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I preti della resistenza
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E-book294 pagine4 ore

I preti della resistenza

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Info su questo ebook

Chi dice che non si puo combattere il fascismo con la tonaca?

Chiunque sostenga che gli uomini di chiesa devono essere miti e moderati, non ha mai conosciuto Félix Kir: parroco ed eroe della resistenza francese. E probabilmente non ha mai sentito parlare dell’arcivescovo Damaskinos che, minacciato dal plotone d’esecuzione dai nazisti, rispose: «Vi prego di rispettare le nostre tradizioni. Sono secoli che in Grecia impicchiamo i nostri arcivescovi». Che viaggino lungo le strade di campagna a bordo di un carro armato o vengano colpiti da un proiettile per salvare una scolaretta innocente, queste quindici persone straordinarie dimostrano come si può lottare strenuamente per le proprie idee anche indossando una tonaca. Ovunque il fascismo abbia messo radici, ha incontrato resistenza. Da Atene durante la guerra all’Alabama degli anni Sessanta; dalla Francia di Vichy alla dittatura militare in Brasile. Queste incredibili storie di coraggio ci ricordano che è importante opporsi a chi crede che l’odio sia più forte del rispetto verso l’altro.

Le incredibili storie vere degli uomini di chiesa che hanno deciso di opporsi ai fascismi e alle ingiustizie in tutto il mondo

«Durante la seconda guerra mondiale un manipolo di religiosi si è distaccato dalle indicazioni della Chiesa e si è opposto al fascismo. Ce ne fossero stati di più!»
Matthew Cobb

«Un resoconto appassionante e inedito sull’eroismo di alcuni uomini di chiesa che sfidarono il male.»
The Observer

«Commedia e tragedia si intrecciano in questo libro davvero trascinante.»
The Times

«Un ammirevole studio su alcuni preti che vissero proprio in prima linea.»
BBC History Magazine

«Una miniera di storie che meritavano di essere raccontate.»
The Spectator
Il reverendo Fergus Butler-Gallie si è laureato in Storia a Oxford e in Teologia a Cambridge e ha prestato servizio a Liverpool. I preti della resistenza è stato libro dell’anno per lo «Spectator».
LinguaItaliano
Data di uscita5 nov 2021
ISBN9788822741400
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    I preti della resistenza - Rev. Fergus Butler-Gallie

    687

    Titolo originale: Priests de la Resistance: The Loose Canons

    Who Fought Fascism in the Twentieth Century

    © Fergus Butler-Gallie 2019

    This translation is published by Newton Compton Editori s.r.l

    by arrangement with Oneworld Publications.

    Traduzione dalla lingua inglese di Adriana Cicalese

    Prima edizione ebook: novembre 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4140-0

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    Rev. Fergus Butler-Gallie

    I preti della Resistenza

    Newton Compton editori

    Ai miei nonni, che vissero nei tempi bui qui narrati

    e che mi incoraggiarono ad alimentare

    le mie due grandi passioni: la storia e la speranza.

