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Storia segreta del Medioevo
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E-book559 pagine23 ore

Storia segreta del Medioevo

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Il Medioevo è stato davvero un periodo oscuro?

Tra sacro e profano il racconto della vita quotidiana e del potente immaginario di un’epoca

Un racconto curioso e affascinante di una cultura che si colloca tra sacro e profano, qui indagata nel momento in cui prende forma. 

La storia degli uomini e delle donne del Medioevo ha modellato e influenzato profondamente il modo di vivere dei popoli europei e ancora si ripresenta nel nostro quotidiano sotto molteplici forme. Un periodo storico contraddittorio, in bilico perenne tra oscurantismo e idealizzazione, che è caratterizzato da grossi sconvolgimenti nei rapporti politici, sociali e, soprattutto, religiosi. La scomparsa degli antichi culti, sostituiti gradualmente dal cristianesimo, e l’ingresso in uno spazio politico e religioso comune di quei paesi che erano rimasti fuori dalla civiltà romana sanciscono l’atto di nascita dell’Europa, in cui hanno origine e si consolidano sincretismi religiosi, consuetudinari e giuridici che regoleranno e condizioneranno a lungo la vita dell’uomo occidentale fino ai nostri giorni. Momento essenziale del nostro passato, questo affascinante e sorprendente viaggio nel Medioevo potrà «dare il duplice piacere di incontrare insieme l’altro e voi stessi» (Jacques Le Goff).

Uno spaccato di vita quotidiana su un’epoca storica controversa ma fondamentale

Tra gli argomenti trattati:

Mulini profani e mistici
Il diavolo e il ballo: epidemie coreutiche e tarantismo
La crociata dei bambini
Il cannibalismo in Europa
Furto del sacro: santi e reliquie
La leggenda della Vera Croce
L’infanticidio
Pasque di sangue e omicidi rituali
I santuari à répit
Sessualità nei penitenziali
La purificazione della puerpera
Il dominio del velo: tra Occidente e Oriente
Streghe e magia tempestaria
La pittura infamante
Erberto Petoia
Membro del direttivo scientifico del Centro Studi di Tradizioni Popolari “Alfonso M. di Nola”, ha collaborato per anni con la cattedra di Storia delle Religioni e Antropologia Culturale presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli e presso l’Università di Roma III. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo Vampiri e lupi mannari (tradotto in spagnolo e polacco); Miti e leggende del Medioevo (tradotto in ceco e in serbo); Malocchio e jettatura; Storia e leggende di Babbo Natale e della Befana (scritto con C. Corvino); Miti e leggende degli zingari; Storia del presepe e la collaborazione al volume collettaneo Antropologia e storia delle religioni. Saggi in onore di Alfonso M. di Nola. Frutti di una lunga ricerca sul campo sono La stella e l’aratro. Tradizioni popolari in Irpinia (in collaborazione con C. Corvino) e Tutto a segno di croce. Storie di donne contadine. Ha inoltre curato e tradotto Il vampiro di J.W. Polidori, Un mistero della campagna romana di Anne Crawford, Jude l’oscuro di Thomas Hardy, Breve storia della fine del mondo di Paula Clifford, e Dizionario universale del Natale di Gerry Bowler. Collabora con «Medioevo», «Rivista Abruzzese» e con altre riviste del settore antropologico e storico religioso.
LinguaItaliano
Data di uscita23 apr 2018
ISBN9788822718693
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    Anteprima del libro

    Storia segreta del Medioevo - Erberto Petoia

    Introduzione

    La periodizzazione, la suddivisione in anni, secoli, la scansione calendariale sono esigenze culturali che si presentarono all’uomo in epoca molto tarda, e solo grazie alla suddivisione fatta da Dionigi il Piccolo (vi secolo) gli uomini e le donne, almeno negli ambienti delle élite religiose e laiche, riconoscevano in linea di massima la cesura cronologica costituita dalla nascita di Cristo; fino a quel momento il tempo veniva calcolato in base al ciclo delle stagioni, in una visione circolare del tempo legata ai cicli della produttività. La volontà di dare un’organizzazione cronologica al proprio passato si manifestò solo a partire dal xiv secolo e sembra tuttavia che l’espressione Medioevo sia entrata nel linguaggio comune non prima delle fine del xvii secolo.

    Ciò che siamo soliti chiamare Medioevo durò, secondo una suddivisione cronologica convenzionale, dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente – fissata formalmente dagli storici nel 476, anno in cui Odoacre depose l’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augusto – fino al 1492, con la scoperta dell’America e l’inizio di quella che viene definita Età Moderna. In realtà la maggioranza degli storici preferisce parlare di un lungo Medioevo e concorda nel fissarne la durata ben oltre quella convenzionalmente accettata, prolungando tale periodo storico a tutto il Settecento. Alla fine di questo lungo arco temporale l’Europa risulterà un luogo ben diverso da quello che era stato al suo inizio. L’Impero romano aveva unificato metà del continente europeo, separandolo nettamente dall’altra metà, e circa mille anni dopo l’Europa aveva assunto quella complessa struttura che ha conservato fin da allora, con la maggior parte degli attuali Stati già in qualche modo riconoscibile. Tuttavia, ciò non deve assolutamente portare a conclusioni fuorvianti né far pensare che l’assetto territoriale risultante da questo lunghissimo processo storico coincida con gli Stati-nazione; anzi, mai come in questo momento torna utile smentire questa visione semplicista e riduttiva, soprattutto alla presenza del prepotente ritorno nel discorso politico europeo delle violente tematiche nazionalistiche.

