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Ditta mia
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E-book213 pagine3 ore

Ditta mia

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Info su questo ebook

Anni '80, nel cuore del Polesine, in una via chiamata in tanta malóra, lontana diversi chilometri dal centro abitato. Là, ci vivono otto famiglie: una di queste, soprannominata Beléssa, è composta da marito, moglie e otto figli. La madre dei ragazzi, Giuditta detta Ditta, ha modi spicci e parla un italiano colorito dal dialetto locale. In cuor suo soffre per non aver conseguito la licenza media e per non avere ben chiaro cosa vuole fare da grande. Alla ricerca del suo posto nel mondo, Giuditta si "consola" recitando i versi di poesie famose. Inoltre, prendendo spunto dall'intento di Marietta, la sua vicina, Ditta si prodiga per convincere gli abitanti della via a realizzare il desiderio dell'amica: costruire un piccolo capitello lungo il sentiero di casa. L'idea incontra subito degli ostacoli, in apparenza insormontabili. A spingere Ditta a darsi da fare sono due momenti ben precisi, attraverso i quali inizia a capire, a osare e a reagire, fino ad arrivare alla concretizzazione del suo sogno. Il romanzo, attraverso le consuetudini proprie della civiltà contadina, ne mette in risalto i valori intrinsechi e i punti cardine, frutto della saggezza popolare e del forte attaccamento alla terra e alla natura umana.
LinguaItaliano
Data di uscita26 giu 2023
ISBN9791221481426
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    Anteprima del libro

    Ditta mia - Grazia Previato

    1

    Non me ne ero resa conto fino a quando non sono andata per la prima volta al mare con la signora Gina: una donna prosperosa e ironica, amica di famiglia, solita mettere in mostra le sue tette strabordanti, piene e talmente voluminose da far pensare subito a quelle di una vacca da mungere. È stata lei, osservandomi in costume, a lodare pubblicamente i miei seni, specificando che l’attaccatura alta e la forma a pallina li rendono estremamente belli. Lì per lì non ho capito appieno il significato di quel commento; ho preferito evitare di complicarmi la vita da sola, sfuggendo alla sua affermazione.

    Non sono a mio agio in spiaggia, mi dà fastidio essere obbligata a starmene senza fare nulla per ore e ore; sono abituata a sgobbare dalla mattina alla sera, avendo messo al mondo otto figli, tuttora da gestire, e con un marito sempre voglioso di sesso e mai di lavoro.

    Mi sono lasciata convincere dai miei due figli più grandi a mollare tutto per un giorno: per il mio quarantesimo compleanno hanno voluto a tutti i costi portarmi in spiaggia con la Gina. Per non sentirli predicare li ho accontentati, a patto che per altri quaranta mi lascino in pace. La mia accompagnatrice, invece, è di casa al mare: ci va con il marito tutte le estati per riposare. Ma io questa cosa mica l’ho capita: lei, di figli, zero; di lavoro, meno che meno; è servita e riverita; ha una donna che le stira i panni e una che le pulisce casa e, allora, da che cosa si deve riposare? Boh?! L’unico pensiero che mi viene è che, forse, abitando in città si stanca a venire al paesello da me. Ma viene comoda-comoda, tenendo le chiappe sulle ruote. Sì, lo so che si dice auto, ma io così mi capisco meglio: noi con la quinta elementare siamo gente pratica, che non fa giri di parole e che non confonde… usandone altre altolocate. Per questo, se capisco io capiscono tutti!

    Comunque, la Gina mi fa simpatia; ho accettato il suo invito anche per questo motivo. In fatto di uomini, mi diverte ascoltare le sue massime sussurrate in un orecchio. Ogni cinque minuti, sotto l’ombrellone mi bisbiglia qualcosa ed io, per nulla abituata a tutto questo incipriamento,¹ me la rido a voce alta e fisso intensamente il lui di turno, solo per verificare se la Gina ci ha preso. E, sacramento², ci azzecca ogni volta! Lei nota delle cose negli uomini a cui io, in tanti anni di matrimonio con lo stesso individuo, non ho mai fatto caso. Non capendone il perché, provo a chiederlo alla Gina che, da autentica gatta in calore, mi dice che non è colpa mia. È che non posso accorgermi di certi particolari maschili per il semplice fatto che non ho avuto la possibilità di diversificare. Ma che vuol dire? Ecco, è per frasi come questa che mi arrabbio con me stessa per non aver studiato e per essere costretta a non poter ribattere perché non ho gli strumenti per farlo.