    Indice

    Introduzione

    resistenti per antonomasia

    Francia

    Canonico Félix Kir

    Abbé Pierre

    la resistenza agli albori del fascismo

    Germania

    Clemens August von Galen, conte e vescovo di Münst

    Dietrich Bonhoeffer

    Italia

    Don Pietro Pappagallo

    la resistenza nelle nazioni occupate

    Cecoslovacchia

    Il vescovo Gorazd di Praga

    Polonia

    San Massimiliano Kolbe

    Ungheria

    Suor Sára Salkaházi

    Paesi Bassi

    Il cardinale de Jong, Koeno Gravemeijer e santa Edith Stein

    Grecia

    Madre superiora Alice Elisabetta, principessa Andrew di Grecia e Danimarca

    Arcivescovo Damaskinos di Atene e di Grecia

    chiamati alla resistenza

    Irlanda

    Monsignor Hugh O’Flaherty

    Gran Bretagna

    Jane Haining

    la resistenza dopo il 1945

    Stati Uniti

    Pastore Fred Shuttlesworth

    Seminarista Jonathan Daniels

    Epilogo

    Approfondimenti

    Introduzione

    Guerra, testimonianze e situazione attuale

    C’è una storia che riecheggia per le birrerie di Praga. Fa parte dell’atmosfera della città, come le volute di fumo di sigaretta e gli immancabili anziani radunati in un angolo (pronti, se il lettore è disposto a pagare un giro di bevute, a riferire essi stessi il racconto – con tanto di dichiarazione giurata con cui affermano di aver conosciuto gente che ha assistito ai fatti – sebbene si sia trattato quasi sicuramente dell’invenzione di un romanziere cecoslovacco). La storia narra di un episodio avvenuto durante l’occupazione nazista di Praga, poco tempo dopo che Reinhard Heydrich, capo della Gestapo, venisse messo alla guida del protettorato di Boemia e Moravia, nel 1941. Heydrich era forse il membro più zelante di tutto il comando nazista – persino Hitler aveva commentato la sua totale mancanza di pietà, definendo l’imponente sassone «l’uomo dal cuore di ferro». Era totalmente votato all’ideologia nazista e il suo dominio su Praga doveva essere la prova generale di come i territori appena conquistati sarebbero stati amministrati una volta ottenuta l’inevitabile vittoria del fascismo. Heydrich si dedicò al suo compito con grande entusiasmo, mostrando un’efficienza sofisticata e brutale nel consegnare all’oblio luoghi e persone.

    Una parte determinante del programma di Heydrich era dimostrare la superiorità della cultura teutonica del Reich rispetto a tutte le altre – ma soprattutto rispetto alle culture degenerate slave ed ebree, entrambe presenti in abbondanza nella città di Praga. Come si addice alla patria di Don Giovanni, Praga ospita una miriade di teatri dell’opera, auditori e sale concerti. Il più grande di questi è probabilmente il Rudolfinum, un edificio a forma di fienile, col tetto circondato da statue di compositori che con sguardo scontroso si affacciano sul fiume Moldava dalla fine del diciannovesimo secolo. Secondo la storia, Heydrich venne a sapere che tra questi inanimati virtuosi vi era un Mendelssohn di pietra, un compositore disprezzato dal Führer per le sue origini giudaiche. Pertanto il Reichsprotektor ordinò la distruzione dell’oltraggiosa scultura. A tale scopo venne inviato alla sala concerti un gruppo di soldati, ma quando questi chiesero quale fosse la statua di Mendelssohn, si scontrarono con le labbra serrate dei custodi dell’edificio (che, naturalmente, erano anche frequentatori abituali di qualunque locale in cui il lettore avesse scelto di farsi raccontare la storia). Indispettiti, i soldati ricorsero alla proverbiale logica nazista e, dopo qualche ricerca, produssero un metro da sarto con cui si accinsero a misurare i nasi di ciascuna statua. Stabilito quale musicista fosse in possesso della protuberanza più consistente, cominciarono a demolirlo, ma un astante iniziò a urlare che la statua che stavano distruggendo era in realtà quella di Richard Wagner, il compositore preferito di Hitler.

    Vera o falsa che sia questa storia, evidenzia alcuni aspetti del fascismo indubbiamente reali. Innanzitutto la sua incredibile meschinità. Che uno dei più importanti funzionari di quello che doveva essere un Reich millenario, destinato a espandersi per i continenti e a cambiare radicalmente e per sempre la società, decidesse di perdere tempo con l’estetica di una sala concerti è sorprendente. Questo è uno dei motivi per cui il personaggio del fascista, da Il grande dittatore di Chaplin a Eric Cartman di South Park, è sempre stato dipinto in maniera ridicola. Difficile non ridere di fronte alla banalità di tutta la faccenda. Tuttavia la banalità, come ha notoriamente evidenziato Hannah Arendt, è uno degli aspetti più inquietanti dell’ideologia totalitaria. Preoccuparsi dell’identità di un gruppo di statue vecchie di sessant’anni è assurdo, ma passare all’azione e poi ordinare, come se niente fosse, il massacro di migliaia di essere umani è agghiacciante. Questa tendenza è andata oltre la particolare forma di totalitarismo sopra descritta – dalle misteriose e complesse fila del Ku Klux Klan fino alla propensione dei dittatori a perseguire vendette personali contro gente molto meno pericolosa di loro. Con una tale ossessione per le inezie, ridicola e terribile al tempo stesso, non sorprende che molta della resistenza al fascismo sia fatta di piccoli atti di sfida – il pane preso di nascosto, rifiutarsi di fare il saluto, salvare una vita. Un minuscolo atto di resistenza è sufficiente a dimostrare che la vittoria del totalitarismo non è, di fatto, totale, e che non riuscirà mai a conquistare tutto.

