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Chi ha ucciso mia sorella
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E-book399 pagine5 ore

Chi ha ucciso mia sorella

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Info su questo ebook

Un thriller geniale, da non perdere

Autrice del bestseller Gli occhi neri di Susan

Ha pianificato questo momento da quando aveva solo dieci anni.

Ossessivamente, metodicamente, ha previsto ogni dettaglio, si è immaginata ogni possibile scenario. Adesso è quasi certa che l’uomo che ha rapito e ucciso sua sorella sia seduto sul sedile del passeggero proprio accanto a lei. Carl Louis Feldman è un fotografo e sostiene di non avere alcun legame con la serie di omicidi avvenuti in Texas molti anni prima, ma una scatola di vecchie fotografie fa sospettare il contrario. Determinata a scoprire la verità, la ragazza l’ha convinto a seguirla in un viaggio di dieci giorni, loro due soli. Chi è davvero Carl Louis Feldman? Ha veramente ucciso sua sorella? È un impostore o un uomo dal cuore spezzato? Un artista o un pazzo? O, magari, a essere pazza è la ragazza seduta al posto di guida…

Ai primi posti delle classifiche in Italia
Tradotta in 18 Paesi

L’uomo che siede in macchina con lei è l’assassino di sua sorella?

«Una trama formidabile, accompagnata da una scrittura di grande qualità e un ritmo serrato.»
The Times

«Un thriller magistrale, concepito in modo geniale e scritto meravigliosamente. Da non perdere.»
The Washington Post

«Una perla preziosa. Una trama ricca e abilmente descritta. I colpi di scena sono assolutamente sorprendenti.»
The Boston Globe

Hanno scritto di Gli occhi neri di Susan:

«Una magistrale unione di più generi. Potrebbe diventare un film grandioso, ma sarebbe un peccato rinunciare alla scrittura evocativa di Julia Heaberlin.» 
The Sunday Times

«Uno splendido viaggio, guidati dalla scrittura potente dell’autrice. I colpi di scena sono impossibili da prevedere e la sensazione è quella di essere seduti con i personaggi in macchina.»
The Washington Post
Julia Heaberlin
Nata in Texas, è una giornalista pluripremiata, che ha lavorato per varie testate locali («Fort-Worth Star Telegram», «The Detroit News» e «The Dallas Morning News»). Con Gli occhi neri di Susan è arrivata in vetta alle classifiche degli Stati Uniti e presto dal suo romanzo sarà tratto un grande film. Chi ha ucciso mia sorella è il secondo libro pubblicato dalla Newton Compton. Vive a Dallas.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mar 2018
ISBN9788822719362
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    Anteprima del libro

    Chi ha ucciso mia sorella - Julia Heaberlin

    1

    «Ma chi diavolo sei?».

    Faccio scivolare la mia regina nello spazio vicino al suo re. «Lo sai chi sono».

    Lui sbatte il braccio destro, quello buono, sopra la scacchiera. Un solo, preciso movimento. I pezzi saltano per aria, rimbalzano sul tappeto, rotolano in angoli coperti dalla polvere di un decennio. Ma non mi scompongo, ci sono abituata. E non si scompone neanche l’unica altra occupante della stanza, una donna sorda che cuce all’infinito un pezzo di stoffa blu. Ma potrebbe essere anche verde, oro o rosa. Potrebbe essere di qualsiasi colore.

    Non ha nessun ago. Le sue mani si muovono nell’aria come sui tasti di una fisarmonica, metodicamente, mentre il suo lavoro invisibile si accumula. Un velo da sposa sbilenco è posato sul groviglio di fili d’argento dei suoi capelli. La lancetta dei secondi dell’orologio di plastica, sopra la sua testa, sussulta.

