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Con te o senza di te
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E-book255 pagine3 ore

Con te o senza di te

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Info su questo ebook

Non è mai troppo tardi per essere felici

Una storia intensa ed emozionante

Allison ha ventisette anni e vive a New York. Lavora al Blusher, un pub mal frequentato, perché ha bisogno di soldi per concludere gli studi: il suo traguardo è una laurea in Medicina. Una sera, al pub, conosce Benjamin, un ragazzo dal fisico atletico e lo sguardo magnetico. Trascorre con lui una notte, che doveva essere solo un’avventura, ma che invece scatena in Allison una reazione completamente inaspettata. Quello che lei non sa è che a causa di una malattia diagnosticata di recente, Ben ha dovuto lasciare la sua squadra e rinunciare al sogno di diventare la stella del rugby americano, come tutti i tifosi si aspettavano. I tentativi di respingere Allison, comunque, saranno inutili e ben presto i due si ritroveranno travolti da un sentimento che li porterà a lottare insieme contro un nemico subdolo. Convinti che ogni istante vada goduto al massimo.

La sofferenza della malattia raccontata con delicatezza e umanità, attraverso una storia d’amore che è un inno alla voglia di vivere

«È un crescendo di emozioni intenso, inaspettatamente commovente e irresistibile fino alla fine!» 

«Scritto bene, in uno stile fresco e travolgente che mi ricorda molto le autrici rosa che amo, come la Crownover o la Kennedy! La storia è un perfetto mix tra gioia, passione e... vita! Sì, in fin dei conti, Con te o senza di te parla di vita nel senso più pieno del termine!»
Jules Hofman
È lo pseudonimo di un’autrice italiana. Laureata in Economia e Management, ama leggere, viaggiare e guardare thriller. Ha ottenuto un grande successo con il selfpublishing. Con te o senza di te è il primo libro pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita14 feb 2018
ISBN9788822718907
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    Anteprima del libro

    Con te o senza di te - Jules Hofman

    Allison

    Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette…

    Solitamente in questo momento della giornata ho cinque minuti esatti per cambiarmi e riuscire di casa. Questo significa che ho solo il tempo per andare in bagno, spogliarmi, rivestirmi, cercare le chiavi finite chissà dove e chiudermi la porta alle spalle. Ora però ho sete, così spreco altri trenta secondi per arrivare al frigorifero. Vuoto, esattamente come il mio appartamento. Ottimo. «Quando puoi, Allison, ricordati anche di fare la spesa, hai un minimarket proprio all’angolo del palazzo. E poi hai un take away due metri più giù, un ristorante indiano al palazzo accanto, uno cinese a un isolato da lì». Già mi sembra di sentire le parole di mia madre che borbotta immaginando la propria figlia da sola, nella Grande Mela, senza cibo, magra come se non mangiasse da anni. In realtà, sto bene e me la cavo. Sete a parte, si intende. Mentre finisco il secondo bicchiere d’acqua, penso già a cosa indossare per la serata al Blusher. Canotta? No, troppo scollata. Forse è meglio una semplice T-shirt. Dannazione, ho lavato gli shorts di jeans? Centouno, centodue… Corro dritta alla cesta dei panni da stirare mentre ripeto tra me e me dimmi che li hai lavati, dimmi che li hai lavati e grazie al cielo spuntano sotto le lenzuola stropicciate. Li ho lavati! Tiro un sospiro di sollievo, poi dopo aver indossato i pantaloncini, faccio capolino con la testa sotto al letto: di solito ci finiscono i miei stivaletti quando rientro a notte fonda.

    Raccatto di corsa la felpa insieme al giubbino di pelle, comodo per quando tornerò a casa, e mi infilo in bagno. Io e la mia immagine riflessa allo specchio oggi non andiamo molto d’accordo. Come è possibile domare questa matassa informe attaccata alla mia testa? Provo a pettinare i capelli con le dita, passando le mani dalle tempie all’indietro e per miracolo sulla mensola trovo un elastico per legarli in una coda.

    Prendo al volo il mascara dal beauty-case, carico le ciglia di trucco, ripetendo il gesto con movimenti veloci, per intensificare lo sguardo ormai stanco di fine giornata. Ora sul mio volto si dipinge un sorriso compiaciuto: non sono poi tanto male. La lunga coda bionda accarezza le spalle; la pelle ambrata mette in evidenza gli occhi verdi che ho ereditato da mio padre e le labbra carnose di un rosa tenue, che evidenzio con un gloss trasparente. Duecentonovantanove, trecento…

    Ora sono pronta.

