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Un amore quasi per caso
Un amore quasi per caso
Un amore quasi per caso
E-book420 pagine5 ore

Un amore quasi per caso

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Info su questo ebook

Dall’autrice bestseller del Wall Street Journal e di USA Today

Una storia d’amore fantastica!

Un perfetto sconosciuto ha appena cancellato con un bacio il peggior giorno della mia vita. E ci tengo a sottolineare “perfetto”. Hunter Forsythe è così fuori dalla mia portata che non riesco a capacitarmene. E ora è il mio accompagnatore al matrimonio di quella perfettina di mia sorella! Di sicuro andrà tutto storto e ci sarà da ridere. Ma il mio nuovo misterioso eroe non è uno scherzo. È un padre single. È ricco come il peccato, ha occhi che ti stendono ed è pieno di muscoli, muscoli ovunque. Troppo buono per la tranquilla fornaia che nessuno ha mai notato. Poi scopro cosa lo ha spinto a questa follia. E divento una furia. Hunter Forsythe, con me non avrai vita facile!
Nicole Snow
è un’autrice bestseller del «Wall Street Journal» e di «USA Today». Coltiva l’amore per la scrittura sin da quando di nascosto prendeva appunti per i suoi romanzi durante le pause pranzo. Da allora non si è più fermata e i suoi protagonisti dal cuore d’oro hanno fatto innamorare le lettrici di tutto il mondo. La Newton Compton ha pubblicato Un bacio quasi per caso, Un abbraccio quasi per caso e Un amore quasi per caso.
LinguaItaliano
Data di uscita8 lug 2021
ISBN9788822757227
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    Anteprima del libro

    Un amore quasi per caso - Nicole Snow Nicole

    1

    Una consegna speciale

    Wendy

    Certo che consegnerò la torta.

    Perché no? Perché mai qualcuno dovrebbe ricordare che Blake Paumer mi ha dato buca al ballo del terzo anno? O quanto mi vergognassi di tornare a scuola il lunedì seguente, dopo che tutti l’avevano saputo?

    Ovviamente non se lo ricorda nessuno.

    Questo perché non è successo a Rochelle. Se a mia sorella avessero mai dato buca per il ballo, il mondo intero conoscerebbe la portata della sua devastazione e odierebbe il responsabile del danno.

    Proprio come oggi, quando nessuno farebbe consegnare alla figlia prediletta una torta alla persona che tanti anni fa l’ha lasciata davanti alla porta ad aspettare per ore.

    Stringo più forte le dita intorno al volante invasa dal senso di colpa.

    Ok. La torta non è tecnicamente per Blake, ma per suo padre. E Blake sarà alla festa per il pensionamento, garantito.

    Alzo lo sguardo, fissando il semaforo che sembra rosso da un secolo.

    «Forza! Non viene nessuno dall’altra parte», mormoro tra me e me, alzando il volume della radio.

    Non aiuta. Il colore del semaforo non cambia e neanche il mio umore.

    Come potrebbe? Non ho nient’altro a cui pensare.

    Sul sedile accanto a me c’è una gigantesca torta marmorizzata con Congratulazioni per la tua pensione! scritto con la glassa e questo semaforo rosso su una fredda strada di Saint Paul potrebbe essere il più lungo della storia.

    La festa non è ancora cominciata e che inizi fra qualche ora o no, Blake ci sarà per aiutare con i preparativi. Insieme a sua moglie, Heather.

    Un tempo, la mia migliore amica. Non ha avuto nemmeno il coraggio di dirmi in faccia che aveva convinto Blake a portare lei al ballo anziché me. Quando finalmente ha confessato, ha osato dire che non credeva che la cosa mi avrebbe dato fastidio dato che non ero innamorata di Blake quanto lo era lei.

    «Finalmente!». Spingo sull’acceleratore non appena il semaforo diventa verde e attraverso cautamente l’incrocio perché non voglio che la torta finisca per terra.

    Heather aveva ragione.

    Non ero innamorata di Blake. Ma volevo andare al ballo. Rochelle era al college al tempo, per cui era il mio turno per brillare. La timida sorella minore. Che non era neanche lontanamente bella o intelligente quanto la pupilla maggiore.

    Ancora oggi, è una ferita che brucia.

    No, non m’importa se è una cosa insensata.

    Non m’importa se si tratta di otto anni fa e avevo solo sedici anni. Essermi persa quel ballo mi fa ancora incazzare.

