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Il signor Smith
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E-book607 pagine8 ore

Il signor Smith

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Info su questo ebook

Mario ha un amico, Winston, con il quale parla abitualmente. Il loro rapporto non è semplice e soprattutto dipende da una condizione: l’astinenza da psicofarmaci. Winston è una voce, un fantasma, una presenza costante e immaginaria. Di conseguenza Mario, agli occhi di tutti gli altri, è il matto e, in quanto matto, è un uomo che vaga senza meta, senza biografia. Tuttavia c’è qualcosa nel suo passato, reale o meno, una ferita ancora aperta che nessuno può o vuol vedere.
Mario è al centro delle altrui vicende: Tonio e i suoi debiti verso don Mimì; Katia e il suo amore non corrisposto per Tonio; Andrea e nonna Bruna, che soffre di Alzheimer; Franco, provato dal carcere; e poi Sofia, Valentina. Sono personaggi che Francesco Sciannarella delinea con scrupolo e affetto, al punto che ciascuna vita è un racconto a sé e una sottotrama dell’esistenza del protagonista; ogni storia partecipa a una rete di relazioni che ancora Mario alla realtà, salvandolo dall’oblio.
Il signor Smith è un romanzo sull’incontro-scontro tra alienazione e vita quotidiana, solitudine e riscatto, disperazione e rinascita. Laddove ciascuna esistenza ricomincia nell’incontro con un’altra, ancora e ancora, pagina dopo pagina, come se ciascuno di noi partecipasse a una storia più grande.

Francesco Sciannarella è nato, vive e lavora a Matera, habitat di tutte le sue storie da trent’anni a questa parte; è sposato e ha due figli. Inizia a scrivere a sedici anni, e da allora non riesce a smettere. A partire dall’anno 2000, con il suo primo racconto selezionato in un concorso letterario, ha ricevuto diversi riconoscimenti. Ha pubblicato cinque raccolte di racconti, storici e noir, con Altrimedia Edizioni di Matera. Nel 2021 il primo romanzo, Esistenze senza cornice. Ha scritto anche testi per il teatro e sceneggiature per fumetti.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2023
ISBN9788830682924
Il signor Smith

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    Anteprima del libro

    Il signor Smith - Francesco Sciannarella

    Prefazione

    Quando Francesco mi ha chiesto di scrivere la prefazione al suo libro, sono stata travolta da sentimenti diversi e contrastanti. E sì, perché scrivere una prefazione è una bella responsabilità ma Francesco mi conosce ormai da tanti anni e sa che le sfide mi piacciono, come io so che da lui posso aspettarmi di tutto. Ed eccoci qua!

    Naturalmente ho letto tutti i libri di Sciannarella e quasi tutti prima della loro pubblicazione, ma Il signor Smith mi è piaciuto particolarmente (e non perché gli sto scrivendo la prefazione), perché ha saputo affrontare diverse tematiche purtroppo molto attuali come la malattia, la solitudine, l’amore, la sete di denaro, l’indifferenza.

    Mario, il protagonista, vive tutte quelle situazioni che a ognuno di noi potrebbero presentarsi. E in una società come questa, dove sempre più regna l’individualismo, la mancanza di valori, di attenzione all’altro, di solidarietà, questa storia sembra un affresco di tutto questo. Ma dopo tante, tantissime peripezie, difficoltà e sofferenze patite da quest’uomo, Francesco Sciannarella fa trionfare l’amore, senza essere banale, donandoci speranza.

    Un amore nelle sue diverse declinazioni. Filiale, di coppia, amicale. Un sentimento che ha bisogno di energia e tempo. Come diceva Bauman:

    «È qualcosa che richiede di essere creato e ricreato ogni giorno, ogni ora; che ha bisogno di essere costantemente risuscitato e riaffermato e richiede attenzione e cure».

    Se l’amore viene meno, l’uomo perde la sua luce. E questo Francesco Sciannarella ce lo fa vivere attraverso il suo protagonista Mario. La sua scrittura ha la capacità di farti provare le emozioni dei suoi personaggi, gioie e dolori, facendoti legare a ognuno di loro.

    Angela Loperfido

    Il signor Smith

    «Ci incontreremo là, dove non c’è tenebra».

    George Orwell, 1984.

    Uno.

    Matera, estate 2007.

    «Perché ti volevi buttare giù dal ponte?».

    «Non lo so…».

    Perché eri stanco di vivere, diglielo Mario!

    Mario si toccò la fronte, lì dove sentiva pulsare la voce di Winston, ma riuscì a controllarsi, a non rispondergli ad alta voce. Non ora. Non davanti al suo giovane amico.

    «Saresti morto!».

    «Sì, sarei morto!».

    Andrea distolse lo sguardo. Iniziò a far dondolare la gamba, toccando appena la sua bicicletta. Era rossa e Mario l’aveva fatta riparare dal suo amico Marcuccio, dopo che tre bulli l’avevano presa a calci e ridotta in fin di vita.

    «Ehi, signore… ch-che sta facendo?» aveva esordito Andrea, con voce tremula.

    Mario aveva già scavalcato il guardrail, quando aveva sentito quella voce innocente, sconosciuta, alle sue spalle. Lo aveva guardato di sfuggita, poi era tornato a fissare il vuoto sotto di lui. Aveva scelto quel ponte nella zona industriale, nei pressi del parco dove trascorreva gran parte delle sue mattinate a non far nulla. Ci passava davanti ogni volta e ogni volta il pensiero di lasciarsi cadere da lassù lo aveva sfiorato. Ogni volta. E ogni volta aveva desistito.

    «Signore… se-se cade giù… muore, lo sa?».

    Andrea non aveva mollato, nonostante la sua voce fosse spezzata dalla paura. Non doveva essere un bello spettacolo vedere un uomo sul ciglio di un ponte, pronto a lasciarsi cadere giù.

    Mario non si era mosso.

    Guarda che il ragazzino ha ragione, Mario!

    «Sta’ zitto Winston!» aveva risposto a denti stretti.

    «Signore… non ha paura di… di morire?».

    Mario si era girato nuovamente. Quel ragazzino era fermo, sulla sua bicicletta rossa, a guardarlo con aria stranita. Era come se fosse apparso lì dal nulla.

    «No, non ho paura!» gli aveva risposto, a mezzo tono.

    Il ragazzino era come alla ricerca delle parole giuste, ma di tanto in tanto guardava lontano, verso l’ingresso del parco, quasi aspettasse qualcuno.

    «E… e perché lo vuole fare?».

    Forse dovresti dirgli perché per l’ennesima volta non lo farai, vero Mario?

