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Un grappolo d’uva
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E-book249 pagine3 ore

Un grappolo d’uva

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Info su questo ebook

Marzo 1338, Patriarcato di Aquileia. Nel villaggio denominato La Poltabia, propaggine estrema del feudo abbaziale di Moggio, la scoperta del cadavere di un uomo colpito mortalmente alle spalle indirizza i sospetti sulla giovane moglie Sabina e su padre Stephan, il frate benedettino confessore della ragazza. La situazione si complica quando, a distanza di pochi giorni, avviene un secondo fatto di sangue, caratterizzato ancora da un colpo mortale sferrato alle spalle a un boscaiolo che, nottetempo, si dilettava a intagliare il legno.
Martino da Fior, già protagonista dei precedenti racconti, assiste il giovane Comandante abbaziale Polesel di Borgoricco nelle investigazioni, tese a ricostruire i fatti accaduti e a individuarne i colpevoli. In questa ricerca della verità, prezioso sarà l’aiuto di un monaco agostiniano, abile medico e cerusico, padre Clod, un’anima in pena, faticosamente alla ricerca del suo posto nel mondo.

Sergio Faleschini è nato nel 1953 a Pontebba, in provincia di Udine.
Compiuti gli studi classici, si è laureato in Filosofia a Trieste nel 1976.
Abilitato all’insegnamento di materie letterarie, si è dedicato fino al 2018 alla professione di docente negli istituti scolastici statali dell’alto Friuli.
Ambientati in epoca medievale nella sua terra d’origine i due precedenti romanzi Una ciotola di noci (2021) e La casa del Graben (2022).
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2023
ISBN9788830680760
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    Anteprima del libro

    Un grappolo d’uva - Sergio Faleschini

    Premessa

    Il racconto che segue ci riporta, come nei due romanzi precedenti Una ciotola di noci (2021) e La casa del Graben (2022), all’interno del Patriarcato di Aquileia. Siamo nel XIV secolo. La narrazione, ancora sotto forma di giallo, è ambientata in un lembo del territorio periferico del potente Stato aquileiese e precisamente nel villaggio denominato La Poltabia, borgo posto sulla linea di confine con le terre imperiali.

    Il romanzo è corale; alcuni personaggi sono ricorrenti, altri nuovi. Tra questi, due personalità complesse e dai tratti caratteriali quasi opposti. Casualmente provengono dallo stesso luogo, ma hanno esperienze di vita e di lavoro molto diverse, accumunate, però, da una caratteristica comune: sono due anime in fuga, due vittime dell’irragionevolezza, della rigidità di pensiero, del pregiudizio.

    Uno fugge da una visione miope e autoritaria della Chiesa cattolica trecentesca, indisponibile ad uscire dalle ristrettezze dottrinali e restia a modificare e rivedere i propri canoni, l’altro è ricercato dall’autorità della Repubblica di Venezia, accusato di una colpa della quale è innocente, ma impossibilitato a dimostrarne la sua estraneità.

    Due fughe da due autorità diverse, ma non per questo dissimili nel comportamento che, nella storia, sembra avere, da sempre, il tratto costante ed ineliminabile della repressione.

    Il primo personaggio che s’incontra nella lettura è un giovane monaco agostiniano. Ha preso da poco i voti, divenendo diacono, ma è anche un valente medico e un abile chirurgo. La sua adesione profonda e convinta al messaggio evangelico non ha trovato spazio all’interno del severo governo della Chiesa cattolica, incapace di conciliare la cura dell’aspetto spirituale con le esigenze più materiali e terrene della vita di ogni giorno, particolarmente problematica e disagevole per le classi più basse della società del tempo. Lo scontro con la gerarchia ecclesiastica, che imponeva il divieto di praticare l’arte medico-chirurgica a chi avesse preso i voti maggiori, non tarda ad arrivare.

    L’impedimento, ribadito da più di un Concilio tra il XII e il XIII secolo ed inserito nei canoni che per la Chiesa cattolica hanno forza di legge, traeva origine dall’idea che i ministri di culto dovessero interessarsi unicamente ai bisogni spirituali del malato, lasciando ad altri il compito e la cura dell’assistenza fisica. Dipendeva, poi, dalle varie e diverse interpretazioni delle norme, l’applicazione più o meno rigida del divieto.