    Mi è bastato sentire una parola: diversificare, per essere avvolta dalla nebbia. Sì, quella che ti bagna tutta, ti entra anche nelle ossa e ti confonde, impedendoti di vedere con chiarezza tutto quello che ti è davanti. Quella! Lascio correre per non mostrare ai quattro venti la mia ignoranza, ripromettendomi di chiarire la questione la prima volta che verrà da me in campagna.

    Stanca morta di starmene stesa sulla sdraio, chiedo alla Gina di andare in riva al mare per sentire se l’acqua è fredda e lei, che non vedeva l’ora di farlo, mi accompagna di corsa muovendo un gran polverone. Solo che non si accontenta di bagnarsi i piedi, nossignore, si getta dentro il mare e io appresso a lei. Ad ogni onda fa un balzo e si strizza le tette… la guardano tutti, perché, un pezzo di donnona come quella, devi proprio guardarla!

    Io faccio il meglio che posso, nel senso che sto a galla; ho imparato a cavarmela saltando i fossi con mio marito. E poi rido e urlo ad ogni onda che mi colpisce: ci sto prendendo gusto! Mi spiace solo per la messa in piega fatta ieri per non sfigurare rispetto alla Gina.

    A costringermi ad andare dalla parrucchiera, stavolta sono state le mie figlie: temevano che non reggessi il confronto con la Gina. Invece, a dispetto delle gravidanze, posso vantarmi di cavarmela: ho una carrozzeria ancora in buono stato e meno pancia della Gina.

    Lei è piena in tutto, ma il suo grasso è ben distribuito, ad eccezione del soppalco dove, a Nostro Signore, deve essere scappata un po' la mano quando l’ha creata.

    Uscite dall’acqua, la Gina tira fuori dalla borsa un’insalata rachitica e sbiadita, da non far venire voglia di mangiarla nemmeno ad un affamato bavoso. La guardo con compassione e non ci penso un attimo a toglierle dalle mani quella porcheria che anche le mie galline rifiuterebbero. Lei mi fa una faccia come a dire…e ora che mangio? E io, che di economia domestica ne so più di un dottorone dell’università, piazzo davanti al suo bel musetto un panino strabordante di salame. Non faccio nemmeno in tempo a darglielo che la Gina mi abbraccia e mi dà pure un bacetto sulla guancia chiamandomi tesoro. Senza mezzi termini le dico: «stammi lontana bellezza, e non chiamarmi in quel modo, che io ho gusti semplici e non sopporto tutto questo sbavare³ e poi… mi piace ancora il mio Zeffiro, anche se mi ingravida ad ogni primo bacio che mi dà». Per mostrarle che non le tengo il muso, le passo anche un bicchiere colmo di bianchetto per mandare giù il pane e la Gina, da gattona, lo tracanna d’un fiato senza toccarmi.

    Mi metto seduta e mi godo il mio spuntino guardando in giro.

    Un bambino sotto l’ombrellone, tre file davanti a noi, mi guarda e ad ogni morso di panino manda giù. Sua madre nemmeno se ne accorge, tutta presa a leggere un giornaletto che io chiamo il conta balle. Allora, senza tante cerimonie vado verso il piccoletto, saluto e chiedo alla madre se posso offrire a suo figlio un po’ del mio panino. Quella, desivia⁴, mi fa un cenno con la mano, come a dire mi hai interrotta nel bel mezzo della balla più grossa.

    Accompagno il ragazzino verso la mia postazione, apro la mia borsa e scelgo per lui un bel panino con la frittata fatta con le uova delle mie cocche padovane. Il piccoletto addenta il pane come se non avesse mai mangiato in vita sua. Quando assisto a queste cose mi parte subito l’embolo e, a voce alta, commento rivolta a quella insemenia⁵ che l’ha fatto: «sito vegnù a cavarte la fame dala Ditta!? Ghe penso mì, caro el me putìn⁶». La Gina, ridendo, mi fa notare che ho usato parole in italiano e altre in dialetto: «io, tutto il tuo italianamento⁷ non lo so. Anzi, se mi sforzo posso anche cavarmela piuttosto bene, ma oggi non mi va di sudare e, comunque, mi faccio intendere lo stesso e anca massa», rispondo seccata alla donna!