    Quasi quanto mi ha fatto incazzare quattro mesi fa che Heather mi ha abbia chiesto di preparare la torta per il suo matrimonio perché nessuno avrebbe potuto farlo meglio della nostra piccola attività familiare.

    Abbiamo fatto il lavoro anche troppo bene. È per questo che ci ha chiamati di nuovo per la festa di suo suocero.

    Getto lo sguardo sulla torta sul sedile del passeggero del vecchio minivan di mia madre e mi domando ancora una volta, come ho già fatto mentre preparavo la torta per Heather e Blake, se non avrei dovuto sabotarla.

    Una tazza di sale anziché di zucchero, o forse un uovo solo, o un paio di cucchiaini strategici di pepe di Cayenna…

    No, non sono così stronza. Non importa quanto sia stata tentata.

    Wendy Agnes non cede alle vendette passivo-aggressive.

    Scuoto la testa mentre mi concentro di nuovo sulla strada, girando lentamente l’angolo, e mi lascio sfuggire un grato sospiro per il fatto che la strada davanti a me sia libera.

    In fondo questa giornata non è completamente negativa. Arriverò in anticipo con una torta immacolata. Non farei mai una cosa del genere.

    E poi, le mie fantasie di vendetta farebbero più male alla Midnight Morning che a chiunque altro. Il bar e la pasticceria saranno miei un giorno.

    E ormai la faccenda del ballo mi è quasi passata. Quasi.

    Non ho preparato la torta per il matrimonio di Heather arrabbiata come una psicopatica. Adoro fare dolci.

    Sono i matrimoni a darmi la nausea.

    Una nausea tale che potrei vomitare nella mia stessa borsa. E questo grazie a Rochelle che è diventata una sposazilla, il che non dovrebbe scioccare nessuno.

    Specialmente me. Ho vissuto nella sua ombra per tutta la vita.

    Peccato che al suo matrimonio manchino solo due settimane e, proprio come per il ballo, non ho un accompagnatore. Di nuovo.

    Chiudo gli occhi, cercando di non pensare all’inevitabile futuro processo al matrimonio.

    «Povera piccola Wendy», dirà zia Charlotte. «Non ha mai avuto un vero fidanzato, vero?».

    Mamma si limiterà a scuotere la testa. «No. Poverina».

    Niente scuse, niente giustificazioni, niente offesa. Un semplice accordo così mortificante che mi fa venire voglia di sprofondare finché non sbuco dall’altra parte della terra.

    Dicono che l’Australia sia bella. Almeno i canguri lì saranno più amichevoli dei miei parenti.

    È così che andrà, comunque. È così che è sempre andata.

    Nessuno farà riferimento ai miei altri successi, come i due anni passati in Europa alla scuola di cucina o il fatto che ho preparato dolci a Buckingham Palace. Per il compleanno della regina, per giunta.

    Forse è meglio così, perché se mamma ne parlasse, poi seguiterebbe facendo notare come non abbia frequentato nessuno oltreoceano. Poi darebbe il suo brevettato consiglio da brividi – se solo mi truccassi e non mi limitassi a tenere su i capelli con delle mollette, avrei più possibilità.

    Più possibilità per cosa? Per non farmi dare di nuovo buca? No, grazie.

    Sono ancora immersa nei miei pensieri quando qualcosa mi distrae.

    Un movimento fuori dal finestrino del passeggero. Prima che riesca a capire che cosa sia, salta dal marciapiede e vola dritto davanti a me.

    «Porca…». Spingo sul freno nell’attimo in cui mi rendo conto che si tratta di un ragazzino, sterzando per evitare di colpirlo.

    Il van rimbalza come se stesse per accartocciarsi mentre sale sul marciapiede prima di fermarsi.

    Oddio. Ho le mani che tremano e il cuore che mi batte in gola mentre guardo attraverso il parabrezza dritto negli occhi del ragazzo a pochi centimetri dal mio paraurti.

    Grazie a Dio è ancora in piedi!

    «Ehi, stai bene?», chiedo spalancando la portiera e saltando giù.

    «N-non l’ho vista. Mi scusi, signorina».

    È chiaramente scosso.

    E lo sono anch’io. Avrei potuto investirlo. Schiacciarlo.

    «Come hai fatto a non vederlo?», chiedo indicando il van con il pollice. «È rosso! Un’enorme macchia rossa!».

    Quello che potevi diventare tu!, penso tra me e me, scuotendo la testa.

    Sospirando, faccio un passo avanti e gli abbasso il cappuccio nero per guardarlo meglio. È proprio un bel ragazzino. Giovane. Appena adolescente, probabilmente.

