedendola avvicinarsi. Sono quasi sicura che se le avesse chiesto un rene, le avrebbe dato pure quello.

    Entrò Georgia, avvolta in un accappatoio di spugna e con in mano il beauty-case dei prodotti per la doccia. «Ehi, Pepper. Vieni con noi stasera?».

    Mi si immobilizzò la mano nel sacchetto di popcorn. «Vai anche tu?». Sarebbe stato insolito. Georgia passava quasi tutte le sere con il fidanzato.

    Annuì. «Già, Harris studia perché domani ha un esame impegnativo, quindi mi sono detta, perché no? Il Mulvaney è piuttosto figo. Batte il Freemont».

    Emerson mi rivolse un’occhiata alla te-l’avevo-detto. «Sicura che non vuoi unirti a noi?». Si infilò un top turchese. Era sexy. Monospalla, le calzava come una seconda pelle. Qualcosa che io non avrei mai indossato.

    «Lascerò a voi le notti brave».

    Emerson ridacchiò. «Non so quanto ci potremmo scatenare con Georgia qui. In pratica è una vecchia donna sposata».

    «No che non lo sono!». Georgia si tolse l’asciugamano bagnato dalla testa e lo lanciò a Emerson.

    Lei sogghignò e mi rubò dei popcorn. Ingoiò una manciata tutta insieme, si leccò le dita burrose e fece un gesto della testa verso di me. «Dovresti venire».

    «Dovresti sul serio», l’appoggiò Georgia. «Sei single. Vivi un po’. Divertiti. Flirta».

    «Va bene così». Scossi la testa. «Avrò i miei brividi per procura attraverso voi due».

    «Oh, sii sincera. È per Hunter», disse Emerson in tono accusatorio, ritta davanti al suo specchio, mentre si sistemava qualcosa nei capelli. Tirò e spostò le ciocche fino a farle sporgere ad angolazioni differenti, creando un look selvaggio e diseguale che le incorniciava il viso tondo. Sembrava una specie di folletto figo.

    Mi strinsi nelle spalle. Non era un segreto che il mio cuore apparteneva a Hunter Montgomery. Ero innamorata di lui da quando avevo dodici anni.

    Una suoneria familiare trillò nella mia stanza. Lanciai il sacchetto di popcorn a Emerson e uscii di corsa.

    Atterrai rimbalzando sul letto e afferrai il telefono lasciato lì, con una rapida occhiata al nome sul display prima di rispondere. «Ehi, Lila».

    «Oh, mio dio, Pepper, non ci crederai mai!».

    Sorrisi al suono della voce della mia migliore amica. Frequentava una scuola in California, dall’altra parte del Paese, eppure ogni volta che ci sentivamo era come se il tempo non fosse passato. «Che è successo?»

    «Ho appena finito di parlare con mio fratello».

    Mi si strinse il cuore sentendo menzionare Hunter. Per quanto folle potesse sembrare, la mia cotta per lui era stata una delle ragioni per cui mi ero iscritta alla Dartford. Non che non fosse un istituto grandioso. Quando una vocina in fondo alla testa mi ricordava che c’erano altre scuola titolate là fuori, sceglievo di ignorarla. «E?», la incalzai.

    «Lui e Paige si sono lasciati».

    La mano si strinse più forte sul telefono. «Dici sul serio?». Hunter aveva incontrato Paige il secondo anno e da allora erano rimasti sempre appiccicati. Iniziavo a temere che diventasse la futura signora Montgomery. «Perché?»

    «Non lo so… vogliono tipo uscire con altra gente. Ha detto che è stato consensuale, ma chi se ne frega? Il punto è che mio fratello è single per la prima volta negli ultimi due anni. È la tua occasione».

    Era la mia occasione.

    L’eccitazione ronzò dentro di me per qualche secondo, prima di morire di colpo. Poi subentrò il panico. Hunter era libero. Finalmente. Aspettavo quel momento da sempre, ma non ero pronta. Come farmi notare da lui? Per quanto lo riguardava, ero la migliore amica della sua sorellina. Fine della storia.

    «Oh! Devo scappare», mi stava dicendo Lila all’orecchio. «Ho le prove, ma ci risentiamo più tardi».

    «Sì». Annuii come se potesse vedermi. «Ti chiamo dopo».

    Rimasi per un lungo istante seduta sul letto, il telefono nella mano molle. Dalla stanza accanto venivano le risate di Emerson e Georgia mescolate a Dancing Queen. Fu un istante lugubre. Quel che desideravo da tanto tempo era finalmente diventato realtà. E io non avevo la minima idea di cosa fare.

    Emerson aprì la mia porta scheggiata. Si buttò sulla mia sedia. «Ehi. Sto per finirti i popcorn». Agitò il sacchetto verso di me. Quando mi vide in faccia le si smorzò il sorriso. «Qualcosa non va?»

    «Si sono lasciati», mormorai, le dita che giocherellavano sulla bocca, picchiettandola con energia nervosa.

    «Come? Chi?»

    «È single. Hunter è single». Scossi la testa, come se non riuscissi ancora a crederci del tutto.

    Spalancò gli occhi. «Georgia, vieni qui! Svelta!».

    Georgia apparve strofinandosi i capelli con l’asciugamano. «Che succede?»

    «Hunter è single», spiegò Emerson.

    «Scherzi! Niente più Paige?».

    Annuii.

    «Be’. È la tua occasione». Emerson rimbalzò sul letto al mio fianco. «Qual è il piano?».

    Battei le palpebre e tesi una mano con aria impotente. «Non ce l’ho». Il piano era che lui si innamorasse di me. Questo era il sogno. Questo era ciò che succedeva nei romanzi d’amore. In qualche modo. Chissà come. Doveva succedere questo. Non avevo mai saputo come. Solo che sarebbe successo.

    «Che devo fare?». Le guardai, inerme. «Vado a casa sua, busso alla porta e gli faccio la dichiarazione?».

    Georgia inclinò la testa da una parte. «Uhm. Io direi di no».

    «Già. Troppo sfacciato». Emerson annuì come se il mio suggerimento fosse stato legittimo. «Non c’è abbastanza mistero. Agli uomini piace inseguire».

    Georgia alzò gli occhi al cielo e sbuffò, sardonica. «Da che pulpito».

    Emerson sembrò offesa. «Ehi, conosco le regole del gioco. Quando voglio che mi diano la caccia, lo fanno».

    Era proprio quello il problema. Io non conoscevo le regole. Non sapevo come fare qualsiasi cosa che potesse attirare un ragazzo. Non flirtavo. Non uscivo con nessuno. Non pomiciavo e non scopavo con ragazzi scelti a caso come altre.

    Seppellii la testa tra le mani. Perché non ci avevo pensato prima? Un po’ d’esperienza sulle spalle avrebbe potuto aiutarmi a conquistare Hunter. Ero piuttosto sicura di baciare male. Almeno così aveva detto Franco Martinelli a tutta la seconda superiore, dopo che avevamo

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