    Mario aveva sentito una rabbia salirgli, sentendo la voce di Winston nella sua testa, ma si era sforzato di rispondere al ragazzino, più che al suo amico immaginario, residente nel suo cervello da quando aveva smesso di prendere il litio.

    «Perché… perché sono stanco di vivere» lo aveva guardato «capisci cosa voglio dire?».

    Il ragazzino aveva detto sì con la testa, poi si era fatto riflessivo «Anch’io sono stanco di essere preso a sassate da tre ragazzi più grandi di me, di essere inseguito e chiamato cacasotto…» lo aveva guardato «ma non per questo mi voglio buttare dal ponte!».

    «Ma di che diavolo stai parlando?». Mario aveva guardato quel ragazzino solo, che gli stava parlando senza conoscerlo. Senza sapere veramente quello che gli passava per la testa. Senza sapere quello che aveva dovuto vivere nella sua vita, prima di stare sul bordo di quel ponte. «Dico che non risolve niente se si butta giù dal ponte!». Devi ammettere che il ragazzino ha ragione, Mario!

    Mario aveva stretto i denti e ancora una volta aveva evitato di rispondere a Winston. Intanto alcune persone in auto stavano iniziando a incuriosirsi troppo. Non andava bene! Se una di quelle persone si fosse fermata, non avrebbe potuto fare più nulla. Se chiamavano gli sbirri rischiava nuovamente il trattamento sanitario obbligatorio… una gran rottura di scatole! E così Mario si era seduto sul guardrail, rimanendo sempre dalla parte del vuoto.

    «Guardi signore… sono quei tre i ragazzi che ce l’hanno con me» aveva detto il ragazzino, guardando verso la strada «appena mi vedranno verranno qui!» Mario guardò lì dove stava indicando il piccolo ometto.

    «E allora scappa!» gli aveva detto, sperando andasse via dalle scatole.

    «Sì… ma se scappo… poi lei si butta giù!».

    Mario si accigliò. Avrebbe voluto urlargli di andarsene davanti ai piedi… ma non lo fece.

    Il ragazzino ti sta tendendo la mano, Mario.

    Mario aveva fatto un cenno di assenso al suo amico nella testa.

    «Ok, allora resto!» aveva detto il ragazzino.

    «Ti ho detto di scappare e di lasciarmi in pace!».

    «Va bene… se però si gira e si mette da questa parte io vado via… altrimenti resto qui!» Mario non aveva replicato, confuso.

    «Ehi… amico, che stai facendo?» un’auto si era fermata e l’uomo alla guida si era rivolto a Mario con tono spocchioso. Lui lo aveva guardato, senza rispondere «che diavolo ci fai là? Sei impazzito?» aveva detto ancora.

    «Ehm… è mio padre» era intervenuto il ragazzino «è volato il cappello laggiù e pensava si potesse scendere da lì, vero, papà?» il ragazzino aveva guardato in direzione di Mario che non si decideva a rispondere «Oh… papà… dai non importa, lo cerchiamo un altro giorno, ok?».

    Per un attimo tutto sembrava essersi fermato come in una istantanea. Il panorama della vallata. Il ragazzino sulla bicicletta rossa. L’uomo in auto ad aspettare. I tre bulli sulle loro biciclette feroci. Il suo respiro. Tutto.

    Mario… il ragazzino ti sta tendendo la mano!

    Mario, con movimenti lenti, aveva passato prima una gamba e poi un’altra oltre il guardrail ed era rimasto seduto.

    «Ok!» aveva detto, infine, lanciando un’occhiata all’uomo nell’auto. Questi aveva fatto un cenno di assenso, aveva ingranato la marcia e si era allontanato. Mario lo aveva seguito con lo sguardo e poi aveva trovato il volto del ragazzino che sorrideva, ma fu un secondo. In quel preciso momento erano spuntati i tre bulletti sulla strada e lo avevano individuato.

    «Ecco… adesso devo scappare!» e senza indugiare, con potenti pedalate, si era avviato verso il parco, costringendo i suoi inseguitori a una rischiosa inversione a U.

    «Grazie per avermi fatto sistemare la bicicletta» disse Andrea, facendolo tornare al presente «la nonna si era già arrabbiata parecchio perché ero tornato a casa senza».

    «Prego».

    «E grazie per avermi aiutato con quei tre cretini!».

    E tu dovresti ringraziarlo per averti salvato la vita, non credi, Mario?

    Mario mosse appena il capo, dando ragione a Winston, ma non parlò. Un giorno lo avrebbe ringraziato.

    Andrea lo guardò e sorrise. I tre bulletti, in quel momento, lo stavano ignorando, grazie a Mario. I tre avevano avuto modo di conoscerlo.

    Due giorni prima, dopo che Andrea lo aveva aiutato a non buttarsi giù dal ponte, Mario era rimasto a lungo seduto su quel guardrail, solo in compagnia della voce amica di Winston nella sua testa.

    Non lo hai ringraziato, lo hai lasciato andare via ad affrontare da solo quei bulletti, Mario?

    «Non posso farci niente!» gli aveva risposto, ricordando quanto aveva dovuto subirne anche lui, di angherie simili, quando aveva l’età di quel ragazzino.

    Solo perché le hai passate tu… non è detto che debba passarle anche lui!

    «Non sono il suo angelo custode!». Però credo che lui sia il tuo!

    Mario aveva sospirato e si era sentito rabbioso per non aver avuto il coraggio, ancora una volta, di mettere fine alla sua vita ingloriosa. Quell’insano pensiero lo aveva tormentato infinite volte, nelle notti insonni per le strade di Roma, senza una dimora. Un barbone la notte la passa sveglio per non essere derubato delle poche cose che ha, o peggio essere preso a calci da qualche balordo drogato o ubriaco. E anche in quelle occasioni non aveva trovato mai il coraggio di farlo.

    E così, sotto la spinta di Winston, si era alzato da quel guardrail e si era avviato verso il parco. Davanti l’ingresso aveva scrutato tutto attorno, ma non aveva visto nessuno.

    «Saranno andati via!» aveva pensato, già pronto a rifugiarsi nuovamente sulla sua panchina, in compagnia di Winston nella sua testa.

    Ti arrendi troppo facilmente, Mario!

    Appena Winston aveva taciuto, aveva sentito voci di ragazzini alle sue spalle. Poco oltre il parco c’era una stradina di terra che portava a una via laterale. Mario aveva messo a fuoco e individuato i tre ragazzini, avevano circondato il suo amico e con un accanimento cinico stavano prendendo a calci la sua bicicletta, incuranti che stesse piangendo.

    «State fermi! Fermi!» lo aveva sentito urlare Mario, in lacrime. Lo avevano spinto da parte, facendolo cadere nella terra. Infine, il capo della piccola gang aveva preso la malridotta bicicletta e l’aveva lanciata verso la discesa polverosa. Quello che era ormai un trabiccolo aveva camminato barcollando per poi cadere, ormai priva di vita. E senza pietà i tre aveva urlato divertiti.