    Vorrei stringerlo, scuoterlo, ma è solo perché sono turbata. Lo è anche lui perciò cerco di ricompormi.

    Faccio un respiro profondo. Sono un fascio di nervi. Respirare non mi aiuta neanche un po’.

    I suoi occhi sono bassi sull’asfalto.

    Guardo nella stessa direzione. Noto come un capo del suo skateboard sia schiacciato sotto la ruota del lato del guidatore del van. L’altro capo è incastrato nel paraurti.

    Un senso di sollievo mi pervade al pensiero che si tratti solo del suo skateboard.

    «Potevi essere tu», dico, tremando tutta di nuovo.

    Dio, c’è andato così vicino. È impossibile restare indifferenti.

    Lui annuisce e si mordicchia il labbro inferiore. «Mi dispiace molto».

    Dovrei lasciarlo andare. Abbiamo fatto tutti cose stupide da ragazzini, no? Ma qualcosa mi trattiene.

    Sentendo di dovergli far capire come sarebbe potuta andare molto, molto peggio, gli chiedo: «Che stavi facendo? Dove stavi andando così di fretta da non vedermi nemmeno?».

    Lui si guarda intorno, come cercando un modo per scappare.

    Poi vedo dell’altro. Il palpabile, angosciante senso di colpa che guasta il suo giovane viso.

    So cos’ho davanti ai miei occhi. Vedo anche le mani ficcate nelle tasche del cappotto, che si agitano, troppo perché sia solo colpa del freddo. «Mostrami le tue mani».

    I suoi occhi si spalancano e lui si guarda di nuovo intorno.

    Capisco tutto prima ancora che si muova.

    Anni a lavorare in un’attività che ha avuto ben più di un solo ragazzino a rubare dal bancone mi hanno insegnato bene. E fanno quasi trasformare il mio terrore in un bisogno di picchiarlo per la rabbia.

    «Forza, ragazzino. Le mani, adesso!».

    Lentamente, tira fuori una mano dalla tasca, porgendomi qualcosa.

    Prendo la custodia che ha in mano e la giro. «Un gioco? Ti sei quasi fatto investire, schiacciare, uccidere per un cavolo di videogioco?!».

    Adesso tutto ha senso. C’è un negozio di videogiochi in fondo alla strada.

    Probabilmente lo ha rubato ed era così concentrato sul farla franca che non ha visto altro. Un ladruncolo adorabilmente fastidioso. E anche disperato.

    «Un gioco da venti dollari usato, per giunta», mormoro, restituendoglielo. «Vecchio di una serie che c’era già quando avevo la tua età». È basato su un film sul rubare auto e mi fa aggiungere: «Non dirmi che è per allenarti. Stai pensando a colpi più grossi? A imparare a rubare auto anziché giochi?»

    «No. N-non l’ho mai fatto prima». Si rificca il gioco nella tasca. «Non so perché l’ho preso. Davvero. Volevo… solo…».

    Nel giro di un secondo, si irrigidisce. Il suo viso perde colore. «Oh, no. Sta arrivando».

    Mi guardo oltre la spalla. Un grande suv nero sta rallentando. Il veicolo sembra uno di quelli dell’fbi, completo di vetri oscurati.

    Non è davvero l’fbi, né la polizia, ma questo ragazzino sa chi c’è nel veicolo ed è ancora più spaventato di prima. «Chi è?»

    «Mio padre», risponde con voce tremante.

    Ottimo. Mi è già capitato. Non riuscirò mai a consegnare in tempo la mia torta senza dovermi sorbire qualunque cosa dirà quest’uomo.

    Soprattutto visto che probabilmente il paparino sarà uno di quei genitori che pensano che sia colpa del negozio se lascia cose in giro pronte per essere rubate dai loro figli.

    È un negozio. Le cose sono in giro perché la gente le veda. Non perché le rubi. Ma alcune persone semplicemente non ci arrivano. Soprattutto quando si tratta dei loro preziosi figli.

    «La prego, signorina. Abbia cuore… Sarà arrabbiato, molto arrabbiato».

    Sul suo viso ossuto c’è di nuovo quell’espressione da cane bastonato che dice La mia vita è finita. Sorpresa dall’empatia che sento crescere in me, alzo gli occhi al cielo e chiedo: «Vedremo. Come ti chiami, comunque?»

    «Ben».

    È tutto quello che riesce a dire prima di sobbalzare al rumore della portiera che si chiude.