    Ho sempre avuto il desidero di fracassare quell’orologio a muro. Il tempo, per gli ospiti di questa struttura, non ha significato. Non sentono il bisogno di oltrepassare la porta d’ingresso chiusa a tripla mandata o domandarsi chi o cosa abbia inciso i tre lunghi solchi bianchi che corrono lungo il legno. Non hanno nessuna ragione per pensare a chi non viene mai a trovarli o alle cose terribili che hanno compiuto. Che differenza fa se non ricordi che non ti piacciono le banane troppo mature o le risate preregistrate di I Love Lucy se ne stai mangiando una, proprio mentre stai guardando quel programma?

    Mi domando a cosa stia pensando Carl. Forse sta pensando al modo in cui gli piacerebbe ammazzarmi. Ho ventiquattro anni, rientro nella sua fascia di età prediletta. Bianca. Snella. La gente dice che assomiglio a mia sorella. La differenza è che lei aveva una luce dentro. Vitale. Tosta. Un’intrattenitrice. Le persone erano attratte da lei. La amavano. Carl era attratto da lei e le ha strappato la vita.

    Forse pensa di trovarsi di fronte a mia sorella tornata per perseguitarlo.

    Io sono la sua controfigura, Carl. Un guscio che ha la sua forma, carico di dinamite, pronto alla vendetta. L’attrice nervosa dietro le quinte, che attende di salire sul palcoscenico. I protagonisti saremo io e te.

    E sono anche una perfetta sconosciuta tutte le volte che vengo qui, oppure sta mentendo. Ogni volta sostiene di non ricordare il mio nome. Non risponde quando gli chiedo perché, a giugno, indossa una cravatta natalizia decorata con la faccia del Grinch o dove ha comprato quei suoi vecchi, pesanti stivali o qual è il posto più bello dove lo hanno portato di recente. Gli stivali ogni volta mi ricordano un paesaggio dove rimango immobile, rigida, sul bordo di un pericoloso precipizio, mentre per miglia, davanti ai miei occhi, si dispiega la bellezza.

    Non gli interessano i miei commenti casuali sugli stivali o quel poco di Walt Whitman o John Grisham che gli leggo, vicino all’unica finestra soleggiata della casa. Non gli interessano neanche le barzellette sulle mucche parlanti che gli racconto quando andiamo a passeggiare nei dintorni. Cose che ognuno farebbe per i propri cari. Questo pomeriggio, all’International House of Pancakes, lo guardavo mentre affogava i suoi pancake nello sciroppo di fragola e li tagliava in piccoli pezzi precisi. Avrei voluto chiedergli: Lo sciroppo ti ricorda il sangue?

    Sta provando a farmi credere che i suoi occhi offrano una vista fugace sull’oscuro sistema solare dove si è rifugiato, da solo, ma non mi faccio ingannare. Mi chiedo cosa veda nei miei. Forse qualcosa di familiare?

    È un attore nato, stando alle vecchie testimonianze processuali.

    Quel grumo inoffensivo di violenza che continua a far parte di lui mi ricorda che è ancora forte. Presente. Lo so bene. L’ho studiato attentamente, valutando i rischi. Ho perquisito la sua stanza mentre era sotto la doccia e ho trovato il suo tesoro segreto nascosto nella vecchia valigia sotto il letto: la striscia di gomma rossa che utilizza per esercitarsi e che gli lascia un piccolo segno sull’avambraccio destro, i pesi da cinque chili. L’affilato coltello tascabile e l’accendino d’argento con incisa la lettera N, chiusi dentro la tasca della valigia, insieme a un’unica sigaretta.

    Una fotografia 8x10, appiattita con cura dentro il rivestimento. Potrebbe essere stata scattata nel 1920, o due anni fa. Carl il fotografo, autore del best seller Viaggio nel tempo, è un esperto in immagini senza età. Gli angoli della fotografia sono cedevoli e c’è una piega al centro che taglia la ragazza a metà. È in piedi dentro un paesaggio brullo, color ruggine, un posto che sembra non aver visto una goccia d’acqua da anni.