    In tale direzione, infatti, vanno le rivendicazioni nazionalistiche emerse in seguito alla caduta del muro di Berlino, soprattutto nell’ex Unione Sovietica e nei Balcani, o scatenate dalle paure e angosce derivanti dai movimenti migratori in atto, come accade per il nazionalismo francese, o ancora legate a identità regionali o minoritarie più o meno definite all’interno di Stati consolidati, come quelle catalane, basche, irlandesi del Nord, o costruite di sana pianta, come l’ineffabile Padania. Esse trovano supporto ideologico nel pericoloso equivoco alimentato dal mito delle nazioni, quel complesso di pregiudizi culturali ereditati dalle dottrine del nazionalismo etnico elaborate nel xix secolo, modificate e riadattate a seconda dei casi e delle contingenze storiche. Tale mito si fonda sulle supposte acquisizioni territoriali delle popolazioni, le cui origini andrebbero ricondotte all’Alto Medioevo quando avrebbero conquistato, nur und einmal, i loro spazi nel continente europeo, considerando così i popoli attuali i diretti e legittimi eredi di quelle acquisizioni. Tale assunto, in base al quale i popoli europei sono considerati come realtà sociali e culturali distinte, immutabili e oggettivamente identificabili, non tiene conto di circa 15 secoli di storia e dei mutamenti che questi hanno comportato.

    Ciò che caratterizza la storia europea non è solo la serie di eventi bellici e politici che vede protagonisti i singoli Paesi; un’importanza non irrilevante va attribuita anche ai legami creati dalla Chiesa cattolica che, dopo la disgregazione politica e amministrativa dell’Impero romano, riuscì a porre le basi, con la fusione del fattore romano e di quello germanico, per ricreare l’unità dell’Europa su un livello spirituale e nell’ambito di una cristianità latina dominata dal papato. Infatti, dopo il crollo dell’Impero romano si hanno delle profonde trasformazioni anche in ambito religioso, con il graduale abbandono dei culti tradizionali a favore di un cristianesimo che, da religione minoritaria e perseguitata, si trasforma in breve tempo in religione di Stato, ponendo le basi per quel dominio spirituale e unità religiosa europea. Va precisato, comunque, che non si tratta di un’unità omogenea e lineare. Il cristianesimo medievale resterà per molto tempo una realtà dalle molteplici sfaccettature, caratterizzato e determinato dalla dialettica perenne tra la Chiesa di Roma e i movimenti religiosi, le chiese locali, e soprattutto quella religione popolare, vitale e autonoma, che non si presenta mai come risultato di un’acculturazione passiva, ma come forza viva capace alla lunga di influenzare le strutture più profonde della religione ufficiale. Una vera realtà unitaria può essere riferita solo al fatto religioso, all’interno del quale sorgono anche processi identitari diversi non necessariamente o automaticamente riconducibili al cristianesimo; anzi, anche all’interno dell’Europa cristiana continuò a lungo la professione di fedi diverse.

    Lo scontro più lacerante all’interno della religione cristiana è sicuramente rappresentato dall’eresia ariana, sulla cui dottrina alcuni popoli barbari, come i goti, stavano costruendo la propria identità cristiana. Questa dottrina divenne oggetto di uno dei primi bandi nei confronti di una parte della religione cristiana, quando nel 325 Costantino convocò un concilio a Nicea con l’intento di uniformare il culto cristiano in tutto l’Impero e rendere evidente anche dal punto di vista religioso la sua nuova autorità. Il concilio si concluse con la condanna di tutte le tesi ariane, segnando un passo decisivo verso l’elaborazione di una dottrina cristiana unica e universale, cattolica appunto. Tracce evidenti del tentativo di far riconoscere l’autorità di Costantino nel nuovo mondo cristiano e del clima conciliare niceno si ritrovano nella Leggenda della vera Croce, uno dei racconti più diffusi durante il Medioevo che diede origine a una serie di culti destinati a influenzare anche il calendario liturgico.

    In questa fase di transizione, nonostante ormai dichiarato ufficialmente religione di Stato, il cristianesimo dell’età di Costantino poggia su basi ancora fragili e si presenta come entità mutevole e in perenne riassetto soprattutto dal punto di vista organizzativo e dottrinale. A causa anche delle persecuzioni dei secoli precedenti che avevano limitato la sua diffusione soprattutto tra le piccole comunità religiose cittadine, spesso non coordinate tra loro, si erano create tradizioni diverse, localistiche, le quali spesso attribuivano al papa solo un primato simbolico. La necessità di uniformare la dottrina e di diffonderla fin nelle più remote campagne portò la Chiesa a operare delle scelte che avranno un forte impatto dottrinale e porranno le basi per la nascita di un apparato e una struttura ecclesiastica che influenzeranno e condizioneranno nel bene e nel male la vita dei popoli europei nei secoli successivi. Già dal iv secolo era andata affermandosi la figura del vescovo, che aveva la funzione di controllare e di guidare le comunità locali, le circoscrizioni, le diocesi, che erano state definite dalla Chiesa rifacendosi ai modelli di suddivisione amministrativa dell’Impero romano. Il modello organizzativo basato sui vescovi, sacerdoti e diaconi cominciò a svilupparsi e a diffondersi secondo una scansione cronologica e secondo modalità diverse in tutta Europa, diventando terreno di scontro intorno al quale vennero ad accendersi dispute talvolta assai dure, in particolar modo quando si cercò di uniformare le istituzioni ecclesiastiche e, in misura maggiore, l’aspetto dottrinale. Esisteva una certa autonomia che spesso portava a decisioni relative alla sfera dottrinale o teologica che potevano essere smentite o addirittura condannate da altri sinodi o concili, come ad esempio la diatriba sorta tra i sostenitori della penitenza pubblica e di quella insulare¹ o privata, quest’ultima favorita e diffusa dall’uso dei penitenziali. Sempre negli stessi secoli, l’elaborazione della dottrina cattolica fu sancita da disposizioni conciliari, che nella maggior parte dei casi erano corroborate da una prolifica e intensa stagione di studi teologici. Tra i protagonisti che diedero un grosso contributo alla definizione dell’impianto dottrinale e teologico vanno necessariamente ricordati Ambrogio, Agostino, Girolamo, le cui tesi segneranno a lungo e profondamente la vita e la condotta religiosa dell’uomo medievale, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della donna all’interno dell’economia della salvezza e all’interno della società.