    Mario era quasi arrivato a loro, mentre il suo giovane amico, fermo nella parte alta della strada, stava piangendo e infine, esausto si era arreso, preferendo che se la prendessero con la sua bicicletta piuttosto che con lui.

    «Lasciatelo in pace!» aveva detto Mario, con tono fermo. I tre si erano fermati e il capo aveva parlato.

    «Fatti i cazzi tuoi, ritardato!».

    Mario aveva inspirato ed espirato, cercando di non far esplodere completamente la sua rabbia, la stessa dei suoi anni di bambino. E senza indugiare aveva preso il capo per il bavero e lo aveva spinto, facendolo cadere per terra e urlare per il dolore.

    «Ehi… ma che vuoi?» aveva detto un altro, con un briciolo di coraggio.

    «Ho detto di lasciarlo in pace» e aveva fatto un altro passo verso di loro «tre contro uno, siete davvero coraggiosi!».

    «E a te che te ne frega, ritardato!». Il capo aveva parlato, mentre si rialzava e si toccava il didietro dolorante.

    Mario, stufo di quella parola, gli si era avvicinato a pochi centimetri dal volto «prova a dire un’altra volta quella parola!».

    Il ragazzino era impallidito. I primi segni di acne giovanile gli davano un’aria per certi versi spensierata, ma in quel momento Mario vedeva in lui solo un adolescente cattivo e insicuro.

    «Andiamocene!» aveva detto ai suoi compari.

    Insieme si erano avviati verso la parte alta della strada sterrata a recuperare le loro biciclette.

    «Ciao ritardato!» avevano urlato a turno i tre, mostrandogli il dito medio, ridendo.

    Mario era rimasto a fissarli fino a che non erano scomparsi alla sua vista. Poi aveva cercato il giovane padrone della bici rossa.

    Era scomparso.

    Poi allungato lo sguardo anche oltre il parco, lo aveva visto scomparire oltre i palazzi dal versante opposto della recinzione.

    Mario si era avvicinato alla sua bicicletta. Era ridotta male. Il manubrio storto, i fili dei freni rotti, alcuni raggi saltati e un pedale caduto di lato, come un arto spezzato.

    Come minimo, per ringraziarlo, dovresti sistemargli la bicicletta! «Non saprei da dove iniziare!». Potresti portarla da Marcuccio!

    Mario non aveva risposto a Winston, ma aveva pensato che quello era l’unico modo per sistemare la bici al suo giovane amico. L’aveva tirata su e si era incamminato verso il garage di Marcuccio, un suo amico, vicino agli ottant’anni, un mago nel rimettere a posto ogni modello di bicicletta.

    Mario lo aveva conosciuto perché gli portava la frutta a domicilio, per racimolare qualche spicciolo, per conto di Vito e Angelo, due fratelli proprietari di un negozio di frutta nel quartiere di Piccianello. Mario ci passava ogni mattina e aspettava lì davanti, impalato, fino a che Vito non lo chiamava per qualche consegna in casa dell’anziana signora di turno. Quando però era andato la prima volta al garage di Marcuccio, lo aveva trovato in buona salute e solo dopo aveva capito.

    «Un cretino, mezzo drogato, mi ha mandato un mese in ospedale per fregarmi venti euro e una bicicletta» gli aveva spiegato un giorno «e ho ancora dolori alle costole, arrivare al negozio è una tortura» aveva aggiunto, mentre usava una chiave inglese dodici.

    Mario se ne stava lì seduto a guardarlo per ore. Dopo essere andato da lui un paio di volte, il vecchio Marcuccio gli aveva detto che, se voleva, poteva fargli compagnia. Così quando finiva i suoi giri per la consegna della frutta passava dal garage e si lasciava ipnotizzare dalle mani artritiche del vecchio amico, mentre dava nuova vita a vecchie biciclette.

    «Dove l’hai trovata?» gli aveva chiesto Marcuccio, appena arrivato al suo garage, tenendo per mano quella bicicletta ferita dai tre cretini.

    «È di un ragazzino… gli devo un favore!».

    Marcuccio si era disinteressato della risposta e subito si era piegato con uno sforzo e aveva studiato la bici rossa.

    «Cos’è… l’hanno buttata giù da un ponte?» aveva detto il vecchio, mostrando il sorriso della sua dentiera.

    «Qualcosa del genere».

    «Mmmh… dovrei avere tutti i pezzi, tranquillo, amico mio!» gli aveva preso la bicicletta di mano e l’aveva messa in un angolo. E prima che potessero dirsi altro, una voce alle spalle di Mario aveva spezzato l’atmosfera tra loro.

    «Ciao papà!».

    Mario si era girato e aveva notato una ragazza, elegante, dal portamento fiero e occhi dolci. Era la figlia di Marcuccio. Una volta lui gliene aveva parlato, ma con stizza.

    «Mia figlia mi sta sempre addosso» gli aveva detto, mentre stringeva un bullone «quasi fossi un bambino!».

    Mario, con gli occhi fissi sulla chiave inglese, aveva pensato che forse era solo preoccupata per lui, dopo l’aggressione, ma aveva tenuto per sé il suo pensiero.

    «Quel deficiente mi ha colto di sorpresa, ma se torna di nuovo gli spacco la testa con questa» e aveva brandito l’attrezzo.

    E quel giorno, quando aveva visto la figlia di Marcuccio, Mario ne era rimasto folgorato, il suo portamento era pieno di un fascino misterioso, ma i suoi occhi avevano un’aria triste, quasi dietro vi fossero delle verità nascoste.

    «Ciao!» Marcuccio aveva replicato con tono piatto e senza girarsi.

    «Ne hai per molto?» aveva chiesto la ragazza.

    «Che ti serve?» aveva incalzato Marcuccio, saccente.

    «Fa caldo, papà! Sali a casa, per favore!».

    «Non ci sto chiuso in casa con quel coso che spara aria fredda! Preferisco stare qui!».

    Mario aveva visto la ragazza abbassare lo sguardo. Era giunto il momento per lui di andare via.

    «Quando sarà pronta?» aveva chiesto a Marcuccio, indicando la piccola bicicletta rossa nell’angolo.

    «Vieni dopodomani, Mario» poi lo aveva guardato «per te venti euro basteranno!».

    Mario aveva fatto un cenno di assenso al suo «stammi bene» e si era allontanato, scambiando uno sguardo profondo con la figlia del suo amico. Nessuna parola, solo un piccolo movimento della testa da parte di entrambi.