    Un ciondolo d’argento a forma di chiave le adorna il collo. La stessa piccola chiave che pende, non vista, nascosta in mezzo ai peli grigi del suo petto. L’ho vista una volta sola, quando è uscita fuori dalla sua camicia rimanendo sospesa sopra la scacchiera. Anche lei è stata una sua vittima?

    I vecchi serial killer che se ne vanno in giro indisturbati devono fermarsi e mettere radici da qualche parte, prima o poi. Ho pensato molto a questo. Immagino che a un certo punto si sentano stanchi e decidano di coltivare rose o crescere nipoti. Un’anca si rompe, arriva un infarto, diventano impotenti, finiscono i soldi. Magari non vedono la macchina che sta per investirli o si puntano una pistola alla testa.

    Gli assassini che hanno sconfitto il sistema, i mostri mai scoperti e mai catturati si defilano come una silente e pulsante musica di sottofondo. Oboi che gracchiano e tamburi battenti. Solo in pochi hanno ascoltato questa musica, proprio alla fine, quando ormai è troppo tardi.

    Ci è voluto un tempo infinito per trovare l’uomo che credo abbia ucciso mia sorella. Anni. Decine di colloqui. Centinaia di sospetti. Migliaia di documenti. Giorni passati a leggere, rubare, inseguire. È stata la mia unica ossessione da quando avevo dodici anni e da quando la bicicletta di mia sorella non percorse mai le tre miglia che separavano la nostra casa da quella dove svolgeva il suo lavoro da babysitter. Era mattina.

    Due bambini adorabili, Oscar e Teddy Parker, l’aspettavano. Difficile crederlo, ma adesso sono tutti e due al liceo. Alcuni mesi fa la loro madre ha trovato il mio indirizzo e mi ha spedito la domanda di ammissione di Oscar all’università, accompagnata da un biglietto dove si diceva speranzosa di aver fatto la cosa giusta.

    Non ne ero sicura. Non ho aperto la lettera subito. Non avevo idea di cosa contenesse, ma ero più che certa che ci sarebbero stati riferimenti a mia sorella. L’ho infilata nella cornice dello specchio del bagno. L’idea che la sua vita dovesse essere giudicata da una commissione universitaria mi disturbava.

    Mi ci è voluto un mese intero per trovare il coraggio. Niente, scriveva Oscar, fu più lo stesso. Avevo solo cinque anni ma la sua scomparsa cambiò tutto. Ho portato il braccialetto dell’amicizia che avevamo fatto insieme fino a quando fu così consumato da staccarsi da solo. Nessuna babysitter, dopo, fu alla sua altezza. E, se devo essere sincero, nessun’altra ragazza lo è stata. Nessun tipo di rassicurazione potrà farmi sentire al sicuro: penso a lei ogni volta che ho bisogno di essere coraggioso. Ed è lei la ragione per cui voglio prendere una laurea in diritto penale.

    Ho sempre pensato a come la morte di mia sorella abbia profondamente influenzato la mia famiglia. Influenzato me. Perfino il mio corpo non è stato più lo stesso, come se ogni cellula avesse subito un mutamento chimico irreversibile e fosse rimasta in uno stato di allerta perenne.

    Non ho neanche mai pensato al dolore provato dai bambini che la supplicavano di leggergli Harry Potter perché era bravissima a imitare le voci dei personaggi. Quando alle 9.22 del mattino la signora Parker chiamò per chiedere come mai Rachel non si fosse fatta viva, io stavo preparando la farina per fare i biscotti al cioccolato.

    I miei genitori, entrambi contabili, erano usciti per andare al lavoro un quarto d’ora prima. Avevo dodici anni e per l’estate i miei doveri erano tenere pulita la casa e preparare la cena. Era un giorno qualsiasi in una casa qualsiasi.