    «Steve! Muoviti con quei panini!».

    Quando entro al Blusher, John sta ringhiando dal retro della cucina e il tono della sua voce non promette niente di buono.

    «Allora? Com’è andata la giornata?».

    Steve velocizza i movimenti mentre mi parla, strizzandomi l’occhio. So che vorrebbe rispondere a John e ai suoi modi burberi, ma è troppo pacato per farlo e si limita a guardarlo da lontano di sottecchi.

    Infila il formaggio tra le fette di pane, che farcisce con bacon croccante e poi mette tutto sulla griglia bollente. È un gesto che ripete quasi in automatico tutte le sere: con un coltello spacca in due il panino, gettando via la mollica per farcirlo con altro bacon. Sono certa che se John si accorgesse di questo spreco, non gliela farebbe passare liscia e spero sempre che Steve non si faccia scoprire perché i suoi panini hanno una marcia in più. Nel giro di pochi istanti la stanza si riempie di profumo di cheddar sciolto. «Ho studiato molto e non vedo l’ora di togliermi di mezzo questo esame».

    «Vedrai, sarà un altro successo!».

    «Dici?»

    «Be’, male che vada continuerai a sculettare sul bancone del Blusher, no?».

    Mi sorride sarcastico e il solo pensiero mi dà il voltastomaco. «Steve!», lo ammonisco. Certo, quando John mi scelse per questo lavoro ne fui davvero felice: avrei avuto l’opportunità di guadagnare e al tempo stesso di divertirmi. Avrei potuto proseguire gli studi senza dover contare sempre e solo sulle entrate che in casa ormai iniziavano a scarseggiare. Mia madre non ha mai lavorato e mio padre invece è stato costretto a chiudere la sua officina nemmeno un anno fa. Così mi sono dovuta rimboccare le maniche e, tra una borsa di studio e l’altra, sono quasi pronta per la laurea. Di certo, però, questo non è il mio sogno e non appena mi sarà possibile smetterò di lavorare in questo posto, che puzza di aria consumata e di ubriaconi.

    «Spero di superare in fretta anche l’ultimo esame, così potrò finalmente dire addio al Blusher e cominciare la mia vita da medico».

    «Non dirlo neanche per scherzo… vuoi lasciarci qui da soli?». Simula un broncio, ma so che non vede l’ora di andarsene anche lui. «Insomma Steve, ho ventisette anni, non posso mica invecchiare qui dentro con voi e dimenticarmi della mia laurea!».

    «Dài, ripensaci ragazza. Molla la tua carriera da medico e servi panini tutta la vita…». Trattiene a stento una risata sarcastica, mentre io esco dalla cucina. Un paio di uomini robusti fissano il bicchiere sotto al loro naso e dal colore posso immaginare che sia brandy. Uno dei due alza lo sguardo verso di me.

    «Ehi, tu! Ragazza!». Mi avvicino, prendendo uno strofinaccio per asciugare il bancone.

    «Mi dica».

    «Preparamene un altro». Lo dice con gli occhi socchiusi: non sono certa che sia in grado di mettermi a fuoco, ma sono sicura che tra qualche minuto, quando comincerò a ballare sopra al bancone, sarà il primo a rianimarsi e a guardarmi come se non avesse mai visto una donna prima d’ora.

    «Ne è sicuro?», ma mentre lo chiedo, sto già riempiendo il bicchiere col nuovo drink.

    Il tipo vicino a lui non ci degna di uno sguardo: è intento a giocherellare con un cubetto di ghiaccio tra i denti.

    «Secondo te mia moglie ha un altro?». Affonda il viso in un tovagliolo di carta e si tampona la fronte.

    «Non lo so signore, perché dovrebbe?».

    Scuote la testa e biascica qualcosa. «Secondo me ha un altro. Io… se lo scopro… Io… Voi donne siete tutte puttane». Ignoro il suo commento, mentre scuote la testa in segno di disperazione. «Dammi un altro brandy. Anzi, dello scotch», borbotta a denti stretti.