    In secondo luogo, e solo in apparente contrasto, ci mostra l’ampio credito che il fascismo attribuisce alla propria narrazione storica e culturale e all’enorme e necessaria funzione di questa narrazione. Non si tratta, ovviamente, di una caratteristica tipica solo dei movimenti fascisti – quasi ogni figlio della Rivoluzione francese (i cui partecipanti, non dimentichiamolo, cercarono di dar luogo all’Anno zero, creando un nuovo calendario i cui giorni si chiamavano come cesti di frutta e aragoste) ha cercato di riscrivere la storia come un inesorabile percorso verso il momento di gloria. L’unico problema di questo esercizio storiografico è che ci si ritrova a confrontarsi con cose, idee, persone che non necessariamente combaciano con le proprie aspettative. Un tale scenario offre due alternative: o si modificano questi ostacoli per adeguarli alla narrazione, oppure si prova a eliminarli del tutto. Qualunque sia la scelta, si tratta di un compito arduo per chiunque, figuriamoci per degli squilibrati teutonici ossessionati dai decori architettonici o per dei tracagnotti del Midwest avvolti in delle lenzuola; eppure, sia che avvenga attraverso la mediazione del Kulturkammer o la disinformazione delle Fake News, questa riscrittura e riformulazione della narrazione resta un passaggio chiave per i progetti fascisti.

    In senso lato, il fascismo è un fenomeno dell’Occidente e, tra gli scheletri dentro l’armadio culturale dell’Occidente, non c’è dubbio che il cristianesimo si erga come uno dei più imponenti. Il rapporto tra cristianesimo e fascismo è molto complesso nonché argomento di numerosi tomi ben più corposi di questo. I cristiani sono stati indubbiamente complici dei progetti fascisti, sia nella riscrittura del passato che nei suoi orribili tentativi di creare un futuro nuovo. Spesso il cristianesimo è visto come una religione docile e clientelare, la cui storica associazione con la cultura occidentale ne fa un alleato facile da cooptare. Dall’Ustascia in Croazia alla Chiesa del Reich in Germania, dagli attivisti del passato agli apologeti del presente, esistono numerosi esempi di cristiani, religiosi e laici, convinti di come l’appoggio e la diffusione di sistemi politici che si esprimono mediante un autoritarismo esclusivista e radicale siano funzionali alla creazione del Regno di Dio, oppure che il motto «dare a Cesare quel che è di Cesare» autorizzi a concedere carta bianca al silenzio di fronte alle persecuzioni dei figli di Dio. Questo libro non intende minimizzare figure così complesse ma, attirando l’attenzione su chi agì in maniera eccezionale, vuole dimostrare quanto fossero e continuano a essere nel torto.

    Anche all’interno dei movimenti fascisti (e in molte altre ideologie totalitarie) c’è chi ha compiuto notevoli sforzi per fare del cristianesimo un alleato arrendevole e conciliante. In sostanza il nazismo considerava il cristianesimo come una distrazione dai propri obiettivi, ma che talvolta poteva tornare utile. È noto come i nazisti intendessero relegare le donne alle tre K – Kinder, Küche, Kirche (bambini, cucina, chiesa). A riprova delle loro idee sul cristianesimo c’è il fatto di non aver pensato che proprio per questa dedizione alla Chiesa e ai bambini, molte donne decisero di opporsi con decisione agli orrori del regime. Nessuno, a quanto ne sa l’autore, è entrato a far parte della Resistenza contro il fascismo per ragioni culinarie (sebbene il canonico Félix Kir, cui è legata la fama del Kir Royal, avrà di sicuro avuto le sue opinioni sulla superiorità della cucina francese). In privato Hitler esprimeva disprezzo per la remissività e la debolezza della fede cristiana e giurava che un giorno avrebbe «fatto barcollare la Chiesa sulle corde», giorno che, grazie anche al fatto che le persone agirono secondo i precetti cristiani di debolezza e remissività, non arrivò mai.

