Lettere a nessuno
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Anteprima del libro
Lettere a nessuno - Riccardo Roversi
Intro
Tutto ha avuto inizio con un viaggio, durante il quale ho cominciato a incontrare certa gente invisibile o forse di cui prima non mi ero mai accorto, fatto sta che mi sono incuriosito e ho scoperto che questi individui erano senza memoria. Così li ho aiutati a ricordare e nelle storie che mi hanno raccontato appare sempre una lettera o un messaggio che, come un ponte diroccato, conosce il proprio luogo di partenza e di arrivo ma non riesce più a comunicare. (RR)
IL VIAGGIO
Lui la cercò quel giorno. Una donna che aveva molto amato e con oltre il doppio dei suoi anni se n’era andata per sempre al mattino, sarebbe comunque tornato ogni tanto a visitarla, magari con due fiori o con due attimi di silenzio, oppure con entrambi. Ma in quel pomeriggio ovattato di agosto ne cercava un’altra, più giovane e bella, viva e lontana, per questo decise di intraprendere il viaggio. Partendo non portò nulla con sé, tranne la memoria degli occhi e alcune gocce di nostalgia disciolte dentro al sangue.
Nel sole implacato il riverbero della luce sul vetro bruciava e faceva gridare ogni molecola d’aria all’interno dell’auto, un cielo quasi blu come una lente avvicinava le cose e il verde in ciglio all’asfalto si scioglieva e colava nei fossi di scolo dei campi.
La prima meta fu lo spazio parallelo a una strada allora non troppo percorsa, perlomeno di sera ed era proprio col buio che avevano in quel luogo discusso di loro fra loro, che lei gli aveva detto: «Se mi fai l’amore non ti voglio più vedere», tradendo l’ansia di chi ancora non sa se riuscirà ad amare così tanto. Poiché quell’amore, di questo si trattava, non si sarebbe accontentato di poco ma, era certa, avrebbe invece continuato a insinuarsi nel cuore fino a riempirlo del tutto, per dopo non uscirne mai più. L’area gli apparve affollata, con molta gente ma non lei, del resto come poteva esserci: lei non apparteneva alla gente.
Più avanti girava a sinistra una viuzza, la imboccò mentre un senso di intontimento gli rendeva l’ora meridiana ancor meno credibile. Dopo un macero gigantesco e bellissimo, con l’acqua straripata sopra al bordo ellittico e declinante, riconobbe o così almeno ritenne la casa prima disabitata covo di tante altre sere. Adesso c’era qualcuno e poi il senso di febbre aumentava, sicché non percepì quasi nulla all’infuori d’una sensazione di dolore, causata tuttavia dalla gioia e dunque indulgente.
Un rimpianto melato lo aggredì nel diaframma quando giunse allo stagno, al pozzo e alla siepe. Poi si accorse che la cascina era in macerie, il pozzo e la siepe relitti superstiti e che un canneto aveva da tempo esiliato le tartarughe dalla vasca. Però era là che si erano per la prima volta baciati, con le pelli avvampate mentre lei mentiva mormorando: «No… non dobbiamo». Il suo stordimento stava degenerando in ipnosi ma gli sembrò una condizione del tutto irrilevante, un contadino gli chiese se avesse bisogno di aiuto e cosa ci facesse in quella corte privata, lui si scusò imbarazzato, addusse un improbabile sbaglio di strada e se ne andò.
Guidava distratto, tanto il percorso da sé non avrebbe mancato un bersaglio. Stranamente ripensò all’articolo letto la settimana prima su di un quotidiano, che lo aveva frastornato e commosso. A un uomo cardiopatico era stato trapiantato il cuore di sua moglie, appena morta in un banale incidente. Pensava all’amara dolcezza di sentir pulsare dentro al petto la vita di colei che prima gli era stata compagna e dopo salvezza e che ora continuava, semmai di più, a essere complice con quell’ospite così intimo e devoto.
Anche lei gli aveva molti anni fa salvato la vita, pure se in modo completamente diverso e soprattutto senza morire. Lui glielo disse più volte, ma lei scuoteva la testa e rispondeva che se avesse voluto davvero salvargli la vita lo avrebbe lasciato.
Stava bisbigliando sulle labbra il suo nome, corto e struggente come una supplica, quando giunse al posto che non c’è. Nulla nemmeno più assomigliava a quello che era: né lune né salici né notti, né lune appese ai salici nelle notti. Fu quella l’unica volta nel viaggio in cui si sentì stanco, sebbene il luogo fosse ancora lo stesso e poteva, volendo, rivedere con la mente le cose. Anche se probabilmente era proprio questo ad affaticarlo così tanto.
Ricordava una notte che si erano là incontrati e prima di sdraiarsi sul prato, per poi tuffarsi nelle loro fitte parole, lui l’aveva avvertita d’un velo di guazza caduto dal cielo pigro di luglio. Allora lei, col sorriso più enigmatico di cui era capace, slacciò con gesto coreografico la lunga gonna dai fianchi, la spiegò - vela per chissà dove - nell’aria davanti a sé e la offrì a quel mare d’erba molle e perplessa.
Si sedette e respirò, una pioggia muta e inattesa anziché confortare lo immerse di più nel torpore, solo quando filando dai capelli alcune gocce gli mitigarono le tempie si rimise in cammino.
La specchiera della strada, spazzata a intermittenza dal tergicristallo, fuggiva svelta dalla parte opposta alla sua, finché lentamente incominciò a rallentare, poi prese forma e colore di ghiaia e infine si lasciò catturare. Ad angolo retto rispetto al casolare due fienili, uno minuscolo e uno enorme, si osservavano l’un l’altro sotto all’esperto ma in quel momento camuffato crosciare. Entrò. Come in un sogno la pioggia gocciolava dal soffitto, che a sua volta trasudava l’acqua filtrata dal tetto. Rammentò la paglia, il suo corpo, la confusione mentale ma lei non c’era, come dappertutto si percepiva la sua assenza soltanto, che grazie a qualche misterioso stratagemma colmava di niente il suo medesimo vuoto. Poi gli parve di sentire dei passi nell’aria, si voltò, una sagoma eterea e femminile si avvicinava in una veste leggera madida di fiori grondanti. Riconobbe le labbra e i capelli, gli occhi limpidi, la sua confidenza.
L’ombra disse: «Eccomi, occhi di bosco, perché mi cerchi?».
«Perché tu sei tu», lui le ripose, mentre con un sorriso mansueto la figura sottile svaniva ancora oltre al sipario del tempo.
Tu per me sei sempre tu. Lo scrisse in terra, con un fuscello del sicomoro che aggrediva da ogni lato le pietre, laddove un rigagnolo già lo cancellava, come il sole ora svaporava le residue idrossigene spugne di nubi.
Lasciò quelle case abbandonate alle streghe, quindi percorse vecchie strade, rivide il castello, sostò presso un portico ma non ebbe il coraggio di entrare. Temendolo il punto di non ritorno del suo viaggio.
Dopo una curva la grande villa contadina diede segno di sé. Lui la ricordava così bene: dal cancello sulla strada, chiuso ma aperto ai lati su un fosso che pareva invitare all’accesso, il lungo e diritto sentiero conduceva infilando due alti pioppi cipressini alla casa, protetta da rare bicocche diroccate e ombreggiata da due querce incalcolabili spalancate a ventaglio, belle da