    «Non credo sia la cosa migliore da fare. È abbastanza ubriaco, che ne dice di una Coca?»

    «Dammi un altro scotch, porca miseria!». Sbatte con prepotenza il bicchiere sul bancone, attirando l’attenzione di John, che a passo svelto si avvicina a noi.

    «Che succede Seth?»

    «La ragazzina non vuole darmi più da bere, stupida mocciosa!», protesta guardandomi minaccioso, mentre nuove gocce di sudore luccicano sulla sua fronte.

    «E ha fatto bene, sei ubriaco come una spugna Seth, va’ a casa…». Riflette un momento, poi gli posa una mano sulla spalla e fa per trascinarlo fuori, quando il tipo accanto a lui si rianima: «Ehi! Che cazzo succede qui?». Si gratta il capo cercando di mettere a fuoco la situazione, senza riuscirci.

    Seth prende a scalciare, come per allontanare John. «Luke! Questo stronzo ci sta buttando fuori!».

    «Porca puttana, Seth, per colpa tua mi tocca tornare da quella palla di Doreen». Con un dito si strofina la tempia, mentre brontola ad alta voce e posso immaginare che Doreen sia l’ennesima moglie di cui sento parlare qui dentro. Apre la bocca per protestare ancora, ma poi lancia un’occhiata al suo amico, ormai fuori dal locale, e posa di nuovo lo sguardo su John, di ritorno verso il bancone. Prima di essere accompagnato anche lui all’esterno, senza troppi indugi, esce dal locale, mentre io tiro un sospiro di sollievo e rientro in cucina.

    «Allora, All? Che intenzioni abbiamo stasera?». Malvina spunta sulla soglia con le bottiglie in mano, per smaltire quelle vuote.

    «Cosa intendi?»

    «Lo sai a cosa mi riferisco. Pensi che ce la farai a lasciarti andare un po’ di più?»

    «Ancora con questa storia…», mormoro con disappunto.

    «Insomma All, sei sprecata per stare perennemente sola».

    «E dài, smettila con le tue ramanzine…», la ammonisco, perché questo rimprovero è costante da quando lavoriamo insieme. Anni. Si tratta di anni, ma forse per la prima volta mi rendo conto che sento davvero la mancanza di un brivido di novità. Dopo Jason, in effetti, non c’è stato molto altro da raccontare. Lui finì a letto con la mia coinquilina, così sia lui che lei divennero ex. Cambiai casa, cambiai quartiere, mi allontanai dal male che mi avevano fatto. Jason tornò pochi mesi dopo chiedendo di perdonarlo, mentre lei provò con un patetico messaggio sul cellulare.

    Da quel momento, comunque, la mia vita sentimentale è stata più o meno piatta e Malvina adora punzecchiarmi su questo argomento: mi ricorda che sono bella, che sono giovane, che la vita è una… Dice che dovrei prendere spunto da lei, che in fatto di uomini è molto più esperta di me. Tutte cose su cui non posso di certo darle torto, ma è evidente che se non ho più frequentato alcun ragazzo è perché non c’è stato nessuno in grado di attirare davvero la mia attenzione.

    La porta che sbatte mi distrae dai miei pensieri.

    «Ragazze, sveglia. C’è un cliente che sta aspettando da dieci minuti, una di voi due vada a servirlo».

    «Eccomi, un istante solo», dice Malvina, mentre solleva a fatica da terra l’ultima cassa di acqua.

    «Muoviti, porca puttana, era un ordine», tuona stizzito John, mentre lei mi lancia un’occhiata seccata pronta a servire l’uomo al bancone.

    Benjamin

    No n credo alle mie orecchie! Ho rischiato di pestare qualcuno perché ero accecato dalla rabbia. Ho sentito le tempie pulsare. Non so come ma sono riuscito a trattenermi, ignorando la loro conversazione. Non sapevano che ero lì, appena fuori dalla porta, costretto a fermarmi per una scarpa slacciata. Speravo di aver sentito male, di aver capito in maniera distorta quello che Greb stava dicendo a Phil, ma no, non è stato così. Ho capito bene, ho capito il senso di quello che si stavano dicendo. Hanno aspettato di vedermi fuori dallo spogliatoio per parlarne. Se solo io potessi… «’Fanculo!», urlo a denti stretti, mentre sbatto violentemente il pugno contro il muro e mi volto di scatto per uscire dal palazzetto. Non posso rischiare di picchiare il mio allenatore. Non posso. Devo calmarmi.