    Uno dei compiti più ardui che la Chiesa dovette affrontare, facendo affidamento su un apparato ecclesiastico non sempre all’altezza, fu la conversione in massa delle popolazioni rurali che seguivano per lo più antichi culti legati ai cicli delle stagioni e della fertilità e quindi, contrariamente a quelle cittadine, risultavano più refrattarie alla nuova religione cristiana. Questa fase segna l’avvio di quel processo di sincretismo e osmosi tra una religione colta, egemone, e una subalterna, divise dalla visione teleologica stessa della rivelazione cristiana. Se la religione ufficiale trova la sua guida nella parola, quella popolare finisce per recepire la stessa parola non come un sistema di realtà concettuali, ma come delle verità garantite da una autorità suprema, che può identificarsi di volta in volta nel Signore, nei santi, nelle Madonne e in tutti quei vicari in grado di farsi portavoce delle esigenze e delle richieste che nascono dal basso. La nuova religione viene accolta perché in grado di soddisfare i bisogni materiali delle popolazioni rurali, che adeguano i nuovi dogmi, sacramenti, pratiche e riti, al proprio orizzonte mitico ed esistenziale, già formato da una precedente esperienza religiosa e spirituale. Ne deriva una continua mutazione dei due quadri religiosi: quello ufficiale che è impegnato a rendere sempre più coerente, logico e aderente a una teologia speculativa il proprio assetto dottrinale e spirituale; e quello delle masse rurali, più variegato, più molteplice, più mutevole, e per questo soggetto a fenomeni di usura, logoramento, trasformazione, e persino di accantonamento e di abbandono quando si rivela non più funzionale alle esigenze materiali e spirituali. La convivenza di queste due realtà, permeabili a influssi e condizionamenti reciproci, è spesso contrassegnata da episodi drammatici, dovuti talora all’incapacità da parte del clero di comprendere la cultura e le manifestazioni religiose delle popolazioni rurali, che spesso si sentono aggredite nelle loro tradizioni più radicate. È questa cieca violenza e incomprensione a scatenare la reazione di uno degli abitanti di un villaggio, in cui si trovava Eligio nella sua missione evangelizzatrice, che reagisce al biasimo mostrato per le loro danze dal santo mostrando tutta la tenacia e l’attaccamento alle proprie tradizioni: «Non ci sarà mai nessun uomo che possa proibirci i nostri antichi e piacevolissimi giochi».

    Un processo che andrà avanti per secoli, con quella parte più refrattaria e remota del mondo cristiano, dove la Chiesa cerca di far giungere e trasmettere la sua dottrina, che lotta per preservare la propria religione o imporre le proprie istanze religiose, talvolta riuscendo a farle accettare e integrare nel quadro ufficiale. Uno dei canali attraverso il quale si rende possibile tale processo è proprio la classe clericale, la quale si presenta in modo abbastanza eterogeneo soprattutto per quanto riguarda la preparazione culturale dei suoi membri. Sarebbe un grosso errore pensare che il clero fosse una classe omogeneamente dotta, che conoscesse a fondo la dottrina ecclesiastica, le sue regole o le sottigliezze teologiche spesso di difficile comprensione persino a menti più aperte di semplici diaconi. Anzi si può affermare con decisione che anche all’interno del corpo ecclesiastico va posta la distinzione tra religione ufficiale e religione popolare, come è comprovato dal formulario di domande per la visita pastorale elaborato da Reginone di Prüm nel ix secolo o dagli statuti sinodali di tante diocesi d’Europa. La cultura di molti chierici talora non va al di là di qualche spicciola informazione religiosa per cui si rende necessario che questi incontrino ogni tanto i loro vescovi e abbiano rapporti con i monasteri, e soprattutto che prendano parte a sinodi locali e diocesani per poter correggere, modificare, indirizzare, condannare o combattere tutte quelle pratiche, religiose e non, che spesso finiscono per configurarsi come manifestazioni diaboliche o stregoniche. In questo modo essi si trovano con una certa frequenza a contatto con esponenti di cultura maggiore, come vescovi e abati, che però a loro volta vengono influenzati dalle istanze che arrivano loro tramite questi chierici, spesso coinvolti in prima persona all’interno della comunità nella gestione di un sacro che molto spesso, per i motivi sopra citati, sconfina nel magico. Del resto molti di questi sacerdoti di origine contadina oltre ad avere una preparazione teologica scadente, e talvolta appena in grado di leggere e scrivere, vivono come gli altri abitanti del villaggio – attorniati da una famiglia e lavorando nei campi – e sono esposti alla stessa stregua ai rischi e alle alee esistenziali, nei confronti dei quali adottano gli stessi strumenti degli altri contadini per garantirsi una presenza protetta e sicura nel mondo. E così, in deroga alle direttive della vita ecclesiastica e in relazione anche a contingenze specifiche, la Chiesa accetta esigenze di culti particolari, di riti e di tradizioni che nascono nell’ambito della pietà popolare. Oppure, spinta da ossessioni dottrinali, come la credenza nella stregoneria, sollecita e propone riti, pratiche e culti come quello di William di Norwich o di Simonino da Trento, che vanno ad alimentare quel complesso di superstizioni che dall’altro lato cerca di scardinare e sconfiggere.