    Anche le mie viscere sobbalzano un po’. Inalando profondamente l’aria fredda del Minnesota, mi volto e quasi mi strozzo. Non per l’aria ghiacciata, ma per la vista di una bestia d’uomo che cammina verso di noi.

    Non bestia come quelle della giungla.

    Bestia come a dire ben piazzato. La perfezione fatta uomo. Tutto muscoli, una sottile ricrescita della barba, un corpo che arriva quasi al cielo e spalle così ampie da far invidia all’orizzonte stesso.

    Il tipo di uomo primitivo, pericolosamente attraente che si vede nelle pubblicità. Quelli che sai che sono photoshoppati.

    Solo che… quest’uomo non è photoshoppato e le sue lunghe, solide gambe trasportano la sua mole e il suo vigore con una spavalderia che non può che attirare l’attenzione sul resto della sua figura.

    Più si avvicina, meglio lo vedo e più perdo ogni lucidità.

    È alto in modo assurdo, ha i capelli scuri, lucenti quanto il costoso suv che ha parcheggiato dietro il mio van che avrebbe dovuto essere rottamato anni fa.

    Porca miseria. Probabilmente sto tremando più di questo ragazzino, ma per le ragioni sbagliate.

    Vibro alla vista dello sguardo blu-ghiaccio di quest’uomo.

    Devo ricordare a me stessa di respirare di nuovo quando mi passa davanti. Grosso errore.

    Perché quando faccio un respiro profondo, inalo una ventata di colonia che basterà a farmi sognare a occhi aperti per anni. Poi questo essere gigantesco, troppo perfetto per essere vero, parla.

    «Che succede qui, Ben? Conosci le regole. Dritto a casa dopo scuola».

    La sua voce è calma come il resto di lui. Roca. Sexy.

    Cosa diavolo sto pensando? O facendo?

    Mi sposto in modo da poterlo guardare senza farmi venire i dolori al collo, cercando di non concentrarmi su quegli occhi mozzafiato mentre indico lo skateboard. «Sembra che Ben qui abbia dimenticato di guardare prima di attraversare la strada».

    Il colore abbandona anche il suo viso. Non repentinamente come a Ben o a me, ma comunque in modo visibile.

    Si lancia in avanti, stringendo il figlio per le braccia. «Ben? Stai bene?». Lo tocca da entrambi i lati. «Ti sei fatto male da qualche parte? Sei stato investito?»

    «No, sto bene», risponde Ben, con gli occhi su di me. Implorano. Supplicano pietà.

    «Bene, mi fa piacere, ma…». Fa un sospiro. «Dannazione, Ben. Le regole esistono per un motivo. Non si va sullo skateboard in centro. Non si va sullo skateboard da nessuna parte in inverno e, sì, vale anche se abbiamo avuto solo due centimetri di neve. Lo sai. E sai anche che finisce qui. Non deve succedere più».

    Ben annuisce, quasi sul punto di piangere.

    Poi l’uomo abbraccia il figlio. E intendo un vero, forte abbraccio. Che sembra imbarazzare il figlio tanto quanto colpisce me al cuore per quanto sia profondo e onesto. Perché quest’uomo ha capito quanto è arrivato vicino al perderlo.

    La reazione del ragazzo è naturale. Capita alla sua età. Un giorno Ben capirà quanto significhino abbracci del genere, ma non oggi.

    Sono un po’ sorpresa da tutto questo, per non parlare del fatto che il papà non se l’è ancora presa con me come un grizzly. Non mi ha ancora dato la colpa. Me lo aspetterei.

    «Non succederà più», ripete Ben debolmente, continuando a guardarmi.

    Ancora una volta, l’empatia verso questo ragazzino prende il sopravvento su di me. Viziato o no, si merita una seconda occasione di vita.

    «Lo skateboard è quello a cui è andata peggio», dico.

    Non riesco a decifrare lo sguardo che l’uomo mi rivolge, ma se dovessi scegliere, lo tradurrei con un E lei chi diavolo è?.

    È un miracolo che io riesca a parlare. Da vicino è ancora più bello.

    Credo siano i suoi occhi blu chiaro, così rari e aggressivi in un modo unico, a farmi questo effetto. Mi mandano in delirio. Rendono brutalmente difficile non fissarli.

    È difficile perché sono così audaci. Così eccezionali. Così irreali.

    Tenendo un occhio su di me, lascia la presa sul braccio di Ben e fa un passo avanti, verso il van. Un calcio secco stacca lo skateboard dal paraurti e lo libera dalla ruota.