    Provo a respirare forte per placare la rabbia che non vuole sapere di andarsene e il mio petto si sgonfia mentre butto fuori tutta l’aria. Dimostrerò a tutti che non è come credono e che ho ragione io. In fondo sono sempre stato un testardo e riuscirò anche stavolta nel mio intento.

    Quando mi rimetto alla guida sento la prepotente necessità di un drink o qualcosa di forte in cui affogare stanchezza e pensieri. Qualunque cosa possa essere in grado di distrarmi per evitare di tornare a casa più incazzato di prima. Non sono solito farlo e riconosco che non è di certo la soluzione migliore, ma stanotte voglio fuggire e distrarmi con qualcosa di facile, o almeno che non sia troppo complicato, come lo è invece tutta la mia esistenza da qualche tempo.

    Lungo Kennedy Street, percorrendola a una velocità forse leggermente esagerata, vedo l’insegna del Blusher. Da qualche parte ho sentito che in questo posto le birre sono accompagnate da balletti spinti di povere ragazze, che spesso terminano la serata nei letti di qualche balordo. Chissà che non si rimedi pure un po’ di sesso.

    Decido di fermarmi e senza tanti indugi entro. Non è poi così male al primo impatto. Pensavo fosse più una specie di night. In realtà è un pub con arredi di legno e luci soffuse e nessuno sta ballando. Ho come l’impressione che le persone si stiano addormentando, fatta eccezione per qualche grassone ubriaco dallo sguardo un po’ spento.

    Quando richiudo la porta il trillo di un campanellino avvisa il personale del mio arrivo.

    Mi avvicino al bancone e mi siedo su uno sgabello.

    «Buonasera!». Una tipa praticamente nuda dietro il bancone mi accoglie con un sorriso provocante. Ah però! Allora è vero che qui dentro si spogliano.

    «Cosa ti porto?», insiste la ragazza e dall’accento capisco che non è americana. L’occhio mi cade sulle sue tette gonfie e morbide e per un attimo immagino come sarebbe bello tuffarcisi dentro.

    «Un vodka-lemon, grazie». Ma come, non volevo una birra? Poco male, al massimo mi fermerò un’ora in più per smaltire la sbornia. Se questo è lo spettacolo cui assisterò stasera non credo che sarà un grande sacrificio.

    La ragazza passa da una mano all’altra due bottiglie con disinvoltura e in pochi istanti il forte odore dell’alcol mi invade le narici. Ha le unghie laccate di nero e credo che abbia esagerato col trucco sugli occhi, nascondendo in realtà due pupille celesti. Non so perché ma quelle mani, quelle dita, risvegliano la mia eccitazione.

    Bevo il primo sorso mandandolo giù tutto d’un fiato, senza esitare, e poco dopo poso il bicchiere sul legno appiccicoso del bancone. Il mio sguardo viene attirato dal movimento della tipa, che continuo a studiare in ogni suo gesto. Entra ed esce dalla cucina un altro paio di volte, con un panino fumante in mano che finisce sul piatto di un uomo accanto a me. Mi volto a osservarlo, vittima di un certo languorino.

    «Che hai da fissare?», chiede a bocca piena.

    «Niente amico, deve essere buono il tuo panino», esclamo per tenerlo tranquillo, immaginando che possa essere ubriaco.

    «Uhm», mugugna qualcosa, mentre addenta un nuovo boccone. «Di solito è più buono, ci mettono più bacon. Stasera non mi sembra un granché».

    «Vieni spesso qui?», chiedo un po’ per noia e un po’ per curiosità.

    «Praticamente sempre, mi piace guardare i culi di queste ragazzine. Dovresti sapere che effetto fa a un uomo la carne giovane…», sghignazza orgoglioso e mi accorgo che gli mancano un paio di denti, quando di colpo calano le luci. La porta della cucina si apre di nuovo e ne esce la tipa di prima. Osservo incuriosito, mentre nell’aria aleggiano le prime note di una canzone. La ragazza sale sopra al bancone, ha le gambe scoperte e ora che la guardo più da vicino, mentre scavalca le mie mani, posso dar ragione al tizio qui vicino: ha proprio un bel culo. La scruto una manciata di secondi mentre l’alcol comincia a fare effetto su di me. Sento i nervi distenersi e mi accomodo meglio sullo sgabello, convinto di aver fatto la cosa giusta a venire in questo posto.