    Questo perché nella maggior parte dei casi la Chiesa, almeno fino alla riforma gregoriana dell’xi secolo, cercò soprattutto di conseguire risultati formali, ponendosi l’obiettivo del rispetto delle norme e delle prescrizioni piuttosto che di trasformare in profondità la religiosità popolare. I testi canonici, meglio noti come Libri Penitenziali, cui si fa ampiamente riferimento anche in questo volume, ci permettono di seguire nelle linee generali lo sviluppo di questo processo di osmosi tra le due forme religiose e di influenza tra una moralità popolare e prescrizioni ecclesiastiche. In particolare per quanto concerne quel complesso fenomeno che va sotto il nome di stregoneria, con i suoi riti di invocazione della pioggia, di fertilità, o di qualsiasi altro genere, e ancor più per quanto attiene alla vita familiare o coniugale. Qui le tradizioni a essa connesse, le ripercussioni pagane, romane, celtiche o germaniche venivano assorbite all’interno della morale evangelica e regolamentate da prescrizioni veterotestamentarie relative ai vari tabù di parentela e prescrizioni di etica coniugale. Allo stesso modo la Chiesa riprende e cristianizza abitudini e riti pagani, i quali, formalmente debellati, continuano in realtà a sopravvivere nella loro essenza nella prassi quotidiana, creando confusione e rendendo difficile delimitare i confini tra l’antica formula magica e la nuova preghiera cristiana. Coerentemente all’insegnamento di Gregorio Magno, la Chiesa viene costruita sul luogo del tempio pagano ma finisce anche per assumerne le funzioni; in questo modo il calendario delle feste cristiane ricalca il calendario pagano, che con le sue feste e solennità regolava tutta la vita dell’uomo, dalla nascita alla morte, scandendone le opere e i giorni. I santi prendono il posto degli dèi e degli spiriti buoni, che stanno vicino all’uomo e interagiscono e collaborano, in varie forme, nell’affrontare le difficoltà quotidiane; con essi si stringono patti e si vuole che le loro spoglie siano sepolte all’interno del territorio della comunità per garantirsene direttamente la protezione. In tale contesto acquistano importanza rilevante i miracoli, di cui la letteratura agiografica è piena, e in merito ai quali si assiste a un processo evolutivo che formalmente si concluderà con la nuova visione di santità che emergerà dal concilio di Trento, in cui si preferisce l’aspetto edificante a quello taumaturgico del santo. I miracoli, nella visione di autori come Sulpicio Severo o Gregorio di Tours, hanno la funzione di dimostrare la potenza di Dio rispetto agli altri culti e divinità pagane e si manifestano e intervengono per eliminare una credenza pagana.

    La diffusione della nuova morale cristiana comporta anche una nuova scala di valori con conseguenze pratiche ben precise, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra ricchi e poveri e che in un certo qual modo va incontro anche ad alcune ben individuate esigenze provenienti dagli strati più indigenti della società. Il ricco, grazie ai suoi beni, ha una responsabilità maggiore agli occhi di Dio: per questo le sue colpe sono più gravi e, come si evince dai penitenziali, soggette a maggiore rigore e sanzione rispetto a quelle dei poveri. Ne deriva che le colpe e i peccati non sono sempre uguali, ma vanno giudicati in base alla responsabilità umana. La penitenza per un peccato compiuto da coloro che versano in condizioni disagiate o che soffrono la fame e l’indigenza, sia si tratti di un infanticidio e aborto, o di furto per mangiare e per vestirsi, sarà minore rispetto a chi commette lo stesso peccato senza queste attenuanti.

    Alla fine dell’xi secolo il processo di trasformazione del mondo tradizionale pagano in cristiano può dirsi compiuto, anche se, soprattutto nelle campagne, gli abusi, le pratiche e le tradizioni che gli uomini di Chiesa indicano e condannano rivelano la presenza di sacche di resistenza. Le ordalie, i duelli, le pratiche di magia e di stregoneria di vario tipo, le danze davanti alle chiese e nei cimiteri, forme di religiosità spontanee e a tratti eretiche stanno a testimoniare che la lotta ingaggiata dalla Chiesa contro tali manifestazioni è in parte fallita e destinata quindi a durare ancora a lungo.

    In questo lento cammino verso una compiuta società cristiana resta ancora spazio però per l’esclusione, per la marginalizzazione, per le persecuzioni e per le stragi su base etnica o sessuale. Gli ebrei e le donne, ad esempio, saranno le principali vittime che pagheranno con i più duri sacrifici, anche di sangue, la chiusura della società nei loro confronti, nonostante il loro contributo indispensabile, determinante, e apportatore di ricchezza nella società medievale. Nell’Europa del xii secolo gli ebrei formano una parte integrante e insostituibile della civiltà intellettuale e religiosa; medici, traduttori, filosofi, teologi e finanzieri, al servizio di principi laici ed ecclesiastici, offrono un grosso contributo al clima di risveglio intellettuale. Le persecuzioni della prima e della seconda crociata (1096-1146) rappresenteranno però un punto di svolta, al pari dei massacri compiuti in Inghilterra verso la fine del xii secolo, in cui compare la famosa accusa di omicidio rituale. Si giungerà così alla decisione politica del loro isolamento dal resto del mondo con la costruzione dei ghetti, in cui gli ebrei sperano di trovare riparo dalle persecuzioni esterne e improvvise provocate dal fanatismo di singole schiere di crociati e successivamente fomentate e guidate direttamente dai frati predicatori francescani. Dinamiche che si ripropongono incessantemente, mosse dai sentimenti di paura e odio che il cristianesimo europeo non vuole o non riesce a superare. Paure che si materializzano e che trovano un capro espiatorio nell’altro, nel diverso, e spesso legate a incultura e ignoranza, non solo dei ceti meno abbienti, ma anche di quella classe cosiddetta colta, che con le sue teorie astratte e dottrinali cerca di dare ordine e rigore a un mondo di cui non sempre riesce a cogliere il senso. In seguito a ogni aborto, tra animali e uomini, alla morte di un bambino, a una carestia, a una pestilenza, si cerca un mezzo per far fronte a un’esistenza aleatoria risalendo alla causa, cercando l’autore del maleficio, spesso identificato nell’ebreo assassino di bambini, untore, profanatore di ostie. E quando gli ebrei verranno cacciati dall’Europa, la colpa di questi e altri misfatti verrà addossata alle donne, alle streghe. Un mondo schizofrenico, che irrigidito e arroccato nelle proprie angosce maschili, cadrà in preda all’ossessione della donna; prima strumento di tentazione e dannazione per l’uomo, e poi alleata del demonio nella distruzione del genere umano.