    «Me la vedo io. Va’ in auto, Ben, e portati lo skateboard».

    Un ordine. Uno severo. Che Ben esegue immediatamente.

    In un attimo, quest’uomo è passato da padre amorevole a sergente istruttore. Il cambiamento non mi entusiasma, perché io sono la prossima. Il mio cuore si riempie di rinnovata empatia verso Ben. Anch’io ho un padre che sa essere un po’ sergente istruttore.

    Mi preparo, pronta a ricevere la colpa, a farmi sbattere in faccia tutto questo incidente.

    «Credevo avesse detto che era stato lo skateboard ad avere la peggio», dice, facendo il giro del van.

    Lo seguo, cautamente, rendendomi conto che non ho prestato minimamente attenzione al mio van.

    «Non mi aspettavo che un palo del parcheggio le avesse divelto lo specchietto e ammaccato la portiera».

    Seguo il suo sguardo, vedendo esattamente ciò che sta indicando. Poi trasalisco.

    Lo specchietto è appeso ai fili e la portiera è piegata, ancora schiacciata contro il palo, come ha detto lui.

    «Ha già chiamato la polizia?», chiede. «O la sua compagnia assicurativa?»

    «No, non mi ero resa conto di quanto fosse messo male», dico timidamente, soppesando il danno. «Voglio dire, non vale la scocciatura di un verbale della polizia e il van non vale la franchigia. Lo usiamo solo per le consegne qui in zona».

    Aspettate. Quella parola sembra riportare in vita il mio cervello. «Le consegne!».

    Scorrazzo verso il fronte del van fino alla portiera del guidatore, poi la spalanco. «Maledizione!».

    È peggio di quanto temessi. La scatola con la torta è scivolata giù dal sedile ed è caduta quando ho colpito il marciapiede.

    Salgo freneticamente su, abbassandomi, prendendo con le mani il disastro che si è creato. Il mio stomaco sprofonda. La torta meravigliosamente confezionata è adesso una massa informe di glassa.

    «Mi sembra di capire che avesse fretta».

    «Già». Tanto lavoro per niente. Prendo il cellulare e apro la custodia per controllare quanto tempo mi rimane. Meno di due ore. Non abbastanza per preparare un’altra torta.

    «Dove doveva portare questa torta?»

    «A una festa di pensionamento». Getto un’occhiata sul casino maciullato che è nella scatola. È chiaramente impossibile da sistemare.

    Non ci voleva proprio. Non oggi. Non adesso.

    «Dove? Alla festa di chi?».

    Scendo giù dal van. «Che importa? Che gioco è? Le cinquanta domande?». Frustrata, scuoto la testa. Non dovrei prendermela con lui. «In fondo alla strada. Byron Paumer, capo dello studio di architettura Paumer. Passerà ufficialmente l’attività a suo figlio, Blake, oggi alle diciassette. Il che significa che non ho tempo per preparare un rimpiazzo».

    Diciassette.

    La torta doveva essere l’ultima portata, il gran finale. Le mie sopracciglia si avvicinano così tanto da farmi male. Pensa, Wendy. Pensa!

    Ok. Non ho tempo per prepararne un’altra. Ma potrei usare l’altra che ho in frigo, quella che ho preparato stamattina per il compleanno di quella bambina. È più o meno delle stesse dimensioni ed è dello stesso gusto se eliminiamo la forma di unicorno che doveva avere. E per la bimba, ho tempo per prepararne un’altra stasera. E avrei abbastanza tempo per farla raffreddare prima di darle la forma domani mattina.

    Potrebbe funzionare. Se mi sbrigo.

    Aggrappandomi al volante, piazzo un piede sul predellino dell’auto per salire, ma Papà Orso mi prende per l’altro braccio. È così rapido e agile che mi manca il fiato.

    «Aspetti», ringhia. «Qual è l’indirizzo? E di che dimensioni è la torta?».

    La sua presa sul mio braccio è sfrontata, ma delicata, mentre mi risospinge all’indietro. Giusto quel tanto per farmi scendere dal predellino. Non so decidere se sia più fastidioso o irresistibile.

    Una cosa è certa: se voglio sistemare questo casino, mi devo muovere.

    «Di dimensioni di cui non deve preoccuparsi», dico, svincolando il braccio. «Senta, mi scusi, ma devo andare».

    «No». Una semplice, decisa parola e mi immobilizzo.

    Poi si porta il cellulare all’orecchio, guardando oltre me per vedere la scatola con la torta. Bastardo testardo.