    Il fascismo dei nostri giorni (sia esso in Ungheria, Francia o Stati Uniti) ha compiuto più di uno sforzo congiunto per adottare il cristianesimo nei propri appelli e proclami. Eppure, ancora una volta, viene adottato come identità etnografica piuttosto che religiosa – con sostenitori del fascismo moderno intenti a difendere la cristianità occidentale dai suoi nemici. Ci sono due squisiti paradossi in questo. Primo, in base a numerose stime, tra il 60 e il 70 per cento di tutti i cristiani ormai vivono fuori dall’Occidente: la Nigeria ha più del doppio del numero di protestanti della Germania e il Brasile ha più del doppio dei cattolici rispetto all’Italia. Sin dai secoli bui, l’Occidente non è mai stato così a-cristiano – il Sud del mondo, al contrario, non è mai stato così cristiano come lo è oggi. Identificare la cristianità con l’Occidente, quindi, è un po’ come identificare il calcio con l’Inghilterra – certo, ci sono legami storici, ma non si può certo urlare ai quattro venti che si tratta della sua patria. In secondo luogo, sin dai tempi di san Paolo, la cristianità ha avuto come principio chiave del suo insegnamento (anche se, purtroppo, non sempre nella pratica) un’assenza di distinzione etnica. Paolo ha scritto che «non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo». In realtà, parte essenziale del successo demografico del cristianesimo, nonché spinta fondamentale alla nascita delle ideologie secolari dell’Illuminismo, è stata l’aver rifiutato l’idea che il diritto alla verità appartenesse a un particolare gruppo etnico.

    Inevitabilmente, però, i fascisti del passato e del presente hanno architettato e continuano ad architettare acrobazie intellettuali volte ad aggirare questi dogmi e, in modo altrettanto inevitabile, si sono dovuti scontrare e continuano a scontrarsi con la figura di Gesù Cristo. Per prima cosa, devono minimizzare i suoi insegnamenti: «Ama il prossimo tuo come te stesso», «Beati gli operatori di pace», le parabole del figliol prodigo, del servo spietato e del buon samaritano sono tutti intralci piuttosto grossi per qualsiasi sistema politico basato sul restringimento dei rapporti di buon vicinato, sul rifiuto della riconciliazione e la propagazione della violenza arbitraria. Ma si scontrano con lui attraverso le migliaia di semplici cristiani che continuano a seguire alla lettera tali insegnamenti. Si scontrano con la figura di Cristo attraverso il prete altisonante che fece saltare in aria le fortificazioni naziste durante l’evasione di alcuni membri della Resistenza; attraverso l’imperioso arcivescovo che condannò apertamente il trattamento riservato agli ebrei e facilitò la fuga e il nascondiglio di migliaia di loro; attraverso il giovane seminarista che si prese una pallottola destinata a una ragazzina di colore il cui unico crimine era quello di voler andare a scuola; o attraverso la mano della missionaria scozzese che strinse calma quella di una bambina ungherese terrorizzata mentre il loro treno entrava ad Auschwitz. Questo libro raccoglie alcune di queste storie, nella speranza che, se il fascismo dovesse tornare ad alzare la testa ancora una volta in Occidente, possa di nuovo scontrarsi con la figura di Cristo.

    RESISTENTI PER ANTONOMASIA

    «Non posso cambiare casacca…»

    Francia

    CANONICO FÉLIX KIR

    Vino bianco e spionaggio

    Era una frizzante mattina di settembre quando finalmente giunse il momento che la gente di Digione aspettava da più di quattro anni. La seconda guerra mondiale non era stata facile per la capitale della Borgogna. Aveva avuto la sua buona dose di violenza, trovandosi vicina sia alla linea di demarcazione con la Francia di Vichy che al confine con la regione dell’Alsazia-Lorena, simbolicamente reincorporata da Hitler alla madrepatria tedesca del Reich. Esecuzioni di massa tedesche e deportazioni con il favore di Vichy, atti di sabotaggio da parte della Resistenza e bombardamenti aerei della forza aerea statunitense – Digione le aveva viste tutte e adesso, finalmente, alle nove e un quarto circa dell’11 settembre 1944, ecco la fine di quegli orrori: la liberazione era ormai così imminente da far quasi assaporare ancora una volta ai suoi cittadini il dolce gusto della libertà.