    «Ce l’hai la fidanzata, Mario?».

    Andrea gli fece quella domanda sorridendogli appena.

    «No».

    «E non c’è una ragazza che ti piace?» Andrea ampliò il sorriso.

    Mario ricambiò appena «Sì, credo di sì… ma non so neanche come si chiama!».

    «E dove l’hai vista?».

    Mario aveva abbassato lo sguardo alla bicicletta e l’aveva indicata con un movimento della testa «dal mio amico che ti ha sistemato la bicicletta!».

    «Anche a me piace una ragazza… solo che… non mi guarda nemmeno!».

    Mario aveva sorriso e lo aveva guardato «è un buon segno!».

    «Che significa?».

    «Significa che quasi certamente anche tu le piaci… ma si vergogna anche lei, ecco perché non ti guarda nemmeno!».

    «Dici davvero?».

    «Non posso esserne sicuro, ma le donne fanno così… già alla tua età!» Si guardarono e sorrisero entrambi.

    Hai riso più oggi che durante tutta l’estate, Mario!

    Mario aveva fatto un leggero cenno di assenso al suo amico. Era vero.

    «Quindi che devo fare?».

    «Prova ad avvicinarti a lei e a diventare amici… poi pian piano capirai se ti vuole davvero o meno!».

    Mario sapeva che quella cotta di bambino non sarebbe durata che poche ore, ma era giusto che il suo giovane amico imparasse a comportarsi nel modo migliore possibile.

    «Ok, va bene… quando torno a casa… lo faccio… anche se adesso frequenteremo due scuole diverse, ma so dove abita e potrei passarci con la bicicletta, vero?». «Sì, è una buona idea».

    «E tu come farai con quella lì?».

    Mario l’aveva guardato, perplesso «non lo so, non ci ho pensato!».

    «Ma non hai detto che ti piace?».

    «Per gli adulti è più complicato!».

    Andrea aveva fatto spallucce, prima di parlare «lo dice anche mio padre, quando gli chiedo perché litiga con la mamma!».

    «Quando sei adulto è complicato un po’ tutto… ma questo non vuol dire che i tuoi genitori non stanno bene insieme o non ne vogliano a te».

    «Mmmh… capito!».

    Mario e Andrea continuarono a parlare fino all’ora di pranzo, poi aveva accompagnato il suo amico al cancello posteriore del parco, per salvaguardarlo dai tre bulli che ronzavano nei paraggi.

    «Quelli non la smetteranno mai di darmi fastidio!».

    Mario aveva guardato nella direzione dello sguardo del suo amico e aveva visto i tre nella parte alta del parco.

    «Solo quando affronterai il capo!».

    «Ma quelli sono forti, mi fanno male!».

    «Lo so… ma se vuoi che la smettano o fai così o devi scappare sempre fino a che non sarete tutti grandi abbastanza per dimenticarvi di queste ragazzate!».

    Andrea fece una smorfia «forse aspetterò di essere più grande» e aveva spinto la bicicletta oltre il cancello «ciao» lo aveva guardato «domani vieni?».

    Mario lo aveva fissato a lungo «Sì, ti aspetto alla panchina dove sono sempre».

    «Ok!» e sorridente era sgattaiolato via felice.

    Mario lo aveva seguito con lo sguardo fino a che non era scomparso dietro il palazzo. Un ragazzino in gamba, non trovi, Mario?

    «Sì».

    Mario si era avviato verso casa con uno spirito ancora più rinfrancato di due giorni prima, quando Andrea gli aveva salvato la vita. E grazie a lui e alla sua bicicletta aveva incontrato la figlia di Marcuccio, anche se con molta probabilità non si sarebbero mai più visti e se fosse successo, quasi certamente lei lo avrebbe ignorato. Un uomo vestito come un meccanico, con ai piedi mocassini deformi e in testa un cappello da baseball rosso… non è un tipo da suscitare l’interesse di una donna così di classe come lei.

    Nella vita niente è scontato, Mario!

    Mario non aveva replicato, nonostante fosse d’accordo con Winston. E quando era arrivato nel suo cubicolo, appena si era chiuso la porta alle spalle, aveva visto il pranzo portato da sua nipote. Nel vassoio, accanto alle pillole di litio, c’era un biglietto con la sua calligrafia.

    «Zio, prendi le pillole, ti prego!».

    Mario fissò a lungo il pranzo, le pillole, il biglietto e infine i suoi mille disegni attaccati al muro. Poi, lentamente, prese a mangiare.

    Ingurgitò tutto e infine mandò giù il litio. E con gesti automatici prese a disegnare.

    Quel giorno voleva disegnare Andrea, la figlia di Marcuccio e sua nipote.

    Tutte persone importanti.

    Due.

    «Tu sei il mio principe azzurro, lo sai?».

    «Sì, certo… un principe azzurro senza un cavallo e soprattutto senza un soldo!».

    Tonio, ancora nudo, si era seduto sul bordo del letto del loro nido d’amore, dandole le spalle. Katia era ancora distesa, sotto la coperta leggera che le accarezzava la pelle calda. Si allungò verso di lui, gli cinse la vita e cercò i suoi occhi.

    «Non mi importa se sei senza un soldo…» gli sorrise «sarai il mio principe… al verde!».

    Tonio si alzò e prese a vestirsi, scuro in volto. Katia non aveva mai sopportato che andasse via, subito dopo aver fatto l’amore, avrebbe tanto desiderato che rimanesse con lei sotto le coperte a parlare del futuro, quel futuro insieme che stavano rimandando da anni.

    «Non sono in vena di battute!».

    «Scusami tesoro… non andare subito via, per favore!».

    «Ho un paio di appuntamenti in concessionaria… devo cercare di ottenere un fido da un’altra banca, tramite un mio amico».

    «Non te lo concederanno, lo sai!».

    «Il tuo ottimismo è disarmante… dove cazzo sono le mie calze?».

    «Forse dimentichi che sono io a portare la contabilità nella tua concessionaria!».

    «Porca miseria… dove le ho messe?».

    Katia si liberò della coperta e scese dal lato opposto del letto, ormai completamente priva dell’euforia dell’ultima ora trascorsa con l’uomo che amava.

    «Eccole» disse, mostrando le calze infilate nelle scarpe «dove le metti sempre per non dimenticarle!».

    Tonio girò attorno al letto, sedette e infilò calze e scarpe. Si alzò e infilò la camicia. Katia lo aiutò ad abbottonarla, dolcemente. Man mano che un bottone attraversava l’asola la sua euforia ritornava, spinta fuori dal piacere di quel corpo che amava stringere a sé quasi con violenza.

    «Quando parlerai a tua moglie di noi due?».