    «Le ordino un’altra torta. Sarà preparata e consegnata a mie spese».

    Che cosa?

    «Ehi, amico, non è così semplice», dico.

    Idiota. Dal cuore d’oro, ma probabilmente pazzo. Non ci arriva?

    Nessuno in questa città ha semplicemente una torta extra lì che aspetta, a meno che non si tratti della pasticceria di un supermercato, dove sfornano torte economiche preconfezionate e risolvono il problema. In questo ambiente, paghi per ciò che compri. Quelle torte possono anche essere vecchie di una settimana e totalmente inaccettabili per un uomo che va in pensione dopo decenni di duro lavoro.

    Lui mi sta fissando con quegli occhi blu che luccicano pericolosamente in piccoli squarci. Il mio coraggio si raffredda.

    «Dolcezza, lei ha torto. È semplicissimo, invece. Conosco il proprietario di Top Notch».

    Il solo nome mi infiamma le guance.

    Era ovvio che dovesse conoscere il proprietario del più esclusivo e costoso catering delle Twin Cities. Il che mi fa magicamente incavolare in modi che non ho mai provato prima.

    Uff, la faccio finita. Gli prendo il cellulare, allontanandolo furente dal suo orecchio.

    Il cellulare si muove a malapena. Tirandogli il braccio con tutte le mie forze, sembro un topolino che cerca di smuovere una montagna.

    «Non lo faccia! Se i Paumer avessero voluto una torta di Top Notch, l’avrebbero ordinata da loro. Non l’hanno fatto perché sanno che almeno le mie sono commestibili».

    Ok, ho esagerato. Le torte di Top Notch sono più che commestibili. Sono dannatamente buone, in realtà, ma non è questo il punto. Salgo sul van. «Ora me ne vado, così potrò tornare in negozio, decorare un’altra torta e consegnarla prima che la festa sia finita. Mi faccia un favore e dimentichi che tutto questo sia mai successo».

    «Forse, ma dovrei dimenticarmi anche quando cinque minuti fa mi ha detto di non aver tempo di preparare una nuova torta».

    Oh, è intelligente. Un saputello di natura.

    Con troppi soldi. E troppo bello. Probabilmente pensa che basti questo, sventolare un po’ del suo fascino in giro e tutto si sistema.

    Mentre mi sto ancora chiedendo come abbia fatto a bloccarmi, lui è intento a parlare al cellulare con qualcuno, stringendomi il braccio e impedendomi di chiudere la portiera.

    Quando lo sento pronunciare il nome di Byron Paumer, lo sguardo che gli sto rivolgendo passa da Cosa diavolo sta succedendo? a Cosa diavolo sta facendo?

    «Possono fargli arrivare una torta per le diciassette», dice, allontanando il viso dal cellulare.

    «Posso anch’io», dico ad alta voce, di modo che chiunque ci sia all’altro capo del telefono possa sentirmi. «La torta che vogliono, preparata da Wendy della Midnight Morning, per cui può anche annullare quest’altra. Non servono due torte per questa festa».

    Lui dice qualcos’altro che non riesco a sentire e poi si ferma, rivolgendomi uno sguardo calmo, negativo. Almeno deve aver compreso quanto possa essere insopportabile quando sono arrabbiata.

    «Capisco», dice freddamente al cellulare. «Va bene. D’accordo. Annulli tutto».

    Allontanando il cellulare dall’orecchio, alza le spalle. «Stavo soltanto cercando di sistemare le cose. Non capisco perché sia un problema».

    Il suo atteggiamento è imbronciato, come se sia disorientato, cosa che trovo stranamente dolce.

    Nel frattempo, sono disgustata dai miei stessi pensieri. Non ho tempo per meditare sul dubbio se un perfetto sconosciuto sia dolce o no. «Senta, non ho bisogno che sistemi le cose. Ma se proprio insiste, una cosa che potrebbe fare sarebbe spostare la sua auto così posso fare manovra».

    Giro la chiave nel quadro, pronta, prontissima a chiudere la questione.

    Ma non succede niente.

    Perciò ci provo di nuovo. E ancora. Poi ancora una volta, girando il polso tanto da farmi male.

    «Aspetti, faccia provare me», dice, stringendomi di nuovo il braccio.

    Dovrei dirgli di tenere le mani a posto, ma non ho tempo nemmeno per questo. Tutta la situazione è ufficialmente ridicola.

    Ho bisogno di tornare in negozio e mettermi a decorare l’altra torta.