    Rachel sta male? Mi chiese la signora Parker, al telefono. Ricordo che non era arrabbiata ma soltanto preoccupata. Ha la febbre?

    Il mio primo pensiero fu: un incidente. Un’auto l’ha investita e adesso è svenuta da qualche parte. Il barattolo mi cadde dalle mani e la farina si sparse sulle piastrelle nere del pavimento.

    Nessuno pulì per molto tempo. Nella confusione che seguì le impronte di farina si sparsero per tutta la casa, impronte che rimasero lì per settimane. Anche mesi dopo se ne potevano vedere gli aloni, come se Rachel fosse ancora lì con noi, in giro per le stanze come un fantasma.

    Ora che sono finalmente qui insieme a Carl, pronta per fare la mia mossa, mi chiedo ancora una volta se devo lasciar perdere. Non ho raccontato a nessuno del mio piano per farlo uscire da questo posto e scoprire la verità.

    Non sarebbe certo la prima promessa fatta a me stessa che non riesco a mantenere. La ragazza della fotografia, con la piccola chiave sul collo, sembra pregarmi con il suo sguardo di andare via senza voltarmi indietro.

    Non voglio pensare a cosa potrebbe ancora fare Carl con due mani perfettamente funzionanti.

    Il condizionatore sferraglia. Una brezza tiepida soffia dalla ventola sul soffitto. Il velo da sposa si solleva appena, una ragnatela che accarezza una guancia piena di rughe.

    Mi inginocchio per raccogliere i pezzi degli scacchi, sparendo sotto il tavolo da gioco.

    «Chi diavolo sei?», urla, colpendo il tavolo così forte da farmi sbattere la testa. Poi mi calpesta la mano con uno dei suoi stivali, spingendo per farmi male. Libero le dita dal suo peso, mi impedisco di piangere e apro il pugno per far cadere sulla scacchiera il pezzo più piccolo. Un pedone, ovviamente.

    «Sono tua figlia», mento.

    È l’unico modo in cui posso ottenere la sua custodia.

    Chi diavolo sei?

    2

    Dopo dieci visite ho iniziato a mettere in pratica il mio piano. Carl è ancora fermamente convinto che io non sono sua figlia ma adesso ricorda il mio nome, o almeno il nome falso che gli ho dato. Durante una delle nostre conversazioni ho suggerito, in modo fintamente casuale, che potremmo fare una vacanza insieme. Un paio di settimane, gli ho promesso. Per cambiare un po’ aria, per conoscerci meglio. Un diversivo alla vita claustrofobica di questa prigione.

    «Se vengo con te potrò usare una penna?», mi chiede. «La signora T mi proibisce di usarle. Pensa che potrei conficcarne una nella gola di qualcuno».

    «E questo sarebbe un bel casino per me da pulire», conferma la signora T dalla porta della cucina. Il suo «culo polacco ballonzolante», come lo chiama Carl, sbuca sempre fuori al momento opportuno, silenziosamente.

    Ma fu proprio la signora T a farlo entrare nella struttura, tredici mesi fa. La sua comunità di recupero per vecchi criminali è stata l’unica ad accettare un uomo sospettato di essere un serial killer, affetto da demenza senile, dopo che un poliziotto di Waco lo trovò mentre vagava in autostrada.

    Il famoso fotografo d’arte e documentarista Carl Louis Feldman, sospettato di aver molestato e sequestrato giovani donne per anni, non era neanche in grado di ricordare il proprio nome. Ci sono volute le sue impronte e un campione di dna per identificarlo. Un ospedale locale gli diagnosticò uno stato precoce di demenza senile e venne rispedito nel mondo.

    Perché anche se un pubblico ministero del Texas lo aveva definito come «un perverso Ted Bundy con una macchina fotografica e un Ford pick-up», lo stato si era dimenticato di lui.

    Fu dichiarato non colpevole per un caso di sparizione, una ragazza – l’unico per cui era finito a processo e l’unico con una prova incriminante certa, basata sul dna.