    Katia infilò l’ultimo bottone e prese a stendere il tessuto sul petto, per ridargli forma. Lo fissò negli occhi con un piccolo sorriso. Tonio fuggì lo sguardo, come sempre, e si allontanò, andando davanti lo specchio e iniziando a risistemare la cravatta.

    «Non è così facile come credi. Rossella è proprietaria per metà della concessionaria e se dovessi darle quello che le spetta per il divorzio… sono sul lastrico!».

    «Questo che vuol dire… che per noi non c’è speranza?».

    Tonio non replicò, stizzito dal nodo che non veniva mai bene al primo colpo.

    «Non ho detto questo…».

    «Tonio, sono anni che dici sempre la stessa cosa… credo proprio tu mi stia prendendo in giro!».

    «Le cose non vanno per il verso giusto, ho già messo in vendita anche questo appartamento e ho già avuto un paio di offerte interessanti…».

    «Ah… quindi non avremo neanche più un posto dove poter stare insieme… bene!».

    Tonio la guardò e le sorrise. Katia ebbe il solito fremito lungo la schiena che cancellò ogni traccia di rabbia crescente. Le si avvicinò, prese il suo volto tra le mani e la baciò a lungo, facendole perdere fiato. E quando si separò, lei si sentì nuovamente frastornata e dimentica di quello che si stavano dicendo. Lui tornò davanti lo specchio, nuovamente alle prese con il nodo.

    Katia sedette a gambe incrociate sul letto e rimase a fissare il suo riflesso con un sorriso di felicità pura. Era sempre più convinta di amare quell’uomo che la trattava solo come la sua amante, ma al quale doveva tantissimo. Non solo perché gli aveva dato un lavoro, ma anche perché l’aveva resa la donna che era.

    Katia, quando aveva iniziato a lavorare per Tonio e Rossella, in concessionaria, non aveva nulla dell’aspetto fisico che aveva adesso. Il suo abbigliamento era stantio e talmente fuori moda da essere diventato vintage. Indossava un paio di occhiali con una montatura così pesante da essere una maschera che la nascondeva al mondo. Le lenti, poi, spesse come fondi di bottiglia, davano ai suoi occhi una forma così abnorme da renderla a dir poco ridicola. Il colpo di grazia erano i capelli, sempre raccolti a coda di cavallo o peggio con un cerchietto, fermacapelli o una carrellata di fermagli. Al fianco di Rossella, di quasi dieci anni più grande, sembravano rispettivamente nonna e nipote. In compenso Katia era una vera professionista della contabilità. A scuola era stata sempre la migliore, si era diplomata con il massimo dei voti e non aveva potuto proseguire gli studi per due motivi: suo padre, integerrimo e integralista sull’argomento «donna sola fuori di casa» e la malattia di sua madre che di lì a poco l’avrebbe portata via.

    «Tua moglie è bellissima» aveva detto a Tonio un giorno, quando lavorava in concessionaria già da un anno, seguendo con lo sguardo Rossella, oltre la vetrata.

    Tonio aveva risposto con il suo sorriso da conquistatore, quello stesso sorriso che le aveva fatto perdere la testa dal primo giorno. Poi si era seduto sul bordo della scrivania e l’aveva guardata, facendola arrossire.

    «Anche tu sei molto bella, sai?».

    «Non è vero!» Katia avrebbe voluto scomparire dalla vergogna.

    «Il tuo problema non è la bellezza, Katia» le aveva preso il mento e l’aveva costretta a guardarla, come alla ricerca di qualcosa dietro le lenti «ma il fatto che la nascondi la tua bellezza!».

    Le aveva fatto l’occhiolino e l’aveva lasciata basita, senza aggiungere altro. E da quel giorno Tonio aveva iniziato a ronzarle attorno, dandole pian piano consigli per diventare un’altra donna. E così Katia aveva iniziato a comprare abiti eleganti, dilapidando gran parte dello stipendio, cosa che faceva infuriare suo padre. E aveva iniziato a frequentare, per la prima volta, centri estetici e saloni di bellezza. Infine aveva sostituito quelle lenti da nerd con lenti a contatto. Così il verde dei suoi occhi era stato portato alla luce.

    Katia ricordava i primi mesi, quando aveva iniziato a camminare sui tacchi, alla continua ricerca di equilibrio, sentendosi una stupida, ma non aveva mollato. E Tonio nemmeno, man mano che il suo aspetto migliorava, le distanze tra loro si riducevano. I contatti, apparentemente fortuiti, erano diventati ricercati e quando un giorno, rimasti soli alla chiusura della concessionaria, lui l’aveva baciata voracemente, lei era ormai completamente innamorata e si era lasciata sedurre senza freni.

    Da quel giorno erano diventati amanti. Tonio l’aveva erudita anche su come essere «brava a letto», come diceva lui. Katia si era lasciata andare, lentamente tutte le inibizioni erano crollate e Tonio non riusciva a tenersi a distanza da lei per molto tempo.

    «Oggi ho visto tuo cognato» disse Katia, tornando alla realtà.

    Tonio si fermò, dopo aver trovato la quadratura del nodo, e la fissò con sguardo strano.

    «Dove?».

    «Da mio padre, ha portato una bicicletta da sistemare» fece spallucce «non sapevo neanche si conoscessero».

    «Un bicicletta?».

    «Sì, una di quelle per ragazzini».

    Tonio si girò con uno scatto e la fissò in modo sempre più strano. Fece una faccia piena di uno stupore improvviso, poi tornò a fissarsi allo specchio. Era diventato pensieroso di colpo. «Una bicicletta per ragazzini hai detto?». «Già».

    Katia aveva visto Mario solo una volta, davanti casa di Tonio, un giorno in cui l’aveva accompagnato. Di lui sapeva solo che aveva vissuto come un barbone, a Roma, ma Tonio era riuscito a ritrovarlo e a portarlo a casa sua. Suo cognato, però, non aveva voluto saperne di vivere insieme a loro, optando per uno scantinato nel sottoscala del palazzo.

    «Quello è mio cognato» le aveva detto, indicandolo, mentre usciva dal portone. Indossava una vecchia salopette sgualcita, una camicia blu e un cappello da baseball calato sugli occhi.

    «Che tipo!».

    «Sì, davvero un bel tipo!».

    «Ma cos’ha?».

    «Credimi, non lo so. Lo abbiamo portato da un nostro amico psichiatra e gli ha prescritto una cura, dovrebbe prendere delle pillole, ma non credo lo faccia, non vedo grandi miglioramenti!».

    «Ma… è pericoloso?».

    «Ma nooo… parla da solo e ha certe sue fisse strane!».

    Katia aveva sorriso, poco incuriosita da quell’uomo strampalato, lontano anni luce dal suo uomo ideale. E mai lo sarebbe stato. A lei facevano un po’ paura le persone con qualche rotella fuori posto.

