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L'abbraccio
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E-book85 pagine55 minuti

L'abbraccio

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Info su questo ebook

Sandro Fogazzi, affermato psichiatra, superati i quarant’anni viene travolto da uno tsunami esistenziale: appresa la terribile notizia della morte per overdose di Renzo, il cugino con il quale è stato cresciuto dall’imponente figura di zia Agata, dopo l’abbandono dei suoi genitori alla nascita, non trova più un senso alle sue giornate. Sebbene esse siano traboccanti di impegni lavorativi, il vuoto interiore gli divora l’anima. Prova, così, a ritrovare sé stesso impegnandosi nel lenire il dolore di un popolo martoriato dalla guerra, ma il tentativo si rivelerà un fallimento. Ecco che, quindi, si vede costretto a seguire il particolare consiglio del suo supervisore: una terapia alternativa davvero inaspettata che gli farà tornare a battere il cuore, a far scorrere il sangue nelle vene e a incontrare il pezzo di puzzle mancante per completare il quadro della sua vita.

Silvia Castelletti è educatrice e pedagogista specializzata nell’ambito della disabilità all’interno del settore scolastico. Vive a Verona in un appartamento con delle coinquiline speciali: tre gatte molto golose e coccolone. Presta volontariato come soccorritore in ambulanza e adora ballare il tango argentino. Ha già pubblicato Il Cecchino (Albatros Il Filo, 2022).
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2023
ISBN9788830682115
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    L'abbraccio - Silvia Castelletti

    LQpiattocastelletti.jpg

    Silvia Castelletti

    L’abbraccio

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6948-2

    I edizione gennaio 2023

    Finito di stampare nel mese di gennaio 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    L’abbraccio

    Dei nostri conflitti con gli altri

    Noi facciamo retorica.

    Dei nostri conflitti con noi stessi

    Noi facciamo poesia.

    W.B. Yeats

    Capitolo 1  

    VITA PUTTANA

    E lo sento così chiaro questo odore quasi povero di pietanze da mangiare. Zia Agata è fatta così: cucina per mera sopravvivenza, senza passione, senza condimenti né contorni per insaporire il cibo. Una fettina di carne rigirata in padella con un filo d’olio; una ciotola riempita con l’insalata del suo orto sciacquata sotto l’acqua e ancora gocciolante. Si nutre perché bisogna nutrirsi, ma non si concede il lusso di trasformare il processo chimico della digestione in un’estasi sensoriale, poiché non è prevista nel suo codice etico di vita la sublime bellezza della sinestesia. Zia Agata è l’essenzialità priva di qualsiasi forma di piacere: non conosce lei – lei che per tutta la vita ha tolto a se stessa per dare agli altri – la straordinarietà intrinseca nel gesto di scartare una tavoletta di cioccolato; sentire il suono dell’involucro di alluminio che si raggrinza; toccare il sottile ma duro scacchetto di cioccolato; osservarne le sfumature di colore marrone scuro, a tratti nero; e poi assaporarne il gusto mentre si scioglie sulla lingua, invadendo tutta la bocca, fin sul palato, avvolgendo i denti, facendo impazzire le papille gustative. No: Zia Agata non è predisposta a tutto ciò.

    Mi siedo a tavola, apparecchiata spartanamente per due commensali, e aspetto che la Zia termini di cuocere le tristi pietanze per poi accomodarsi anche lei. Niente parole, niente sguardi, solo il silenzio denso di una vita trascorsa a cacciare i pensieri dal cervello allo stomaco, senza farli uscire dalla bocca e a far finta di non vedere con gli occhi le atrocità che le sono passate davanti più volte, ancora e ancora. Zia Agata è uno scrigno chiuso a chiave e nessuno – NESSUNO – ne conosce il contenuto. Mi posa il piatto con un gesto sbrigativo davanti alle mie mani, senza grazia né cortesia; si siede; fa il segno della croce; mangia in fretta quel poco che ha preparato; ripone la forchetta sul tovagliolo e poi alza il viso verso di me e mi guarda fisso con i suoi occhi scuri, pozzi senza fondo. Deve dirmi qualcosa, ma io non sono pronto, mi ha preso alla sprovvista: rimango con il cibo ancora da masticare in bocca, la salivazione azzerata e il coltello nella mano destra a mezz’aria. L’orchestra delle cicale in sottofondo, folate di aria calda e pesante entrano dalla finestra spalancata della cucina. In quel momento preciso Zia Agata parla. Parole fredde e taglienti escono dalle sue labbra, poche e asciutte, brusche come i suoi movimenti, ma secche e precise, nessun tremore nella voce, la mascella ferma.

    «Tuo cugino Renzo è morto due giorni fa. L’ha trovato sua moglie tornando a casa da lavoro. L’ago della siringa ancora infilato nel braccio. Si sapeva sarebbe arrivato il momento, lo dicevo da tempo che avrei sotterrato mio figlio con le mie stesse mani. Non te l’ho detto per telefono. Volevo farlo guardandoti negli occhi, i tuoi occhi azzurro cielo, uguali identici a quelli di tuo cugino. Almeno mi restano questi occhi, i tuoi occhi, di quel maledetto figlio che ho partorito dalle mie viscere e che mi ha fatto trascorrere una vita di atrocità».

    Zia Agata serra le labbra, si increspano appena ma non una lacrima le riga il volto. Il mio invece è come il letto di un fiume in piena: acqua che scende, dolore che esce, anima che si scolora. Lei ritira i piatti, anche se il mio è ancora pieno; mi toglie il coltello dalla mano; prende il tovagliolo e mi asciuga il viso. Quante volte ha compiuto quel gesto quando ero bambino e scoppiavo a piangere per le litigate con Renzino, quel cugino così pieno di vita, così pieno di energia, troppa, tanta da fuoriuscire da tutte le parti, dalle sue mani roteanti in aria, dalla sua voce squillante, dalle sue gambe che correvano veloci come il vento per rincorrere chissà cosa o per scappare da chissà chi.

    Posa i piatti nel lavello, Zia Agata, settantasei anni, spalle larghe, petto robusto, folti capelli bianchi. Si volta, mi bacia con leggerezza sulla fronte e, senza

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