    Ne ho talmente bisogno che decido di zittirmi e lasciargli fare ciò che ha suggerito.

    Perciò prendo il cellulare prima di scendere dal van, poi cerco tra le chiamate recenti il numero di Heather mentre lui si mette al posto del guidatore.

    Heather risponde al primo squillo.

    «Heather, sono Wendy. Brutte notizie. Ho avuto un incidente mentre venivo a consegnare la torta…».

    Devo bloccarmi mentre mi chiede se sto bene, cos’è successo e mi fa una dozzina di altre domande. Heather ha sempre avuto una certa parlantina e la sta sfoggiando anche adesso, senza fermarsi né darmi la possibilità di aggiungere una parola.

    Getto un’occhiata verso l’auto di lusso in cui Ben se ne sta seduto sul sedile del passeggero, con l’aria di chi ha appena ucciso un cane.

    Sospirando, cammino verso il suv, lasciando che Heather continui a parlare a macchinetta.

    «Sto bene, sul serio», dico, quando finalmente si ferma per prendere fiato. «Sì, ho un’altra torta che posso decorare. L’avrai lì per le diciassette e trenta al più tardi. Promesso».

    Chiudendo la chiamata prima che possa colpirmi con un’altra serie di domande, arrivo alla portiera dal lato guidatore del suv, dove il finestrino è già aperto. Sono certa che lo abbia abbassato Ben per sentire se avrei parlato del videogioco rubato o no.

    «Non ho detto una parola», gli dico. «E non lo farò, purché quel dischetto venga restituito insieme a delle scuse».

    Per un secondo mi guarda come un cerbiatto in attesa di essere investito da un’auto. Poi annuisce mentre guarda verso il mio van, che sembra partire proprio in quell’attimo.

    «Domani. Chiamerò il negozio per assicurarmene», gli dico prima di andarmene.

    Mister Pieno di Soldi esce dal mio veicolo. «L’auto non era in folle, ma adesso sembra andare bene. Deve aver premuto i freni così forte da aver fatto fuori il motore».

    Potrei praticamente prendermi a schiaffi da sola.

    «Forse. Per evitare di investire suo figlio». Mi sono calmata. Non sono più in preda al panico per aver quasi investito Ben o per la torta.

    Risolverò tutto, so che ce la farò. Ma sono comunque irritata. Agitata. Con me stessa adesso, perché non riesco a non rivolgergli degli sguardi che so che non dovrei riservargli.

    Pieno di Soldi. È una definizione non completamente calzante. È ricco, ovviamente, ma è anche dannatamente attraente. I cinquecento della rivista «Fortune» messi insieme non riuscirebbero a vincere un concorso di Mister Universo contro di lui.

    «Giusto. Allora mi lascerà pagare per il danno al suo van. Mi faccia solo sapere dove lo porterà».

    Attraverso questa nuova ondata di shock, l’unica cosa che riesco a pensare è che la definizione sia davvero calzante.

    Mi porge un biglietto da visita, che prendo e mi ficco in tasca.

    Anche questo mi infastidisce. A quanto pare, la sua unica preoccupazione, la sua unica risposta è pagare per tutto.

    Come se i soldi potessero risolvere ogni cosa e lui avesse un magnifico frutteto di alberi di soldi piantato nel suo giardino.

    «Penso a tutto io», dice. «Non si fasci quella graziosa testolina».

    Ohhh. Ci siamo.

    Qualcosa scatta dentro di me.

    Forse è perché vedo ancora i solenni occhi blu di Ben nella mia mente, di poco più chiari di quelli di suo padre. O forse è perché sono arcistufa di Murphy e della sua dannata legge che sembra non volermi abbandonare oggi.

    Tutto quello che poteva andare male è andato stramale.

    «Sa come può risolvere tutto?», chiedo piano, senza alcuna intenzione di dargli modo di rispondere. «Tenendo suo figlio lontano dalla strada e da veicoli in velocità».

    «Signora, Ben è un bravo ragazzo, ha solo…».

    Non avendo alcuna voglia di ascoltarlo oltre, vado avanti: «Ricchi o poveri, i ragazzini con troppo tempo libero si cacciano nei guai. È fortunato che ne abbia evitato uno bello grosso questa volta».

    Finalmente.

    Mi sto comportando da regina delle stronze, lo so, ma accade tutto in un attimo.

    I suoi occhi blu diventano così scuri che devo guardarli una seconda volta. Sto rivalutando ogni cosa io abbia appena detto. Oh, sì, è incazzato.