    Ci vollero due giorni di consultazioni ma alla fine la giuria lo lasciò andare. E lui sparì, nascondendosi per anni in qualche buco, mentre io battevo il piede per l’impazienza, aspettando che strisciasse fuori.

    Chi l’avrebbe mai detto che sarei finita qui, seduta su questa vecchia sedia, spalla a spalla con l’assassino di mia sorella e con una donna che tesse una tela immaginaria, così vicina a lui da sentirne il calore. Il velo da sposa oggi non è al suo posto, ma le sue dita si muovono frenetiche, come se ci fosse qualcuno dietro di lei a spronarla con la frusta.

    Gli altri ospiti della casa sono sparsi in cucina, nei bagni, nelle camere da letto – lontani dal ronzio della televisione che sancisce l’inizio di ogni giornata alle sei del mattino. Quel brusio acuto che sembra nascere dalle sue viscere rimane nella mia testa per ore, dopo che me ne sono andata.

    Carl distoglie lo sguardo dallo schermo di fronte a noi, dove scorrono le immagini di uno special di Discovery Channel. Abbiamo appena scoperto che una specie di tarantola può sopravvivere per due anni senza mangiare.

    Carl si volta verso di me, piantando il suo ginocchio nella mia coscia intenzionalmente. Mi immagino lo stesso ginocchio usato per tenere ferma Rachel. Ringrazio il cielo che la donna dietro di me sia sorda e che i suoi aghi affilati siano soltanto immaginari.

    Carl solleva le mani. La signora T non è in vista. Vuole toccarmi. E io glielo lascerò fare. Avrà quello che vuole. E io farò tutto quello che sarà necessario.

    Mi sfiora la guancia con i ruvidi polpastrelli del medio e dell’indice mentre guardo davanti a me lo schermo del televisore dove un ragno peloso sta lottando con una lucertola.

    Carl segue il profilo del mio mento, del mio orecchio. Arriva al collo. Quando raggiunge la zona concava sotto la trachea inizia a premere con due dita, più forte del dovuto.

    «Bum, bum». dice. «Bum, bum. Sento la tua carotide».

    Annuisco, deglutendo pesantemente. So tutto dell’arteria carotidea: ho letto centinaia di referti medici. Ci sono tre strati: tonaca intima, tonaca media, tonaca avventizia. Attraverso le due carotidi passa il novanta per cento del sangue che affluisce al cervello. I programmi televisivi non mentono. Un colpo violento sferrato contro una delle due può provocare la morte in pochi minuti.

    Carl tiene le sue dita appiccicate alla mia gola anche quando bussano alla porta con pochi colpi rapidi, seguiti da due striduli colpi di campanello.

    Mi piego in avanti per raggiungere la mia borsa e Carl lascia la presa. Posso finalmente liberarmi dal disgusto e dall’umiliazione che spero il mio volto non abbia mostrato. Le mie dita rovistano nella borsa. Ascolto lo scricchiolio del pavimento, il fruscio della gonna della signora T, il fragore metallico della porta principale che si apre.

    Quando torno a sedermi, la visitatrice sta entrando. È una ragazza dai capelli scuri che si chiama Lolita, con un tatuaggio a forma di rosa stampato sulla pelle delicata del polso. Lolita viene a trovare suo nonno ogni mercoledì. Si è impegnata molto per cercare di dimenticare che il nonno una volta ha dato fuoco a una casa con sei persone dentro. Adesso è un uomo mite. È uscito dalla prigione solo perché nell’incendio non ci fu nessun morto.

    Ho notato che Lolita tiene la testa bassa tutte le volte che si avvicina a Carl. Come al solito indossa una sciarpa decorata con disegni di lumache rosa e bianche. A volte tiene la sciarpa legata ai capelli, altre volte infilata nella cintura. Oggi la sciarpa pende inerte dal suo collo. L’ho sentita raccontare alla signora T che la sciarpa è un regalo natalizio del nonno. La indossa per aiutarlo a ricordare chi è.