    Nessuna forma di tolleranza, invece, era prevista per la dissezione dei cadaveri, considerata anzi un sacrilegio, in quanto il corpo umano era fatto ad immagine e somiglianza di Dio. E il nostro giovane cerusico, convinto che il corpo umano altro non sia che un meccanismo perfetto, dentro il quale possiamo trovare traccia della potenza creatrice di Dio, continuerà i suoi studi, contravvenendo ad un divieto ecclesiastico assai severo e pericoloso per le conseguenze che prevedeva.

    L’altro personaggio, lo speziale (farmacista diremmo oggi) rappresenta, invece, la difficile condizione degli ebrei nel Medioevo cristiano. La sua vita è stata caratterizzata da continui spostamenti, alla ricerca di una sicurezza che non è riuscito mai a raggiungere. Figlio di ebrei germanici, fuggiti da uno dei tanti pogrom avvenuti nel territorio europeo, avverte l’avversione del mondo circostante nei suoi confronti come un incubo misterioso e terrificante che aleggia sulla sua esistenza, dovunque lui vada, comunque lui si comporti. Nella sua personalità prende forma la figura di chi vive una colpa senza averla commessa, di chi si sente respinto e perseguitato solo perché appartenente ad un contesto culturale, ideologico, religioso o etnico diverso e, condizione disagevole e pericolosa allora come oggi, minoritario.

    L’antisemitismo, anche se il termine si afferma nel linguaggio comune solo verso la fine del XIX secolo, utilizzato giornalisticamente all’interno di un’insistente campagna di stampa antiebraica, rimane una delle più longeve forme di odio razziale che si conoscano nella storia degli uomini. È una costante sociale, ricorrente da molto più di due millenni, sia che la si intenda come un rifiuto aprioristico nei confronti dell’etnia, sia che la si consideri come una forte avversione culturale e religiosa nei confronti del popolo ebraico, oggetto di violenta ostilità non solo per quello che crede e per come si comporta, ma per quello che è.

    Nella cultura greca e poi in quella romana i popoli conquistati o gli stranieri erano considerati nemici per definizione; dovevano adeguarsi, sottomettendosi e rinunciando alla loro specificità. Il popolo ebraico, storicamente fiero ed orgoglioso delle sue tradizioni, resistette, nei vari secoli, ad ogni tentativo di omologazione, rimanendo fortemente e fieramente legato, sia nella forma che nella sostanza, alla sua identità. È questo uno dei motivi, storicamente attendibile, anche se non esaustivo, del perché la storia del popolo ebraico, dalla diaspora antica fino al terribile olocausto del primo novecento, sia stata costellata di provvedimenti restrittivi, emarginazioni, accuse ingiustificate ed infamanti, seguite da persecuzioni, espulsioni e genocidi. Dopo la presa di Gerusalemme e la distruzione del tempio come conseguenza dell’invasione romana ad opera dell’imperatore Tito (70 d.C.), la popolazione ebraica fu definitivamente costretta a disperdersi nell’area del bacino del mediterraneo, insediandosi sulle coste africane, ma più massicciamente nel continente europeo dove fu accolta con sospetto, fastidio e una forte dose di xenofobia, appesantita dallo stereotipo dell’ebreo inaffidabile, menzognero, approfittatore e, soprattutto, deicida.

    Per i lunghi secoli del Medioevo tale atteggiamento non mutò; al contrario, divenne sempre più radicato con frequenti esplosioni di emarginazione e violenza. Gli ebrei, particolarmente dopo l’inizio delle cosiddette crociate (XI e XII secolo), continuarono ad essere oggetto di un generico atteggiamento di ostile rifiuto che portò a spontanee azioni collettive e spesso a disposizioni legislative che, a seconda dei momenti storici e delle diverse aree geografiche, andavano da una più pesante imposizione fiscale a restrizioni per l’esercizio di alcune professioni, all’impossibilità di frequentare le università del tempo, alla ghettizzazione e di lì, gradualmente, all’espulsione o, spesso, alla loro eliminazione fisica.