    «Non avevi detto che aveva finalmente iniziato a curarsi?».

    «Mia figlia gli porta ogni giorno le pillole, ma non so se le prende».

    «Credo di no. Dall’aspetto e dallo sguardo che aveva stamattina, direi proprio di no!».

    «Non che me ne freghi molto di lui…».

    «E allora perché non l’hai lasciato a Roma?».

    Prima che Tonio potesse rispondere, il suo cellulare prese a squillare sul comodino accanto al letto. Andò in quella direzione e lesse il nome.

    «Cazzo!» prese il telefono senza rispondere.

    «Tonio, chi è?».

    Tonio replicò con un gesto della mano a zittirla, poi andò in bagno, rispondendo solo dopo essersi chiuso a chiave. Katia si alzò, ancora nuda, e accostò l’orecchio alla porta.

    «Pronto?».

    «Buonasera don Miche’… sì… lo so che dovevo chiamarvi ieri, ma vi giuro che sto risolven…».

    «No, don Miche’ lo sapete che non vi farei mai un tor… sì… sì certo… noooooo… ma che dite don Miche’…».

    «Mia figlia? Che… che c’entra Sofia adesso?».

    «Don Miche’ lasciate stare mia figlia… lei… lei non c’entra niente in tutta questa storia…».

    «Vi ho detto che rispetterò i patti… ma… per favore, Sofia deve starne fuori… altrimenti io… altrim…».

    Katia ebbe la sensazione che Tonio stesse piagnucolando.

    «No… niente, non volevo dire niente. È solo un momento di nervosismo. Comunque datemi ancora qualche altro giorno, per favore!».

    «Va bene… va bene… grazie don Miche’… grazie!».

    Katia scattò verso il letto e prese a vestirsi, dopo aver recuperato gli slip, mescolati alle lenzuola arruffate. Sentì la chiave scattare nella serratura e quando Tonio uscì si stava stropicciando gli occhi come a voler cacciare via una brutta immagine impressa sulla retina.

    Katia infilò il reggiseno e lo fissò.

    «Amore… tutto bene?».

    Tonio si pose davanti lo specchio senza guardarsi, tenendo le mani poggiate sul mobile bianco.

    «Tonio… chi era al telefono?».

    Lo vide alzare le spalle in un profondo sospiro, poi fissò la sua immagine riflessa, ma sembrava non vederla.

    «Nessuno… non era nessuno!».

    «Tonio… mi nascondi qualcosa?».

    Tonio non replicò e si girò. Appoggiò il corpo al mobile, incrociò le braccia sul petto e prese a guardarla. Katia, con leggero imbarazzo, continuò a vestirsi, aveva appena infilato la gonna.

    «Devo chiederti un favore enorme».

    «Quello che vuoi… tranne soldi… lo sai che stiamo pagando l’avvocato per mio fratello…».

    «No, non voglio soldi, ma… se ti muovi bene come credo tu sappia fare… potremo avere un bel po’ di soldi e… rimetterci in pari» le si avvicinò, la costrinse a girarsi e l’aiutò a chiudere la zip «e magari iniziare a pensare a noi due».

    Katia sentì il calore del suo respiro sul collo ed ebbe un brivido. Chiuse gli occhi assaporando quel soffio leggero.

    «Che favore vuoi che ti faccia?».

    «Beh… c’è di mezzo mio cognato…». «Mario?». «Sì».

    Katia infilò la maglia, tirò fuori i capelli e si girò a guardarlo.

    «Ti ascolto».

    «Beh…» Tonio iniziò a muoversi lentamente per la stanza del monolocale «devi sapere che mia suocera, prima di crepare, ha lasciato un bel po’ di soldi a mia moglie…».

    «Quelli che avete investito per aprire la concessionaria… sì, lo so…».

    «Ehm… sì… sì… quelli» Tonio non la smetteva di toccarsi la fronte e di muoversi «beh… la stessa somma ho scoperto che l’ha lasciata a quel mentecatto di mio cognato».

    «Va avanti» Katia infilò le scarpe restando in equilibrio su un piede solo. «Beh… solo che quell’idiota non è mai andato a incassarli».

    «E perché?».

    «Devi sapere che mia suocera, pace all’anima sua, prese quanto aveva a sua disposizione dal conto corrente della fabbrica di suo marito, prima che fallisse, e lo mise su due conti correnti cifrati in Svizzera, conti correnti ai quali poteva accedere solo chi era in possesso del numero di conto e del codice di accesso».

    «Sì, certo, i conti correnti cifrati sono proprio fatti così…».

    «Infatti…» Tonio si fermò e la fissò «il problema è che mio cognato non sa di avere tutti quei soldi a disposizione perché ha rimosso tutto dalla sua mente, capito?». «Davvero?». «Certo».

    Tonio tornò a guardare il vuoto, ma smise di toccarsi la fronte alla ricerca delle parole giuste.

    «Non ho capito cosa c’entro io in tutto questo!».

    «Beh… diciamo che dovresti… come dire… farti amico mio cognato e scoprire dove sono stati trascritti i numeri di quel numero di conto corrente e il suo codice».

    «E chi ti dice che non l’abbia scritto affatto?».

    «Impossibile. Conoscevo bene mia suocera, faceva sempre tutto con molta attenzione e intelligenza. A mia moglie, per esempio, diede una foto di suo padre, alla quale teneva moltissimo, e dietro le scrisse i due numeri».

    «Quindi tu pensi abbia fatto lo stesso con Mario?».

    «Ne sono sicuro!» prese una pausa «in verità ho fatto delle indagini… diciamo particolari e ne ho la certezza».

    «Ho capito, hai scavato dove per legge non potevi!».

    «Già!».

    Katia, finito di vestirsi, sedette sul bordo del letto, fissando il vuoto nella penombra, non amava fare l’amore con troppa luce. Tonio le sedette accanto e le prese la mano.

    «Katia…».

    «Che vuoi dire con «farti amico tuo cognato»?» Katia lo fissò, lui guardava lontano.

    «Beh… diventare amici, fare in modo che lui si fidi di te, che si apra e magari… alla fine ricordi dove ha messo quei numeri!».

    «Non sono convinta funzioni… soprattutto se ha smesso di prendere quelle pillole e credo abbia smesso, te l’ho detto… stamattina il suo sguardo non era molto presente».

    «E allora devi diventare sua amica fino a convincerlo a riprendere la cura! Parti da lì!».

    Katia scattò in piedi, confusa. Prese a muoversi per la stanza già immaginandosi quello che l’aspettava, se avesse accettato. E non ne era affatto convinta.

    «Non posso farlo!».