    La signora T e Lolita escono dalla stanza, parlottando tra loro, senza degnarci di uno sguardo. Prendo una penna dalla mia borsa e la porgo a Carl, è una delle mie preferite, con l’inchiostro che si muove lentamente all’interno, quasi fosse petrolio.

    «Come volevi», dico. «Allora verrai?». Pronuncio la frase con un tono un po’ troppo supplichevole e speranzoso. Forse come farebbe una figlia, ed è un bene.

    Si mette la penna nella tasca dei jeans, scoprendo per un attimo la peluria nera sotto l’ombelico. Il mio battito cardiaco accelera e lo posso sentire nella gola, ancora più forte di quando mi teneva le dita proprio lì.

    «Bella ragazza, bella sciarpa,» sentenzia Carl. «Lo sapevi che le lumache marine hanno così tanto veleno da poter uccidere un uomo? Le chiamano le Sigarette perché una volta che ti hanno punto hai soltanto il tempo di fumare una sigaretta prima di morire». Mi punzecchia le costole. «E dai, sorridi. Ho sentito dire che è un’esagerazione». Carl si porta le dita alla bocca e fa una smorfia di disappunto. «Chissà se Lolita fuma».

    3

    La prima volta che ho visto una fotografia di Carl mi è sembrata familiare, con una consapevolezza dolorosa. Era una veduta parziale, un ritratto artistico ripreso in penombra. Ho avuto la sensazione di averlo visto da qualche parte, una sensazione che provo ancora oggi. Quando ci penso è come tentare di ricordare il nome di un personaggio importante di un libro letto anni fa o cercare di far riemergere una memoria genetica. E allo stesso tempo è una delle ragioni per cui sono così sicura che Carl sia l’uomo che sto cercando.

    Dopo la mia proposta sono andata a trovare Carl altre due volte e non ha ancora accettato di venire con me. Non riesco a smettere di pensare a lui, la sua immagine ha un posto fisso dentro la mia testa, ormai. Mi sveglio nel cuore della notte. Da sola, nella mia camera, sento le sue dita che percorrono il mio corpo, alla ricerca dei punti di pressione.

    Adesso la rabbia mi fa esplodere il petto, lo stesso sentimento violento che ho provato tornando a casa, oggi. I nostri corpi sono seduti su vecchie sedie da giardino nel cortile posteriore della signora T. In un angolo c’è un piccolo giardino maltenuto dove Carl mi ha detto, senza scomporsi, di aver sepolto tre gatti e uno scoiattolo. Caprifoglio ed edera si arrampicano senza controllo lungo una robusta staccionata di tre metri, dando vita a un groviglio invalicabile.

    «Non sono interessato a questa cosiddetta vacanza», si lamenta Carl. «Potresti essere una pazza. Sai che è la leonessa a cacciare? L’ho imparato su Nat Geo, ieri. Un punto in più per la signora T, che ha rinnovato l’abbonamento alla televisione via cavo». Beve succhiando da una cannuccia infilata in un grosso bicchiere Big Gulp la mistura che gli ho preparato seguendo le sue indicazioni: un terzo di Sprite, un terzo di Dr. Pepper e un terzo di Coca-Cola alla ciliegia.

    All’improvviso decido per una nuova strategia. Cerco di parlare a voce bassa, in modo da non poter essere ascoltata da fuori. «Ho bisogno di sapere».

    Carl, con calma, tira fuori dalla tasca un quadrato di carta gialla piegato e inizia ad aprirlo. «Voglio sentirtelo dire».

    «Ho bisogno di sapere se sei un assassino. Sono tua figlia. Ho bisogno di sapere che tipo di sangue mi scorre nelle vene. Me lo devi». Almeno la prima e l’ultima frase sono vere.