    Ma mi sento bene.

    «Cosa sta insinuando esattamente?», dice, con un tono affilato nella voce.

    Merda. Non posso dire nulla sul videogioco. Ho promesso di non farlo.

    Così mi limito ad alzare le spalle. «Vediamo… Una felpa da cento dollari, un giubbino da trecento, scarpe da duecento dollari, uno skateboard da quattrocento dollari». Sto solo buttando lì dei numeri, ma dalla sua espressione, non sono affatto lontana dalle cifre sui cartellini del prezzo.

    «Non c’è niente di male nel possedere cose belle o nel condividere la mia ricchezza con la mia famiglia».

    «No, assolutamente», concordo, camminando verso il van. «È un buon obiettivo per molte persone. Quello che sto dicendo è che, che una persona abbia soldi o no, un lavoro può insegnare molto. E lo tiene lontano dalle marachelle». Salgo sul van, sentendomi peggio che mai.

    La vita in generale in questo momento non sta tirando fuori il meglio di me, perciò continuo. «E ci sono anche degli ottimi vantaggi. Responsabilità, coscienziosità e gestione del tempo, per dirne qualcuno».

    Chiudo la portiera prima che possa rispondere con la sua furia da milionario e ingrano la marcia.

    La mia auto per la fuga, perché è questo quello che è, non è agile quanto sperassi. La torta dal lato passeggero cade di nuovo quando la ruota rotola giù dal marciapiede.

    Mi mordo il labbro e rimbalzo anch’io, ma continuo a guidare, rifiutandomi di guardare nello specchietto retrovisore. Non ne verrebbe nulla di buono.

    Devo restare concentrata. Devo tornare in negozio. Decorare un’altra torta. Consegnarla.

    Tornare in negozio. Decorare un’altra torta. Chiamare mia madre.

    Dirle del van che ha da quando aveva la mia età – e sto esagerando di poco.

    Un brivido mi percorre la schiena. È perché riesco a vedere cosa mi aspetta.

    Un altro giorno nella vita di Wendy Agnes si concluderà come al solito.

    In un completo incubo.

    2

    Allora? Abbiamo fame?

    Hunter

    Devo dire qualcosa, ma qualunque cosa dirò, sarà quella sbagliata.

    È così da settimane ormai. Fin da quando Ben ha cominciato le superiori un paio di mesi fa.

    Cambiare scuola è sempre difficile e in questo caso non è andata liscia fin dal primo giorno. I confini del distretto sono cambiati durante l’estate e nessun altro tra i suoi compagni delle medie è stato trasferito. Non è stato facile per lui e ho cercato di compensare, di capirlo, ma ancora non ci riesco.

    È solo la scuola.

    Fai il tuo dovere e torni a casa. Non è così difficile.

    Ciò che è difficile è fare il genitore. Credevo che le cose sarebbero diventate più semplici man mano che fosse cresciuto. Ma non è stato così.

    Abituarlo al vasino è stato uno scherzo in confronto a questo. Ma, devo dirlo, io ho avuto una tata.

    Forse è quello che mi serve di nuovo.

    Peccato che non abbia funzionato neanche questo. L’ultima aveva tutta un’altra visione sul come fare la tata. Trasalisco se ripenso a quando sono tornato a casa trovandola nel mio letto. Nuda. Ad aspettarmi.

    Altre sono state più sottili nel segnalarmi la loro disponibilità. Lei invece me l’ha servita su un piatto d’argento.

    Un piatto che non avevo intenzione di toccare nemmeno da dieci metri di distanza.

    L’ha assunta Sloane. È sempre stato lui a scegliere la maggior parte di loro e chiaramente le sue parti basse devono aver avuto la meglio sul cervello quando ha assunto questa.

    Succede con Sloane. C’è sempre stato per me, però, nel bene e nel male. L’unica cosa che mi resta in questa vita che possa ancora definire un fratello. E il tempo mi ha insegnato bene quanto questo sia prezioso.

    «Allora», dico parcheggiando la Yukon nel garage. «Dove sei andato dopo la scuola?».

    Ben alza le spalle. «Da nessuna parte. Ho solo preso una strada diversa per tornare a casa, tutto qui».

    Tutto qui? La mia mascella si serra e sento i miei stessi occhi scurirsi.

    Odio quando mi mente, quando si chiude in se stesso, ma cerco di ricordarmi quanto gli adolescenti possano essere una malinconica, montante pila di segreti. Posso solo sperare che Ben non si

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