    Intanto, il piccolo mi chiede un secondo panino: è diventato tutto rosso e si capisce che mangia proprio di gusto. La Gina vuole a tutti i costi prendergli un gelato, che lui rifiuta subito. «Per forza», le dico io, «non hai fatto i conti con i due panini da due etti l’uno; ti pare che il bimbo riesca a mangiare anche quello?». Ma che ne sa questa qui di figli!

    Una volta riaccompagnato il bimbetto dalla madre, la Gina pretende che ci spostiamo al bar per bere il caffè, sedute e riverite per bene, e non al banco come due che vanno di corsa.

    «Va bene, facciamo anche questo», le dico, «basta che il caffè non mi costi come l’oro». Sceglie il tavolo e si accomoda mettendo in bella mostra tette e cosce, tanto che il cameriere, arrivando, inciampa e per poco non ci rovescia i caffè addosso. La Gina, lusingata, mi bisbiglia che, se una possiede tanto ben di Dio, ha l’obbligo di esibire le sue doti. E come darle torto! Se fossi un uomo, vedendola, mi sarebbe venuto subito duro. Glielo dico e lei, sussurrando di nuovo ‘tesoro’ mi ringrazia del complimento. Sono contenta che la nostra giornata finisca in gloria.

    Prima di salutarci, la Gina mi dà il suo regalo di compleanno. Nell’aprirlo sono imbarazzata: non sono abituata a ricevere regali e, soprattutto, non sono in grado di ricambiare. Lei sembra accorgersi del mio disagio e, prima che apra del tutto il pacchetto, mi dice che non devo assolutamente sentirmi in debito, considerato tutto quello che faccio per lei e il marito. Risollevata, mi concentro sulla sorpresa: è una camicia da notte lilla, in seta, morbida e molto provocante. Notando il mio stupore, la Gina mi sussurra che sono una donna: è mio dovere farmi desiderare ogni istante dal mio uomo. Divertita, ricordo alla Gina che ho otto figli e li ho fatti anche senza tanti fronzoli! Quel regalo mi ha comunque fatto piacere e so già che lo metterò da parte per la mia Nina.

    ___________________

    ¹ Modo di dire per indicare un eccessivo formalismo, paragonato al gesto di incipriarsi abbondantemente il viso; come a dire che il troppo storpia

    ² Modo di dire, intercalare

    ³ Desiderare qualcuno o qualcosa in modo ardente, eccessivo

    ⁴ Insipida

    ⁵ Scema

    ⁶ Sei venuto a toglierti la fame dalla Ditta (diminutivo di Giuditta), a te ci penso io caro il mio bambino

    ⁷ Italiano fluente

    2

    Stamattina mi sono alzata alle cinque, un’ora prima del mio solito orario: ho tanto da fare oggi, ci sono sei casse di pomodori che mi aspettano. Inizio con il lavarli con cura sotto la pompa davanti a casa, gli do una prima passata con le mani per togliere la terra, poi li butto nelle bacinelle disposte in fila e piene d’acqua, per un secondo lavaggio. Procedo facendo attenzione a non svegliare i miei figli: la pompa dell’acqua è proprio sotto le loro finestre che danno sull’aia davanti all’abitazione. Intanto che lavoro, sento, senza vederla, che si è alzata l’Armida; la camminata della mia primogenita è inconfondibile, per via del suo trascinare un passo dopo l’altro; è la meno bella delle figlie, ma è una gran lavoratrice. Portandomi un caffè, si siede accanto a me e in poco tempo prepariamo i pomodori per la seconda operazione: la strizzatura.

    Una alla volta arrivano fuori anche le sorelle; chiedo a Nina, la più piccola, di passarmi quel pomodoro sporco che mi è finito dentro la bacinella più grande. Lei, obbediente e ancora piena di sonno, immerge un braccio nel contenitore, afferra qualcosa e, senza guardare, me lo porge. Armida ride e inizia a prenderla in giro, io faccio finta di niente, solo che Nina, finito lo sbadiglio, guarda quello che ha in mano e, buttandolo via, inizia a strillare come una matta tenendo il braccio in alto come se scottasse. «E che sarà mai un topolino annegato», le dico per sminuire l’accaduto, ma la piccola, in preda al delirio, inizia a strofinare la mano con il sapone poi, non contenta, ripete l’operazione con quello di Marsiglia che uso per i panni sporchi; allora la sgrido, perché sa che quello non si tocca: costa caro e mi deve durare. Furiosa, entra in casa e poco dopo esce con il contenitore della candeggina. Si versa sulla mano il liquido tossico e poi di nuovo sotto l’acqua corrente per sciacquare la mano che ora sa di chimica. Avrà già consumato quattro ettolitri di acqua!