    Papille gustative a parte (e chiunque abbia assaggiato una cucchiaiata dell’eponima mostarda di Digione o abbia avuto a che fare con la famigerata specialità regionale, l’andouillette, saprà che i borgognesi non sono tipi da sapori delicati), la sentirono arrivare. La città era stata abbandonata dalle forze tedesche così che queste potessero concentrare i loro sforzi sulla difesa del Reich e sull’imminente contrattacco nelle Ardenne. Quattro giorni prima avevano anche distrutto le linee ferroviarie cittadine, quindi le forze di liberazione raggiunsero gli abitanti di Digione dalla strada e poterono guidare un grosso squadrone di carrarmati verso la città, con i motori roboanti, gli equipaggi che chiacchieravano allegramente e una resistenza minima. In linea con la politica imposta per la liberazione delle altre importanti città dal leader de facto francese, il generale de Gaulle, le prime truppe a mettere piede nella Digione libera furono quelle francesi e la prima bandiera a essere issata non fu la bandiera del Regno Unito o quella a stelle e strisce, bensì il tricolore. Anche se l’alto comando alleato aveva accettato i termini stabiliti da de Gaulle, decise, non a torto, di far seguire, a pochi chilometri di distanza, una divisione armata americana, nel caso le cose si fossero complicate. Venne così allestito il palcoscenico per un grande momento di propaganda poiché dei francesi liberi liberavano degli altri francesi. Tuttavia a de Gaulle e ai militari francesi sarebbero state rubate le luci della ribalta, non dal generale Patton e neanche da Hitler, ma da una figura al tempo stesso ancora più formidabile e insolita.

    Quando il rumore dei carrarmati in avvicinamento divenne più forte, alcuni digionesi non riuscirono più a trattenersi e, correndo tra i negozi in rovina e le case bombardate, si diressero verso la colonna dei liberatori. Quello che videro i loro occhi era a dir poco straordinario. Innanzitutto, molte truppe erano composte da soldati delle colonie francesi in Africa, con i loro caratteristici fez rossi e i cappotti dalla foggia elaborata, tanto insoliti per i provinciali abitanti di Digione quanto la loro pelle scura. Eppure il loro aspetto risultava ordinario, in senso positivo, rispetto alla figura seduta in cima a uno dei carrarmati che avanzavano verso la città. In questa marcia trionfale motorizzata il ruolo di Cesare veniva assolto dal canonico Félix Kir – prete, politico, eroe della Resistenza, e famoso a livello mondiale per la sua dedizione all’alcol. Con addosso la sua tonaca da prete, il mantello che gli si gonfiava attorno e il berretto incuneato saldamente sulla testa grassoccia e calva (poiché, se c’era un’identità che per Kir era più importante del suo sacerdozio, era, come vedremo, la nazionalità francese), il canonico Kir faceva ritorno in città da dove, qualche mese prima, era fuggito per mettersi in salvo.

    Se quello spettacolo era senza dubbio insolito, la vista del sacerdote smagrito e dal volto scavato, intento a non perdere l’equilibrio sopra il cofano del rumoroso veicolo mimetico, era un segno lampante, quanto un qualunque sventolio di bandiera o l’intonazione della Marsigliese, che gli orrori del fascismo erano finalmente giunti al termine. Per i precedenti quattro anni e mezzo, Kir era stato l’incarnazione della Resistenza a Digione. Dai quotidiani atti di disobbedienza e i sotterfugi nel suo (autodesignato) ruolo di leader della comunità cittadina fino al suo ruolo attivo nel sabotaggio delle operazioni militari tedesche da parte della Resistenza, Kir aveva visto la morte in faccia numerose volte per la causa della libertà in questo angolo della Borgogna. Ora veniva salutato come un eroe.

    In realtà, dopo aver appreso la notizia che i tedeschi stavano abbandonando Digione, Kir si era già da giorni incamminato a piedi dal suo nascondiglio, in un piccolo villaggio a circa cento chilometri a nord-ovest della città. Quando aveva saputo che il mattino seguente le truppe francesi sarebbero entrate in città, Kir, che come vedremo era un maestro degli atti simbolici, si assicurò subito un posto in cima a un carrarmato, consentendo a fotografi, giornalisti e chiunque preposto a redigere gli annali del mito e della leggenda locali, di immortalarlo per i posteri come liberatore di Digione.