    «Non mi sembra una cosa difficile, no? Basta che sia chiaro che questa gita non servirà ad avvicinarci di più o a prendere una boccata d’aria fresca. Se tu fossi davvero mia figlia me lo avresti detto fin dall’inizio. Mi avresti detto che non vuoi che i tuoi figli diventino degli assassini. Avresti pianto a dirotto. E saresti schizzata via da qui alla svelta. Questo è quello che farebbe una ragazza normale».

    Apro la bocca per contraddirlo ma non riesco a dire niente. Carl ha ragione. Non sono una ragazza normale. Adesso è in uno stato di estrema lucidità e non voglio interromperlo.

    «Devi capire che tutto questo significa giocare con la follia», continua. «Non posso ricordare. Molto spesso si fa vivo un poliziotto che vuole sapere esattamente la stessa cosa. È convinto che io lo stia ingannando. Se non ci è riuscito lui, come pensi di poterci riuscire tu?»

    Quale poliziotto? È qualcuno che conosco? Per un momento sento le dita di qualcun altro.

    «Ho un piano per farti ricordare», lo blandisco. «Luoghi. Fotografie. Non vuoi sapere di che si tratta?».

    «Perché dovrei? Sei molto più carina di un poliziotto, comunque. Una leonessa in caccia».

    Carl sta lisciando il foglio giallo che aveva in tasca sul bracciolo della sedia. Non riesco a leggere le parole, da qui, ma vedo che sta usando la mia penna blu. Quindi tiene fermo il foglio davanti ai suoi occhi, scrutandolo con attenzione come un bravo bambino. La carta trema leggermente, anche se l’aria è ferma e calda.

    Quando Carl inizia a leggere capisco che ha già deciso che verrà con me.

    Mi sta elencando le sue condizioni, tutto ciò che vuole in cambio.

    Tè dolce tutti i giorni, come quello che faceva sua nonna.

    Libri.

    Una vanga.

    È una lista davvero lunga. Smetto di ascoltare quando è appena arrivato a metà della lista e comincio a pensare alla prossima mossa: lisciare un po’ la signora T perché spinga Carl a venire con me. Le ho raccontato che il mio certificato di nascita riporta uno «sconosciuto» al posto del nome del padre, e che sono risalita fino a lui tramite un confronto del dna. Sperando che non mi chieda di farle vedere i documenti un’altra volta.

    Quando finisce di leggere, Carl annuncia magnanimo: «Non mi sembra che tu voglia farmi avere queste cose prima di partire».

    Ripiega il foglio di carta con cura e se lo rimette in tasca. «Sei una piccola anatra buffa. Sottolineando piccola. E buffa. Mi chiedo perché tu non sembri minimamente preoccupata del fatto che potrei uccidere anche te».

    Il mio taccuino di sopravvivenza,

    età: 8 anni

    4

    La speranza mi provoca vertigini. Sta finalmente facendo i bagagli per venire con me. T-shirt piegate in quadrati perfetti. Calzini arrotolati dentro un sacchetto di plastica. Quasi un ossessivo-compulsivo, dichiaravano due referti psichiatrici. Carl aggiunge anche un paio di felpe e due pigiami.

    I cassetti della sua stretta camera blu sono già vuoti; l’armadio è uno scheletro di appendiabiti nudi. Sta portando con sé tutti gli abiti che aveva al momento del rilascio dalla prigione, quando è entrato al Centro di recupero, la sua ultima spiaggia. E non riempiono neanche una valigia.

    Dov’è tutta la sua roba? Subito dopo il processo, in cui venne dichiarato non colpevole, ha venduto la sua casa ed è sparito per anni. Circolavano voci che possedesse un rifugio segreto, la proverbiale capanna nel bosco. Se ne parlava tra le righe di un articolo dedicato a Carl apparso su una rivista patinata e intitolato Camera oscura, un titolo perfetto da dedicare a un fotografo sospettato di essere un serial killer.