    Nell’immaginario collettivo medievale, gli ebrei sono i nemici, facili bersagli di soprusi e violenze, capri espiatori nei momenti di difficoltà economica e sociale. A loro si attribuiscono le responsabilità di tutto ciò che accade di negativo e spesso sono accusati di comportamenti gravi ed infamanti quali l’omicidio rituale di bambini o la dissacrazione dell’ostia.

    Nel primo caso, scoperto il cadavere di un bambino, senza alcuna prova né indizi, s’incolpava la comunità ebraica di averlo sacrificato in un rito sabbatico, infliggendogli tormenti prima di sopprimerlo. Altra accusa era quella di procurarsi un’ostia consacrata e di oltraggiarla, calpestandola, sputandoci sopra o bruciandola.

    Nelle carestie s’incolpavano gli ebrei di razziare i generi alimentari, nelle epidemie di essere i diffusori delle malattie. Eventi atmosferici particolarmente violenti e sconvolgenti potevano essere considerati una punizione divina inflitta agli ebrei e subita ingiustamente anche dai cristiani che vivevano accanto a loro. Ovviamente l’accumulo di un odio coltivato nel tempo e così radicato nella mentalità dell’epoca, portò ad episodi di violenza nei confronti delle comunità ebraiche sparse nei diversi paesi europei.

    Uno di questi episodi viene ricordato nel romanzo, pur senza farne specifica menzione. Si tratta del cosiddetto massacro di Rintfleisch, conosciuto anche come pogrom di Norimberga.

    Avvenne tra la primavera e l’estate del 1298 nella regione tedesca della Franconia. Un gruppo di ebrei di Röttingen, cittadina vicino a Norimberga, furono accusati di aver dissacrato un’ostia, trafugata con un sotterfugio. Una persona del posto, tale Rintfleisch, sostenendo di aver ricevuto l’incarico direttamente da Dio, organizzò un gruppo di volontari, con l’intento di vendicare l’affronto fatto alla comunità cristiana. Il feudatario di Röttingen, che, come riportano le cronache del tempo, aveva contratto debiti con alcuni cittadini ebrei praticanti l’attività di cambio e prestito, non intervenne, come sarebbe stato suo dovere, e lasciò che la violenza si esprimesse in tutta la sua brutalità: gli ebrei che non riuscirono a fuggire furono messi al rogo. Era il 20 aprile 1298.

    La protesta, però, non si esaurì con quel truce episodio; nelle settimane e nei mesi successivi si estese ai centri limitrofi con esiti altrettanto nefasti. Quella di Rintfleisch, in poco tempo, era diventata una banda numerosa e feroce, interessata a colpire quanti più ebrei possibile per impossessarsi dei loro beni; alla fine di luglio attaccò militarmente la fortezza della città di Norimberga, dove gli ebrei avevano cercato rifugio. Dopo brevi ed impari combattimenti, la fortezza venne occupata con la forza il 1° agosto e tutti gli ebrei furono uccisi. La follia omicida non si fermò, ma continuò ad espandersi in gran parte della regione. Pochi furono gli episodi in cui la minoranza ebraica fu protetta dalla popolazione; e tutti con esiti negativi, considerando che, alla fine, gli ebrei uccisi superarono, secondo le cronache del tempo, le 20.000 unità.

    L’imperatore Alberto I d’Asburgo, preoccupato della crescente forza militare che stava assumendo Rintfleisch, considerato inaffidabile e soprattutto non allineato alla politica imperiale, diede ordine di sciogliere la banda con la forza e fece impiccare il suo capo.

    Le violenze terminarono, ma gli ebrei superstiti capirono che l’odio nei loro confronti era accresciuto a dismisura e che le persecuzioni e i tentativi di annientamento delle loro comunità sarebbero continuati. Una parte consistente di loro decise di abbandonare il suolo imperiale e si rifugiò prevalentemente a sud; molti si stabilirono nella penisola italiana.

    Capitolo 1

    Quae regio in terris nostri non plena laboris?

    Virgilio, Eneide, I, 459-460

    Quale posto esiste mai sulla terra

    che non sia pieno dei nostri affanni?

    Venezia, Chiesa di Santo Stefano

    sera di venerdì 6 marzo 1338

    Fratello Clod a colloquio con il Priore

    Una solida, ma stretta passerella di legno collegava il monastero degli Eremitani di sant’Agostino con l’attigua chiesa di santo Stefano. La giornata era ormai conclusa; una pioggerellina leggera, agitata da un fastidioso scirocco, aumentava la sensazione d’umidità, tipica di quel luogo e di quell’inizio di primavera.