    All’interno di questo lungo processo dialettico prendono forma riti magici e stregonici, epidemie coreutiche, crociate di bambini, infanticidi rituali, cannibalismo, leggende della Vera Croce, rituali del ritorno alla vita per bambini e di purificazione per le puerpere, divieti e interdizioni che riguardano la vita sessuale, l’imposizione e l’obbligo di indossare il velo per le donne; temi che costituiscono in parte la materia trattata in questo libro, che si propone di offrire uno spaccato della vita reale e dell’immaginario medievale. Con due eventi ad aprire e chiudere idealmente questo percorso: l’invenzione e la diffusione dei mulini, che incideranno profondamente sulle strutture economiche e i rapporti sociali tra il signore e i suoi sudditi, e lo sviluppo delle strutture statali che porteranno a un più ampio coinvolgimento popolare nella sfera pubblica alla fine del xiv e nel xv secolo, quando la società medievale, attraverso il monito della pittura infamante, cercherà di vigilare sulla morale dei cittadini e soprattutto di coloro che sono chiamati a gestire la cosa pubblica.

    Una cultura che si colloca perennemente tra sacro e profano, qui indagata nel momento in cui prende forma, e che è necessario conoscere, perché gli uomini e le donne di questo periodo sono i nostri antenati, la cui storia ha modellato e influenzato profondamente il nostro modo di vivere e, in alcuni casi, ancora si ripropone nel nostro quotidiano sotto molteplici forme. Un periodo storico contraddittorio, perennemente collocato tra oscurantismo e idealizzazione, in cui si assiste a grossi sconvolgimenti nella sfera dei rapporti politici, sociali e soprattutto religiosi. La scomparsa degli antichi culti, sostituiti gradualmente dal cristianesimo, e l’ingresso di quei Paesi che erano rimasti fuori dalla civiltà dell’antichità romana in uno spazio politico e religioso comune sanciscono l’atto di nascita dell’Europa e danno vita a sincretismi religiosi, giuridici e consuetudinari che regoleranno e condizioneranno la vita dell’uomo occidentale fino a tempi molto recenti. Momento essenziale del nostro passato, questo affascinante e sorprendente viaggio nel Medioevo, per usare una felice espressione di Jacques Le Goff, potrà «dare il duplice piacere di incontrare insieme l’altro e voi stessi».

    1 Così chiamata perché sorta nei monasteri di Scozia, Inghilterra e Irlanda.

    I. Non solo pane: il mulino

    Almeno nella fase iniziale della sua storia, è immediatamente evidente il legame esistente tra il mulino e la forza motrice idraulica; infatti se si prende in esame la terminologia relativa ad esso nelle fonti scritte, oltre ai classici molinus, mulinus, molendinus, con l’accento sulla mola, sulla macina, si trovano spesso, a partire dall’antichità classica, i termini hydraletes e successivamente aquimolus, aquimulus, con palese rimando all’unione tra mola ed acqua². Fra tutti i motori primari, però, anche quando fu concepita la forma più economica di mulino idraulico, la sua diffusione fu molto lenta e trascorsero ancora quattro secoli circa prima che acquisisse un ruolo primario nell’economia, anche a causa di una abbondante disponibilità di manodopera, sotto forma di manovalanza statutaria o di schiavi.

    Le testimonianze scritte hanno fornito elementi utili per ipotizzare la tipologia dei primi meccanismi idraulici, il periodo della loro comparsa, il luogo in cui hanno avuto origine e la loro diffusione, e rimandano a un’area geografica e un periodo storico ben determinati. La comparsa dei primi mulini idraulici, a ruota verticale o orizzontale, viene fatta risalire al i secolo a.C. e, stando alle varie testimonianze, sembra che essa vada collocata in area mediterranea e mediorientale³. Tuttavia, negli stessi anni, verso il 30 a.C., la ruota idraulica fa la sua comparsa anche in Cina, dove veniva adoperata per azionare mantici, per cui si potrebbe anche ipotizzare un’origine diversa, in qualche regione asiatica tra Mediterraneo e Cina, da dove si sarebbe diffusa in altre aree⁴.