    Se non fosse che ho un debole per quest’ultima nata, l’avrei già rimproverata a dovere. Per sminuire l’accaduto, le ordino di andare a fare la spesa dalla Cosetta, così si distrae e non pensa al sorcio. Armida la canzona dicendole che, al suo rientro, la panteganina⁸ sarà già asciugata e appesa in camera sua… e le due ragazze finiscono per tirarsi i capelli a vicenda. Zeffiro, svegliato dal casino fatto dalle figlie che bisticciano, fa una rapida apparizione da una delle due finestre della nostra stanza; mi sorride e commenta che è ancora troppo presto per lui per scendere di sotto però, rivolto all’Armida, le dice di aver voglia del suo caffellatte «con il pane biscotto, mi raccomando, non con il pane duro di ieri» sottolinea. «E ti pareva» commento io, quest’uomo mi manderà al Creatore. È uno scansafatiche, l’ho sempre saputo, solo che è tanto ruffiano e con lui rido sempre. Fisicamente si difende molto bene, tanto da essere soprannominato Beléssa (di bell’aspetto). Qui, in paese, i capi famiglia hanno tutti un soprannome, per distinguersi nei casi di omonimia o dai diversi nuclei familiari con lo stesso cognome. Tutto sommato il soprannome del mio uomo non è male, ne vado fiera perché è legato alla sua bellezza fisica. Alcuni paesani, poveretti, hanno soprannomi davvero orribili anche da pronunciare come…culofiappo o bosegato⁹. Comunque, tornando a Zeffiro, sembra avere una predisposizione innata nel trattare le donne. Mi fa sentire importante, è gentile e sensibile e non mi forza mai. Ecco, sono queste le cose belle che ha, nonostante quelle brutte non pareggino il conto. Con lui sto bene, a dispetto di quello che può pensare la gente. Dal primo istante che l’ho visto, ho pensato subito a una poesia imparata a memoria a scuola:

    Quant’è bella giovinezza,

    che si fugge tuttavia!

    chi vuol esser lieto, sia:

    di doman non c’è certezza.

    (Trionfo di bacco e Arianna - Lorenzo de’ Medici)

    Zeffiro, con il solo stare accanto a me, m’invoglia alla spensieratezza, stimola l’allegria e la voglia di godere pienamente di tutto. Ne è consapevole e qualche volta ci marcia, ma mi rispetta e, secondo me, non è una cosa da poco. I miei figli maschi lo sopportano solo per il mio bene, non accettano che non abbia un lavoro sicuro e che non faccia abbastanza per mantenere la famiglia. Viviamo in un paesino piccolo, nella casa che era dei bisnonni di Zeffiro. Qui ci si conosce tutti e, per la gente del paese, mio marito è un buono a nulla e un mantenuto. In parte è vero, perché non ha un lavoro fisso, ma non me n’è mai importato molto. Per fortuna sono tanto indaffarata; non ho tempo di star dietro a quelle quattro comari sempre pronte a spettegolare. Alla prima occasione voglio chiedere al prete come mai le più pettegole sono proprio le vedove. Voglio sentire che mi dice il curato e se anche lui la pensa come me. Sono convinta che le vedove ci diano dentro con la lingua: primo, perché l’hanno sempre avuta lunga; secondo, perché, quando erano in vita i loro mariti, facevano finta di essere remissive e ora che non ci sono più viene fuori la loro vera indole di donne volubili e mai contente, e per questo, sempre con la boca roèssa. I miei ragazzi hanno ragione sulla scarsa voglia di lavorare del padre, lo so questo, però, ringraziando la Madonnina, non ci manca niente e a me va bene così.

    Finalmente sull’aia è tornato il silenzio. Armida ed io lavoriamo senza sosta fino a mezzogiorno; siamo riuscite a mettere a sgocciolare tutti i pomodori delle sei casse; velocemente togliamo anche i semi e predisponiamo il passaverdure. Prima di triturare i pomodori, li scottiamo sul fuoco; poi, nel

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