    La città venne così liberata – con scene più simili a ‘Allo ‘Allo che a Band of Brothers. Per quanto ridicolo possa apparire questo aneddoto, Kir non era né un pagliaccio né un ciarlatano. Ma se la volontà di essere al centro della scena quando la sua città d’adozione viene liberata ci mostra un’indubbia furbizia goliardica, ci dà anche un’idea del suo assoluto coraggio. Era un aspetto del carattere su cui non lesinava e, che si trattasse di negare il saluto agli ufficiali tedeschi o di favorire un’evasione, di ingannare i funzionari nazisti per tutelare i beni degli ebrei o di prendersi diversi proiettili da un potenziale assassino fascista, lo avrebbe manifestato di continuo durante tutto il periodo infernale dell’occupazione tedesca.

    Ci sono pochi dubbi su cosa alimentasse in Kir tanta astuzia e coraggio: possedeva senz’altro un’incrollabile fiducia in se stesso, ma, ancora di più, aveva una solida fiducia in Cristo. La Resistenza francese era, per forza di cose, un’accozzaglia di individui uniti dalla volontà di combattere il fascismo. Kir si trovò così a dover fare spesso causa comune con ardenti marxisti che disprezzavano qualsiasi forma di credo religioso. Egli si abituò a replicare con una certa abilità a chi gli domandava come potesse credere a un Dio che non poteva vedere, sfoderando una risposta che avrebbe utilizzato con molti atei nella sua successiva carriera politica: «Be’, non mi puoi vedere il culo, eppure sappiamo che esiste!».

    Nel Vangelo secondo Matteo, Cristo manda in giro i suoi discepoli dicendogli di essere «astuti come serpenti e puri come colombe». C’era indubbiamente della purezza, una qualità quasi infantile, nella fede dogmatica di Kir, eppure, come molti ufficiali tedeschi o collaborazionisti fascisti scoprirono a loro spese, nell’anziano canonico vi era anche l’abile astuzia di un serpente e il coraggio di un leone.

    Félix Kir era nato nel gennaio 1876 nella cittadina di Alise-Sainte-Reine, un comune di poche centinaia di anime a metà strada tra le colline verdeoro coperte di vigneti di Chablis e i tentacolari edifici di Digione. Il padre di Kir era un certo Jules Kir, lo stravagante tuttofare del posto, capace di assolvere il ruolo di barbiere, farmacista, medico e infermiere per i suoi concittadini. Il giovane Félix apprese da lui due cose: primo, che la capacità di calarsi nelle situazioni con suprema disinvoltura autorizzava le persone a svolgere qualsiasi professione, senza tenere conto di banali questioni formali come qualifiche o autorizzazioni; secondo, un amore profondo e granitico per la Francia. La famiglia dell’anziano Kir era giunta ad Alise nell’Ottocento, dalla provincia dell’Alsazia-Lorena, le terre di confine che, solo cinque anni prima, erano state cedute all’emergente impero tedesco nella guerra franco-prussiana. Quando Félix era piccolo, nella sua scuola le cartine geografiche erano rappresentate da la macchia nera, dove i territori sottratti erano stati ridipinti di uno spesso colore nero. Ai bambini francesi della sua generazione veniva insegnato a non perdonare e a non dimenticare.

    Oltre al suo carismatico padre, l’altra figura che aveva forgiato la coscienza del giovane Félix era quella di Vercingetorige, il capo dei Galli, giustiziato da Giulio Cesare mille e novecento anni prima. Vercingetorige ha avuto un ruolo davvero importante nella vita del giovane Félix. Undici anni prima che lui nascesse, l’allora imperatore Napoleone iii aveva ordinato la costruzione di una gigantesca statua raffigurante il guerriero dei Galli seminudo (con la faccia modellata su quella del sovrano) sulla collina sopra Alise-Sainte-Reine che, come Alesia, era stato il sito della disfatta finale dei Galli per mano di Cesare nel 52 a.C. Quando con gli amici giocava a reinterpretare lo scontro di civiltà, le parole tratte dal racconto della battaglia fatto dallo stesso Cesare e incise alla base della statua, devono essersi sedimentate nella mente febbrile del giovane Félix: «La Gallia unita a formare una sola nazione, animata da un unico spirito, può sconfiggere l’Universo». L’amore per il suo paese insieme all’ostinato rifiuto di cedere a qualsiasi minaccia sarebbero diventati il tratto distintivo di Félix Kir.

    Félix era un ragazzino sveglio e discolo e, come per molti dei bambini più intelligenti che

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