    Il più antico mulino idraulico di cui abbiamo notizia è quello di cui parla Strabone, fatto costruire dal re del Ponto Mitridate vi (120-63 a.C.) a Cabira, nei pressi del suo palazzo⁵. Un’altra testimonianza è fornita da un epigramma di Antipatro di Tessalonica, in cui il poeta vede nel mulino ad acqua uno strumento adatto a emancipare le donne dalla schiavitù della molitura domestica e foriero di una nuova età aurea per tutta l’umanità. Da ciò si evince l’importanza di tale invenzione tecnologica per il mondo orientale e romano e, successivamente, per tutto il Medioevo. Il testo di Antipatro ci fornisce numerosi indizi in merito alla molitura, che era dovere esclusivo delle donne, le quali avevano il faticoso compito di macinare i cereali per preparare la farina, per mezzo di mortai o di rudimentali macine:

    Donne occupate a macinare il grano cessate di affaticare le vostre braccia! Potete dormire quanto vi piace e lasciare cantare gli uccelli la cui voce annuncia il ritorno dell’aurora. Cerere ordina alle Naiadi di fare ciò che facevano le vostre mani: esse obbediscono, si slanciano fino alla sommità di una ruota e fanno girare un asse; l’asse, per mezzo dei raggi che lo circondano, fa girare con violenza le ruote che aziona. Eccoci ritornati alla vita felice e tranquilla dei nostri padri: impariamo a preparare gli alimenti e a raccogliere senza fatica i frutti del lavoro di Demetra.

    Il mulino idraulico più rudimentale è rappresentato dal tipo greco o scandinavo, in cui un albero verticale o un assale porta alle estremità inferiori una piccola ruota orizzontale composta di un certo numero di pale⁷. Esso era caratteristico di una civiltà agricola ed era limitato alle regioni montane, poiché poteva funzionare unicamente con piccoli volumi d’acqua a corrente rapida, comuni nelle zone d’altura. Ciascun mulino bastava, però, a soddisfare solo il bisogno di un singolo nucleo familiare, poiché il suo basso rendimento lo rendeva inadatto alla produzione commerciale della farina⁸. Questo tipo di mulino era sicuramente noto a Plinio, il quale, per la molitura del grano, segnala delle ruote di mulino sui corsi d’acqua in Italia: «Nella maggior parte d’Italia si usa un pestello semplice, delle macine, o ruote fatte girare dall’acqua»⁹.

    Il mulino idraulico, sebbene avesse facilitato la macinazione del grano domestico, deve però la sua fortuna e diffusione alle innovazioni tecnologiche apportate da Vitruvio, ingegnere romano del i secolo a.C., il quale ebbe l’intuizione di costruire il mulino a ruota verticale, detto appunto vitruviano, molto più efficiente di quello a ruota orizzontale e in grado di sprigionare una forza maggiore rispetto ai suoi predecessori e di conseguenza una maggiore macinazione¹⁰. Il passaggio alla ruota verticale permise anche di sfruttare direttamente l’acqua dei fiumi navigabili tramite il mulino su nave o galleggiante. Quest’ultima tipologia sembra risalire alla prima metà del vi secolo, come ci narra Procopio nella sua Storia della Guerra Gotica, quando Roma, nel 537, si trovò senz’acqua per azionare i mulini, essendo stati gli acquedotti messi fuori uso dagli ostrogoti. Belisario, allora, diede ordine che si organizzassero due barche legate tra loro su un fiume con una ruota al centro, dando vita così a un nuovo tipo di mulino¹¹. Il mulino galleggiante si diffuse in tutta Europa e conobbe una certa longevità: lo si poteva osservare sul Tevere, sul Po, sull’Adige, sulla Senna, sulla Loira e sul Reno. Una miniatura del Martirio di san Dionigi mostra dei battelli legati agli archi di un ponte, anche se abitualmente queste macchine erano ancorate nel letto del fiume attaccate con dei cavi alla riva. Durante il Medioevo si svilupparono essenzialmente due tipi di mulini galleggianti: il primo con due ruote verticali montate su entrambi i lati della nave, il secondo invece con una sola ruota che girava in mezzo a due navi e che azionava una o due macine¹².

    Le testimonianze relative alla diffusione e all’impiego del mulino ad acqua un po’ in tutta Europa aumentano in maniera consistente a partire dal iv secolo e fino a tutto il v. Nell’Opus Agriculturae, di Palladio Rutilio Tauro Emiliano (iv sec.), scrittore della Gallia e autore di opere di agricoltura in lingua latina, vengono citati dei mulini che sfruttavano l’acqua delle terme di una villa rurale per macinare il grano, «sine animalium vel hominum labore»¹³; e simile riferimento, intorno al 370-371 d.C. troviamo in Ausonio, nel suo idillio Mosella¹⁴, in cui parla delle mole per il grano (cerealia saxa) mosse con rapidità dalla corrente del fiume Erubris (Ruwer), affluente della Mosella, e di un sega idraulica per il taglio del marmo. Un’altra notizia per quanto riguarda la Gallia la ritroviamo ancora, qualche secolo dopo, in Gregorio di Tours che parla di mulini idraulici presso Digione, alimentati mira velocitate dalle acque dei fiumi¹⁵. Ma a partire dal v secolo, insieme alle invasioni barbariche e allo sgretolamento dell’Impero romano, si ebbe un ripiegamento anche nella vita economica, con l’abbandono dello sviluppo e della tecnica. I grandi impianti e le tecniche di macinatura furono abbandonati e si ritornò all’uso di mole azionate a mano fino all’viii secolo, quando si ebbe una ripresa della costruzione e dell’uso dei mulini su più vasta scala. I termini molendinum, molinum e aquimolum diventano sempre più frequenti, nei documenti pubblici e privati, proprio a partire dalla seconda metà dell’viii secolo¹⁶.