    «Perché no?» Tonio si alzò e la raggiunse, prendendola per le spalle «Mario non è affatto pericoloso, credimi… e poi non corri il rischio di innamorarti di lui…» sorrise.

    «Che vuoi dire?».

    Tonio la lasciò andare, prese nuovamente a toccarsi la fronte e a cercare le parole nel vuoto, ma questa volta con un sorriso forzato.

    «Beh… diciamo che ha una specie di fissazione per la donna che… sì… che lo ha ridotto in quello stato… Giulia e non vede altre donne a parte lei!».

    E con un movimento lento e misurato la scrutò da capo a piedi, quasi fosse la prima volta che la vedeva.

    «Perché mi guardi così?».

    Katia si sentiva senza protezione.

    «Perché con qualche piccolo accorgimento… potresti davvero somigliarle moltissimo!».

    Katia senti un moto d’ira partirle dalla bocca dello stomaco, salire rapidamente come la lava di un vulcano e correre verso la bocca per poi esplodere.

    «Non puoi chiedermi questo!».

    «Ma non ti sto chiedendo nulla di strano» le prese le spalle «devi solo cambiare un po’ il tuo aspetto… non sei nuova a queste cose!».

    Con un colpo secco Katia si liberò delle sue mani.

    «Sei un idiota! Quando l’ho fatto era perché ti amavo e volevo che vedessi davvero come sono fatta… l’ho fatto per amore… non certo per scovare un numero di conto corrente, Dio santo!».

    Katia andò a sedere sul bordo del letto, prese le tempie nella mano destra e iniziò a massaggiare. Sentiva che il suo solito mal di testa da nervosismo stava per arrivare. «Lo vuoi capire che potrebbe essere la volta buona per noi due?». «Sto cominciando a crederci ogni giorno di meno».

    «Non avevi detto che mi amavi?».

    «Sono due cose diverse!».

    Tonio tacque. Tornò a poggiarsi al mobile e incrociò le braccia sul petto. La stava fissando, sentiva il suo sguardo addosso.

    «Se mi ami davvero… devi farlo!».

    Katia girò lo sguardo folgorandolo e si alzò, muovendo nella sua direzione. Gli si parò davanti, costringendolo a un movimento di allerta.

    «E tu? Tu… mi ami?».

    Tonio distolse lo sguardo, sciolse le braccia e deglutì con uno sforzo. «Lo sai…».

    «Non lo so! Non me l’hai detto mai… mai!».

    Senza rendersene conto, Katia gli aveva puntato l’indice, come un’arma carica.

    «Io non amo certe smancerie…» sgusciò via, muovendosi per la stanza «e poi diciamoci la verità… come hai conquistato me senza grosse difficoltà… puoi farlo con mio cognato… soprattutto se somigli a Giulia!».

    Katia azzerò la distanza tra loro in un lampo e digrignò i denti fino a farli stridere.

    «Mi stai dando della puttana, forse?».

    «Non ho detto questo…».

    «Ma il senso è quello, giusto?».

    Tonio serrò la mandibola e curvò l’arcata sopracciliare fino a creare quella V che a Katia incuteva un timore profondo e atavico.

    «Certo che sei un’ingrata! Dopo tutto quello che ho fatto per te… ti ho fatta diventare una donna, sei sbocciata solo e soltanto grazie a me… e adesso che ti chiedo di ricambiare con un favore, fai mille storie? Mi fai pena!».

    E senza aggiungere altro prese le chiavi dal comodino e andò verso la porta. Un’ondata di disperazione travolse Katia, stordendola con poche rapide immagini di lei senza di lui. E con un movimento repentino lo fermò e lo costrinse a girarsi. Infine si strinse a lui senza riceverne un abbraccio in cambio.

    «Ok, va bene, lo farò, promesso… ma voglio che tu mi prometta una cosa?» alzò lo sguardo.

    «Cosa?».

    «Che se riusciamo a prendere quei soldi… tu lascerai tua moglie e scapperai via con me!». Tonio la stava fissando, senza espressione.

    «D’accordo… ora devo andare!».

    Katia lo baciò rapidamente sulle labbra e lo lasciò andare via, poggiandosi alla porta chiusa. Rimase con la testa sul legno per un po’, prima di sentire le lacrime riempirgli gli occhi. Poi prese coraggio e andò in bagno, ripulì gli occhi e infine, prima di uscire, mise il rossetto.

    Tre.

    Andrea dormiva ancora, nonostante il sole già scaldasse Matera da un po’, colorandola di un giallo intenso. Da quando, due giorni prima, era caduto dalla bicicletta, tornando a casa piagnucolante e madido di sudore per la corsa, il dolore rendeva Andrea quasi nevrastenico. Nonna Bruna, come amava chiamarsi, guardandosi allo specchio, sapeva che sarebbe passato presto, quantomeno il dolore. Quello che quasi certamente rendeva ancora più incollerito suo nipote era l’aver perso la bicicletta.

    «E la bici?» gli aveva chiesto, vedendolo tornare a piedi.

    «Non lo so… non la trovo più» aveva risposto lui, piangendo.

    Non era vero e Bruna sapeva che la bicicletta sarebbe ritornata. Quando suo nipote le aveva detto di non riuscire a trovarla, lei aveva guardato oltre la finestra e aveva visto quel ragazzino dall’aspetto volgare scappare via, verso il parco. Poi aveva allungato lo sguardo lontano, in direzione dell’ingresso principale e aveva notato quell’uomo vestito in quella maniera strana, con il berretto da baseball calato sugli occhi, guardare nella stessa direzione.

    Il cuore di Bruna aveva perso un colpo, si era allontanata dalla finestra, richiudendo la tenda, ed era rimasta a fissare il vuoto per alcuni secondi, sentendo il petto battere forte.

    «Non può essere» aveva detto a mezzo tono «non può proprio essere… io sapevo che…».

    La voce stridula di Andrea dal bagno l’aveva distratta da quel pensiero. Suo nipote si lagnava, mentre teneva la mano escoriata sotto l’acqua corrente.

    «Mi fa male, nonna, mi fa malissimo! Ahi ahi ahi ahi!».

    Bruna si era avvicinata e aveva guardato. Non era niente di grave, ma non appena l’aveva toccata suo nipote aveva lanciato un urlo di dolore.

    «Nonna! Mi fai male!».

    «Scusami, tesoro, ma ho bisogno di vedere cos’hai».

    «No, lasciala stare!» e aveva tirato via la mano, disseminando il pavimento di gocce d’acqua di ogni dimensione. E poi si era seduto sulla tavoletta del water, stringendo la mano con l’altra, digrignando i denti e ringhiando per la rabbia.