    Avvolto in uno scuro mantello di panno grezzo, il frate camminava a passi veloci, temendo di essere in ritardo; l’invito a recarsi in chiesa in orario così inusuale lo aveva sorpreso non poco, lasciandogli ipotizzare soltanto in maniera vaga il motivo di quella strana ed urgente convocazione.

    A pochi passi dall’entrata laterale della chiesa, scorse una figura incappucciata che occupava lo spazio tra lo stipite sinistro e il massiccio portoncino di larice, semichiuso. La luce lunare, stranamente intensa nonostante da ore scendesse una pioggia fine, non consentiva comunque di scorgere i particolari d’intorno in quella serata, nata all’insegna dell’inquietudine mista a curiosità.

    Vieni fratello Clod; entriamo in chiesa. sussurrò una voce calda e stanca, specchio di un’età avanzata.

    Sia lodato Gesù Cristo, Priore. Spero di non essere in ritardo; ho dovuto aspettare il momento propizio per uscire dal convento senza essere visto, perché …

    Hai fatto bene; – lo interruppe il vecchio frate, indirizzandosi verso l’interno della chiesa, dopo aver richiuso con cura il pesante portoncino – io, intanto ho pregato, ho messo a buon frutto quest’attesa, chiedendo l’aiuto del Signore.

    È successo qualcosa di grave?

    Qualcosa è successo! E dovevamo aspettarcelo.

    Non tenetemi sulle spine, Priore. Ditemi!

    Prima raccogliamoci assieme in preghiera, fratello mio. Ci servirà a preparare il nostro animo a decisioni non facili, ma doverose.

    I due eremitani s’inginocchiarono su un bancone della navata di destra, in posizione protetta da improbabili, ma eventuali sguardi ed orecchi indiscreti e strumentalmente curiosi.

    Pochi, ma intensi furono i minuti di raccoglimento, interrotti dalla voce calma e gentile del più giovane dei due frati.

    I vostri bronchi e forse i vostri polmoni, mio Priore, hanno bisogno di cure urgenti; il respiro è faticoso e rumoroso. Lasciate che io vi …

    Ti ho fatto venire qui, forzando la nostra regola e il nostro costume, perché ho ricevuto una lettera da padre Guglielmo da Cremona.

    Il nostro Priore Generale?

    Proprio lui! È stato informato dal nostro Provinciale di una denuncia nei tuoi confronti.

    Fratello Clod appoggiò il mento sulle mani giunte, socchiudendo gli occhi.

    A tanto sono arrivati, dunque. commentò.

    Non giudicare i nostri confratelli; voglio pensare che abbiano agito in purezza di cuore, temendo per la tua anima.

    Può essere così, ma intanto mi hanno denunciato al Provinciale.

    Sono venuti prima da me, più volte. Tu, Clod, hai delle capacità straordinarie sia come medico che come cerusico, ma la dottrina della nostra santa Madre Chiesa impedisce ai presbiteri come noi di praticare l’arte medica e in maniera ancor più drastica quella chirurgica; a quanto pare non son riuscito a dissuaderti dal proseguire in questa tua attività proibita.

    È una visione miope, mio Priore; noi esseri umani abbiamo un’anima spirituale, immortale, e un corpo materiale, corruttibile e mortale. Ambedue sono doni preziosi di Dio Padre Onnipotente e vanno curati con amore, difendendoli e prendendosene cura col massimo impegno possibile.

    Noi dobbiamo limitarci alle cure spirituali, fratello Clod. E tu lo sai bene. Ci sono canoni conciliari, bolle e decretali papali che non lasciano dubbi: a chi veste l’abito degli Ordini maggiori, come noi, è severamente vietata l’arte medica. Ne abbiamo già parlato. Io conosco il tuo pensiero, tu il mio. Come tuo superiore ti ho prima pregato, poi ammonito, alla fine ti ho imposto di rinunciare a questa pratica…

    … che sento essere la missione della mia vita, Priore.

    Fratello Clod! L’umiltà e l’obbedienza rimangono capisaldi della nostra appartenenza all’ordine.