    La signora T mi osserva dalla porta, braccia incrociate sul grembiule, sguardo di disapprovazione in stile militare. Mi ci è voluta una settimana ma alla fine l’ho convinta. Siamo arrivate ad accordarci per dieci giorni invece che quattordici.

    «È davvero convinta di farlo?», dice la signora T, interrompendo i miei pensieri. A lei piace farsi chiamare «signora T», stanca delle persone che storpiavano il suo cognome di origine polacca, strabordante di consonanti.

    Più di una volta mi ha ricordato quanto fosse coraggiosa a offrire un rifugio a spostati e criminali «come ci ha comandato Cristo». L’ho sempre disprezzata, fino a quando, due settimane fa, passando accanto a una camera, l’ho vista abbracciare la signora con il velo. La signora T la stava rassicurando. Il tuo fidanzato tornerà dalla guerra in tempo per sposarti.

    «Andrà tutto bene», dico alla signora T.

    «Dieci giorni sono tanti. Non mi stancherò mai di dirlo. Devi dargli le sue medicine. A volte ha dei tremori, per il resto sta abbastanza bene». Gesticola indicando la piccola farmacia stipata nel sacchetto a chiusura ermetica che ho in mano. «È un bugiardo, lo sai. Spesso dimentica le cose e quando succede si comporta male. Te ne sei accorta da sola la settimana scorsa. Ma quanti anni hai? Diciannove, venti? Non mi sembra che tu abbia l’età giusta per essere sua figlia. Sei un po’ troppo giovane. Se faccio un rapido calcolo c’è qualcosa che non mi torna».

    E allora fermami. Qualcuno dovrebbe farlo, dicevo a me stessa.

    «… in ogni caso ho voluto darti fiducia perché sembra che il tuo cuore sia sincero. Ma non dimenticare il nostro accordo. Ti sto praticamente stendendo un tappeto rosso davanti. Non voglio che mi taglino i fondi se quella bacchettona dell’assistenza sociale scopre che Carl non è qui, durante il controllo mensile. Anzi, lo stato dovrebbe pensare che quello che mi danno non è abbastanza». La signora T è particolarmente orgogliosa di quest’ultima frase. Tutte le volte che la ripete sfodera lo stesso sorrisetto compiaciuto.

    «… quello di cui non si rendono conto è che assistere sei mezzi matti è come assisterne dodici. Le loro menti sono per metà ancora brillantissime, sempre impegnate a fare piani per rubare le ciambelle o far sparire una bottiglia di tequila. Ma l’altra metà viaggia nel tempo, diretta Dio solo sa dove. Stare qui può diventare a volte particolarmente impegnativo. Dico bene, signor Feldman?».

    Sono rimasta in silenzio durante tutto il suo discorso, perché l’ho già ascoltato molte volte. Carl sta piegando la sua cravatta natalizia per infilarla poi in un angolo accanto alla biancheria intima. Mi solleva il fatto che non la indossi. Meglio non destare attenzioni.

    Un’ora fa, facendogli credere di essere impegnata con la sua padrona di casa, l’ho osservato attentamente attraverso il vetro della finestra della cucina, mentre seppelliva i suoi pesi da dieci libbre nel disadorno giardino sul retro. Non ho idea di cosa sia successo ai suoi altri tesori. Ma ci penserò più tardi.

    Il coltello che può tagliare la pelle come se fosse carta o spillare il succo di fragola dal cartone. La lunga striscia di gomma rossa che può soffocare. L’accendino con la N che funziona ancora. Ho fissato la sua fiamma prima di rimetterlo a posto.

    La fotografia della ragazza nel deserto che mi lascia la bocca secca.

    «Non so che cosa vi aspettate da questa gitarella di famiglia», dice la signora T, «ma non aspettatevi momenti di

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