    Bruna era rimasta a guardarlo, attendendo che si calmasse, era inutile insistere con lui, ma aveva trattenuto a stento il sorriso. L’esagerazione per quella ferita da niente la divertiva.

    «D’accordo, fa come vuoi, ma quando la ferita si infetterà io non voglio saperne!» ed era uscita dal bagno, fingendosi indignata, ma appena gli aveva dato le spalle il suo sorriso era spuntato fuori.

    Andrea era un bambino meraviglioso, aveva undici anni e li dimostrava tutti. Era molto intelligente e molto sensibile. Troppo.

    «Nella vita avrà uno sguardo speciale per tutto, ma sarà sempre come un nervo scoperto, soffrirà per tutto» aveva detto un giorno, in una delle sue lunghe chiacchierate con suo marito Antonio, sulla veranda, osservando il nipote sgusciare via nel parco. Antonio, purtroppo, era rimasto impassibile, l’Alzheimer lo stava riducendo sempre più a un corpo privo di spirito, ma Bruna adorava ugualmente parlargli. Sperava, un giorno, potesse risponderle come amava sempre fare, con la sua spigliatezza e arguzia.

    A Bruna mancava da morire la vitalità del suo Antonio. Era proprio quello che l’aveva fatta innamorare di lui, nonostante avesse quasi quindici anni più di lei. E vederlo spegnersi un po’ alla volta, la stava consumando dentro, nonostante fuori sembrasse tutto in ordine.

    «Dentro sono un cumulo di macerie» aveva detto un giorno a sua figlia, quando le aveva chiesto, al telefono, come stesse «non mi abituerò mai alla sua assenza mentale, ma mi accontento di quella fisica, mi accontento di accudirlo come un bambino e gli parlo come se mi ascoltasse, non ho scelta» e aveva pianto in silenzio.

    Bruna uscì dalla stanza di Andrea, lasciando la porta aperta, nella speranza si alzasse.

    Andrea aveva bisogno di stare tra la gente, conduceva una vita troppo reclusa a casa sua, in Molise. E di questo ne era gran parte responsabile la madre, sua figlia. Era sempre in ansia per lui. I primi anni di vita se Andrea faceva un passo, lei e suo marito ne facevano due. Lo avevano avvolto in un’aura iperprotettiva che lentamente lo stava privando di quelle sicurezze che soverchiano le paure.

    «Lascialo libero di giocare!» le aveva urlato, un po’ stizzita, un giorno che erano a pranzo da lei «se non cade come diavolo imparerà a rialzarsi?».

    Sua figlia l’aveva guardata con uno sguardo torvo, ma Roberto, suo marito, le aveva toccato appena il braccio e non aveva risposto.

    «Tua madre ha ragione» aveva detto Antonio, all’epoca ancora molto presente, a parte un lieve tremore alle mani «anche se in verità queste sono parole che ho detto io a lei quando tu eri bambina!» si era alzato, aveva preso il suo piatto e lo aveva portato in cucina, lanciando uno sguardo nella sua direzione. Bruna aveva dovuto dargli ragione, con un lieve cenno di assenso. Quando era diventata madre, a soli vent’anni, ogni tipo di paura la rendeva insicura in tutto quello che faceva per sua figlia, ma Antonio aveva saputo guidarla meglio di chiunque altro.

    E ripensando a quei giorni, che le apparivano lontanissimi, Bruna si ritrovò a guardare suo marito, seduto alla sua inseparabile poltrona, a guardare oltre la finestra con occhi spenti. Gli si avvicinò e gli diede un bacio, dolce e lunghissimo, sui radi capelli bianchi e profumati. Antonio non si mosse. Bruna le accarezzò delicatamente il volto fresco di rasatura e acqua di colonia, quella che lui amava tanto. Gli sedette accanto e rimase a fissarlo. In alcuni giorni lo guardava per ore, senza che lui se ne avvedesse. Rimanevano immobili entrambi, come i protagonisti di un quadro d’autore messo lì per essere ammirato dalla gente. Negli anni Bruna aveva imparato a sostituire il pianto con un sorriso leggero e malinconico, figlio della rassegnazione. Era comunque felice perché avevano passato insieme anni meravigliosi.

    Bruna sospirò e allungò lo sguardo alla finestra che dava sul parco. Il sole entrava in diagonale, formando un rettangolo di luce intensa sul pavimento marrone. Arrivavano le voci delle persone nel parco.

    «Non ci crederai, caro, ma ieri ho visto una persona che credevo di non rivedere mai più nella mia vita» e girò un secondo lo sguardo a suo marito «Mario, te lo ricordi, vero?».

    Bruna tornò a guardare oltre la finestra, quasi attendesse una risposta che non sarebbe arrivata. In cambio una valanga di ricordi burrascosi la travolsero. Perse il triste sorriso che le era spuntato, appena pronunciato il nome dell’uomo che aveva rovinato la vita di sua figlia.

    Per Mario era stata costretta a scappare lontano e rifarsi una vita.

    «Non credevo fosse… sì, insomma, ancora vivo» disse a suo marito.

    Per molto tempo, soprattutto nei giorni in cui aveva accudito sua figlia in quel letto d’ospedale, Bruna aveva pregato che Mario morisse, andando contro ogni suo precetto religioso. Quando, però, tutto si era risolto al meglio, il pentimento per quelle parole che non le appartenevano era stato totale e profondo. E da quel tragico giorno in cui aveva creduto di aver perso sua figlia, di Mario non aveva saputo più nulla. Le voci erano state innumerevoli, Matera, in fondo, era una piccola città impicciona e tutti sapevano un po’ tutto, anche se spesso una sola parola, con il saltare di bocca in bocca, diventava una notizia e poi una storia da tramandare ai posteri. E così ogni persona che veniva a far visita a casa sua aveva sempre una novità su Mario. Ed erano sempre novità diverse e colorite. Per alcune vicine Mario si era addirittura suicidato, per altre si era ammalato di cancro e, rifiutando ogni cura per una forma di macabra espiazione, era morto nel più atroce dolore. E tutte, indistintamente, brandivano a gran voce la spada del: ha avuto quello che si meritava!

    Bruna non aveva creduto a nessuna di quelle congetture, ma di certo non aveva più avuto notizie di Mario che, nonostante tutto, a lei era stato simpatico.

    Un giorno, mentre passeggiava in centro con Antonio, incrociarono Elena, la madre di Mario. Non che fossero amiche, ma si erano incontrate in un paio di occasioni ed entrambe avevano sfoggiato una cordialità sincera. E anche quella volta Bruna l’aveva salutata ricevendone in cambio un saluto vero.

    «Suo marito è morto due anni fa» aveva detto Bruna ad Antonio, pochi passi dopo «pensi avrei dovuto

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