    Lo sono anche il conforto e l’aiuto ai più poveri e bisognosi che non possono permettersi nemmeno le cure più semplici e muoiono per malattie facilmente curabili o perché non prestamente soccorsi.

    Offri al Signore questa tua rinuncia come segno dell’amore che hai per Lui. disse il vecchio frate, volutamente eludendo una risposta all’ultima affermazione.

    Mio Priore! – riprese fratello Clod con fare tranquillo, ma determinato – Sapete bene il profondo legame che ho con l’ordine di noi Eremitani e il debito di gratitudine per tutto ciò che indegnamente ho ricevuto, ma altrettanto forte rimane dentro di me l’insegnamento del nostro amato e venerato sant’Agostino, ispiratore della nostra Regola.

    Ne abbiamo già parlato, fratello mio irriducibile. Possibile che tu non riesca a fartene una ragione?

    La vita di sant’Agostino è una continua ricerca della verità, che è Dio. Sono i vostri insegnamenti, Priore!

    Il vecchio frate comprese che ciascuno di loro due seguiva un suo pensiero, rinunciando con studiata ostinazione ad agganciarsi a quello del suo interlocutore. Forse perché l’uno intimamente condivideva le posizioni dell’altro, ma non poteva adeguarvisi. Accennò, quindi, ad un impercettibile sorriso; ammirava frate Clod del quale aveva percepito fin dall’inizio l’intelligenza inquieta di chi non si ferma di fronte alle difficoltà. Rivedeva in lui il suo desiderio e la sua ansia giovanile di condurre il pensiero sugl’impervi terreni della morale e della metafisica, esigenze piegate gradualmente ed inesorabilmente dall’obbedienza all’Ordine. Invidiava in fratello Clod quel suo infaticabile e pervicace percorrere la strada nella direzione di ricercare la verità, anche quando il percorso si fa faticoso, accidentato o addirittura pericoloso. Quella determinazione, quella incrollabile convinzione del dover cercare comunque e dovunque, risvegliavano in lui un duplice sentimento di benevolenza e rammarico. Benevolenza e comprensione nei confronti del più giovane confratello rispetto al quale il desiderio di protezione era molto sentito; rammarico per la sua rinuncia troppo repentina alle proprie convinzioni, del tutto simili a quelle che in quel momento era suo compito contrastare.

    "Agostino – proseguì fratello Clod – ci ricorda in tutta la sua opera che Dio è amore. È un Dio che ha scelto di entrare nella storia umana, inviandoci suo figlio con lo scopo di allontanare il male dalla nostra vita e di spingerci alla ricerca della via del bene, più facile da trovare accanto ai poveri, ai fratelli in difficoltà, bisognosi del nostro aiuto. Come noi non possiamo fare a meno dell’aiuto di Dio, a nostra volta lo dobbiamo offrire al nostro prossimo. E se siamo un’anima celeste avvolta in un corpo umano corruttibile e mortale, perché mai non dovremmo curare il contenitore così come ci prendiamo cura del contenuto?

    So che ne abbiamo parlato a lungo, mio buon Priore, ma è un discorso che non abbiamo mai concluso, una domanda alla quale non abbiamo dato ancora una risposta convincente. Sì, canoni e decretali c’impongono di non professare l’arte medica e quella chirurgica, di non allontanare il male dal corpo umano pur potendolo fare, di non compiere un atto d’amore nei confronti di fratelli che soffrono, ma … non ci dicono il perché. Conforta spiritualmente il fratello morente, ma non far nulla per lenire le sue sofferenze o forse guarirlo da ciò che lo sta uccidendo: questo ci dice oggi la Chiesa. È come se Dio Onnipotente ci avesse donato solo l’anima celeste e non anche il corpo mortale."

    Uno dei due mozziconi di candela accesi sul massiccio candelabro posto davanti ai due si spense, quasi a sancire la conclusione di quel lungo ed appassionato discorso.

    Il vecchio Priore rimase turbato, come tutte le volte in cui fratello Clod gli aveva presentato quelle argomentazioni che in cuor suo condivideva da sempre. Anche lui era stato un abile cerusico in gioventù, quand’era un semplice frate, non ancora presbitero; poi, nel momento in cui la posizione della

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