    «Muovi le chiappe bambola!», tuona con un guizzo negli occhi l’uomo al mio fianco. Sto per urlare qualcosa anche io, divertito dalla situazione, ma la mia lucidità svanisce del tutto quando appare una seconda ragazza. Più ordinaria, meno appariscente, ma anche più bella. Indossa una semplice T-shirt bianca e non credo abbia il reggiseno, perché si intravedono i suoi capezzoli. Da quanto tempo non ti concedi una scopata, Ben?, penso d’istinto, quando mi rendo conto che questa tipa ha avuto l’onore di risvegliare i miei sensi in un batter d’occhio. La osservo muoversi, mentre svita il tappo di una bottiglia e versa l’alcol nei bicchieri: catalizza la mia attenzione in maniera prepotente e ora non c’è davvero spazio per altro. È così magnetica che più guardo la sua T-shirt trasparente più sento l’eccitazione crescere, ma devo trattenermi. A ogni modo, sono certo che da stasera questo posto entrerà nella lista dei miei locali preferiti.

    La ragazza bionda fa l’occhiolino all’altra che si sta dimenando sopra al bancone. Poi la raggiunge a ritmo di musica, muovendo i fianchi in maniera sinuosa. Il ritmo della canzone fa oscillare il suo corpo con ingenua sensualità e quando mi sfiora volontariamente una mano con gli stivaletti i nostri sguardi finalmente si incrociano. Il contatto con una parte di lei fa scoccare in me una scintilla. Trattengo per un attimo il respiro, pensando che se fossimo fuori di qua e lei non stesse lavorando, non ci penserei un attimo a portarla a letto. Fingo di protestare di fronte al suo gesto, mentre lei risponde con un sorriso beffardo mimando una smorfia di presunzione e finta innocenza, mettendo in moto un gioco davvero intrigante. Poi con una mano si ravvia i capelli ed è in questo momento, osservandola mentre si lecca le labbra con la lingua, che sento crescere in me la forte tentazione di toccarla. Esploro di nuovo il suo seno con gli occhi e immagino di palparlo, mentre penso di non aver mai avuto una visione più paradisiaca di questa.

    Allison

    Scuoto la testa a ritmo di musica, mentre mi aggrappo al palo del bancone, ondeggiando con le spalle. Mi sento bella e immortale, sexy e desiderabile mentre avverto il cotone della maglia aderire perfettamente alla mia pelle, solleticandola. Sono certa che in molti stiano guardando i miei seni, che si mostrano senza vergogna attraverso la stoffa bianca. Devo essere un po’ brilla per fregarmene così tanto di ciò che vedono gli altri.

    «Vai ragazzina, strusciati di più!». Un tipo con una sigaretta elettronica in bocca, appoggiato al vecchio jukebox, urla dal fondo del locale, fischiando di tanto in tanto mentre io e Malvina ci sfioriamo ballando. In coro lo seguono altri tre uomini. Vengono spesso qui, soprattutto per guardare le partite di football. «Soliti maiali», bofonchia Malvina avvicinandosi al mio orecchio e a me scappa un gridolino divertito.

    Quando dissi a mio padre che ballavo al Blusher, pensò subito a una sorta di discoteca, ma mai gli sarebbe venuto in mente che sua figlia potesse strusciarsi a un palo, ammiccando a perfetti sconosciuti. La cosa bella è che non sarebbe mai venuto in mente nemmeno a me. Insomma io sono Allison Pearce, la ragazza acqua e sapone perennemente con i libri nella borsa e aspirante medico! E invece, eccomi qua. Ora, per esempio, sto facendo l’occhiolino a questo tipo di fronte a me, cui prima ho volontariamente sfiorato la mano con i miei stivaletti. Riesco a intravedere il suo sguardo sotto a un berretto nero: di tanto in tanto lo scosta, come se volesse vedere meglio. Sono certa che sotto quella visiera si nasconda davvero un bel ragazzo, a giudicare dalla muscolatura e dalle spalle larghe. Non è così frequente incontrare tipi così carini al

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