    Durante la dinastia dei merovingi i mulini avevano acquistato un’importanza tale da trovare posto nella legislazione e in particolare nella Lex Salica¹⁷, in cui si stabiliscono le pene per i furti commessi nei mulini e a danno degli stessi. Come fonte di reddito fiscale i mulini idraulici appariranno nel Capitulare de villis¹⁸ di Carlo Magno (800). Stessa attenzione per i mulini troviamo in Germania, soprattutto nella parte meridionale, dove l’uso di queste macchine si diffuse molto rapidamente dopo le invasioni barbariche; nella Lex Alamannorum¹⁹ si stabilisce il diritto delle acque e la concessione a costruire un mulino purché ciò non arrechi danni ad altri, altrimenti esso va abbattuto, mentre nella Lex Baiwariorum²⁰ si puniscono i furti che avvengono nei mulini. Inoltre, i mulini cominciano a godere di uno stato particolare, come viene sancito ad esempio dalla legge bavara, che li considera, chiunque ne fosse il padrone, casae publicae, e perciò dotati di una condizione di pace speciale. E questo perché molti uomini vi si riunivano per scopi che andavano protetti, come ad esempio un mercato o qualsiasi altra attività che riguardava la comunità. In tale direzione va anche l’editto di Rotari (643) che prevede la stessa pena per chi incendia una casa privata o un mulino, e condanna chi incendia volontariamente un mulino a pagare tre volte il suo valore, comprese le cose che vi sono andate distrutte²¹.

    A Nord e nelle zone meno esposte alle influenze dei Galli e di Roma la diffusione dei mulini ad acqua fu assai più lenta. I documenti raccolti da Bloch ne indicano con chiarezza le linee direttrici e ci illuminano su come le tecniche di costruzione dei mulini fossero ormai un patrimonio che andava in un modo o nell’altro condiviso. Verso il 770, un bavarese caduto prigioniero dei Turingi fu fatto schiavo e costretto a costruire un mulino per il proprio padrone, mentre intorno al 775 alcuni guerrieri franchi si stabilirono come coloni sulla Unstrut e fondarono un villaggio chiamato Mühlhausen. Portatori di tecniche dalla loro patria furono anche i monaci di Tauberbischofsheim, abili costruttori di ruote da mulino, che nel 732 si stabilirono nelle foreste dell’Odenwald²².

    In Britannia si ebbe un’analoga diffusione di mulini idraulici che andò di pari passo con lo sviluppo della popolazione, e il primo riferimento attendibile a un mulino idraulico in Inghilterra compare nello statuto generale concesso da Etelberto ii nel 762 ai proprietari di un mulino di un monastero a est di Dover. Il Domesday Book, l’inventario dei beni inglesi spettanti per diritto di conquista alla corona normanna, fatto redigere da Guglielmo il Conquistatore, registra nel 1086 l’esistenza di 5624 mulini idraulici, con una media di un mulino ogni cinquanta famiglie²³.

    In Irlanda la raccolta di Leggi di Senchus Mór, messa per iscritto per volere di san Patrizio, riporta l’esistenza di mulini ad acqua per i secoli ix e x e, secondo una leggenda, il mulino più antico sarebbe stato opera di uno straniero fatto venire appositamente da oltremanica. Per quanto riguarda l’Irlanda, il mulino diventa oggetto di creazioni mitiche che spesso vedono coinvolti gli eroi del ciclo della mitologia celtica. Nel Book of Ballymote, scritto intorno al 1390-1391, tra i vari mulini miracolosi di cui si parla, ce n’è uno che viene definito la «meraviglia di Irlanda». Questo mulino, costruito con le proprie mani miracolosamente dall’abate san Fechin di Fore, morto nel 664, non macinava nel giorno del Signore ed era talmente sacro che a nessuna donna era permesso entrarvi e i fedeli lo veneravano alla stessa stregua della chiesa²⁴. In Turingia e in Boemia le prime ruote ad acqua risalgono all’viii secolo, mentre nelle aree del continente più lontane dal centro di diffusione mediterraneo e dalle regioni occidentali la comparsa di mulini idraulici è da datarsi molto più tardi: nel xii secolo per la Scozia e la Scandinavia, anche se nelle culture nordiche una diffusione su scala globale va datata a partire da almeno due secoli dopo, e nel xiii secolo per l’Islanda e la Polonia²⁵.

    In Italia il termine mulino compare per la prima volta nel 765 in un documento ufficiale, con il quale un tale Cunimondo, assolto dall’accusa di omicidio, regalava alla chiesa di Sirmione la sua casa con «stabulo seu molino ad ipsam curtem pertinentem»²⁶. Due anni dopo, a Brescia, il re Desiderio donava «mulinas duas insimul molentes» al monastero di San Salvatore – successivamente rinominato di Santa Giulia – con diritti anche sulle acque del fossato cittadino che lo muovevano²⁷. Nel 768 il prete Teodaldo, tra i suoi beni, donava un mulino alla chiesa di Sant’Agata a Monza²⁸, mentre in un documento del 771, in uno scambio di beni tra la badessa del monastero di San Salvatore a Brescia e il chierico Andrea, troviamo menzionato anche un molino²⁹. Nel 776 a Milano veniva stipulata una permuta tra i due figli di Agnone e il diacono Forte, nella quale si conveniva che i due fratelli cedevano un appezzamento di terreno lungo il fiume Vepra, a pochi chilometri dalla città, con la riserva di potervi realizzare in futuro una chiusa e una deviazione d’acqua per alimentare un eventuale mulino in sostituzione di quello più antico, sempre di loro proprietà, che aveva funzionato in quello stesso luogo «ante hos annos»³⁰. Va comunque precisato che almeno in Italia la maggior parte delle informazioni che abbiamo sui mulini medievali si riferiscono a macchine per macinare cereali ma anche altre materie, come ad esempio le olive, ed erano volte oltre che all’attività di molitura, anche a quella di irrigazione, drenaggio delle acque e a vari settori della produzione artigianale, soprattutto nella fase di ripresa economica dopo l’anno Mille³¹.

    I mulini erano anche opere indispensabili alla vita dei monasteri e nel xvi capitolo della Regola di san Benedetto del 534 si raccomanda di collocare all’interno del monastero «tutto l’occorrente, ossia l’acqua, il mulino (molendinum), l’orto e i vari laboratori, per togliere ai monaci ogni necessità di girellare fuori, il che non giova affatto alle loro anime». La prima attestazione a noi pervenuta della costruzione di un mulino in ambito prettamente religioso è datata al 450, in un passo della Vita patrum Iurensium. Nel narrare le virtù e i prodigi di un diacono di nome Sabiniano, il quale all’interno della comunità rivestiva un ruolo utile alla gestione attiva dei mulini e delle chiuse situate nel vicino fiume sotto lo stesso monastero, l’autore fornisce indicazioni e accorgimenti tecnici per la costruzione di un mulino idraulico. Innanzitutto si alzava l’argine del canale che portava l’acqua del mulino per far muovere la ruota, poi si piantava una doppia fila di pali e, secondo l’usanza, si intrecciavano tra questi dei rami e si riempiva il vuoto con una miscela di paglia e pietre, che andava compressa con forza tra i graticci così ottenuti³².

    Fu proprio dai monasteri che si ebbe un contributo essenziale nell’evoluzione delle macchine e nelle varie applicazioni dei mulini idraulici, in particolar modo da quelli cistercensi, i quali si possono considerare le uniche forme di comunità autosufficienti del Medioevo. Le regole dei cistercensi raccomandavano la costruzione dei monasteri nei pressi dei corsi d’acqua per poter sfruttare l’energia idraulica necessaria a tutte le lavorazioni, anche perché ogni monastero doveva provvedere alle proprie necessità e a quelle delle persone che gravitavano nell’orbita delle loro comunità³³. Una descrizione del ix secolo dell’abbazia di Clairvaux in Francia, tratta dalla vita di san Bernardo, ci fornisce una testimonianza preziosa sulla meccanizzazione dei monasteri:

    Il fiume penetra nell’interno del monastero per quanto è permesso dal muro di cinta; dapprima si riversa nel mulino del grano, dove le sue acque vengono sfruttate per muovere le pesanti mole per la macinazione del grano e per scuotere il fine staccio che separa la farina dalla crusca; quindi le acque affluiscono in un fabbricato vicino e riempiono la caldaia, dove viene fatta bollire la birra per i monaci, qualora se ne dovesse aver bisogno in caso di una scarsa vendemmia e dovesse mancare il vino. Dopo di ciò il fiume non ha ancora terminato il suo compito, poiché passa in un altro edificio che viene dopo il mulino da grano, per azionare le macchine di follatura, e mentre prima le sue acque avevano prestato la loro opera per nutrire i confratelli, ora la prestano per vestirli. […] Poi il fiume entra nella conceria, dove dedica le sue cure ed il suo lavoro alla preparazione del materiale necessario per le calzature dei monaci; quindi si divide in molti piccoli rivi e passa attraverso vari reparti, giungendo là dove i suoi servigi sono richiesti per qualsiasi scopo: per cucinare, per far girare ingranaggi, per frantumare, innaffiare, lavare, macinare… infine trasporta con sé i rifiuti e lascia tutto pulito.³⁴

    Spesso, nella narrazione agiografica, la costruzione dei mulini ad opera dei monaci è resa possibile grazie all’intervento di una virtus miracolosa, che aiuta a superare le difficoltà rappresentate dagli elementi naturali e a garantire la costruzione e la protezione delle opere di canalizzazione. Nella descrizione della vita di sant’Orso, come viene riportato da un exemplum di Gregorio di Tours, si narra che l’abate aveva fondato un monastero, situato presso il fiume Indre, in un anfratto del monte su cui ora domina un castello, chiamato con il medesimo nome del monastero. Mentre i frati, con una mola azionata a mano, macinavano il grano necessario al sostentamento, all’abate venne l’idea di costruire un mulino nell’alveo del fiume Indre, in modo da alleggerire il lavoro dei confratelli. Fissati dei pali nel fiume e accumulati dei mucchi di grosse pietre, fece delle barriere e tramite un canale raccolse l’acqua, che con la sua forza faceva girare a gran velocità la mola di una macchina.

    Un tale Siclario, amico e protetto del re Alarico, venuto a conoscenza della costruzione del mulino, chiese all’abate di regalarglielo e in cambio gli avrebbe dato qualsiasi cosa lui gli avesse chiesto; ma l’abate si vide costretto a rifiutare la sua offerta perché i suoi confratelli lo avevano costruito con grande fatica e non potevano privarsene, se non a rischio di morire di fame. Questi, allora, rispose che lo avrebbe ringraziato di cuore se glielo avesse donato, in caso contrario se lo sarebbe preso con la forza, minacciando l’abate di privarlo dell’acqua del fiume che faceva girare la ruota della sua macina. Al nuovo rifiuto dell’abate, Siclario, in preda alla collera, ne costruì uno simile che distrasse l’acqua dal mulino dei frati fermando così completamente la sua ruota. I frati in preda allo sconforto andarono dall’abate, il quale disse loro di pregare incessantemente il Signore; e così fecero per due giorni e due notti, finché il terzo giorno uno di loro venne ad annunciare che la ruota del loro mulino aveva ripreso a girare a tutta velocità proprio come prima. Recatosi sulla riva del fiume, l’abate vide che il mulino costruito da Siclario non c’era più, né vi era alcun segno di esso nel letto del fiume né alcuna traccia del legno, della pietra e del ferro con cui era stato costruito³⁵.

    Eventi miracolosi circa la costruzione di mulini a opera dei monaci o di prodigi al suo interno sono abbastanza diffusi nel patrimonio leggendario

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