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La quarta donna
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E-book936 pagine13 ore

La quarta donna

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Info su questo ebook

L'avvocato Diego Bene, nel suo viaggio in provincia dove esercita la professione, incontra un collega avvocato, un sostituto procuratore aggiunto e un gruppo di ragazze che esercitano il “mestiere”. In un successivo viaggio, una delle ragazze, da sola, gli dice delle cose molto inquietanti. Successivamente viene a sapere che questa ragazza ha lasciato il meretricio ed è tornata in patria, in Romania. Bene scoprirà molto presto che non si tratta di una partenza, ma che la ragazza è stata assassinata. La conoscenza con la vittima, che l'avvocato scopre essere più antica di quello che credeva, lo pone al centro delle indagini, come un sospettato. Nel tentativo di sottrarsi alla legge, Bene approfondisce il rapporto con le altre prostitute, scoprendo realtà che coinvolgono oltre allo sfruttamento del meretricio, anche il traffico di armi, droga e quello di esseri umani nel fenomeno dell'immigrazione.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mag 2020
ISBN9788898408788
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    Anteprima del libro

    La quarta donna - Giampiero Bernardini

    Giampiero Bernardini

    La quarta donna

    ISBN: 9788898408788

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    La quarta donna

    Edito

    A&A Edizioni

    Via Grimaldi, 5

    96010 Priolo Gargallo (SR)

    www.aeaservice.it

    www.aeaedizioni.it

    ISBN: 978-88-98408-78-8

    Responsabile Editoriale

    Luigi Augelli

    Nota

    Ogni riferimento a persone esistenti, nomi, luoghi o fatti realmente accaduti presente in questa storia, è da considerarsi come puramente casuale.

    I contenuti narrati nei capitoli 25 e 31 sono una libera rielaborazione di una inchiesta affrontata nella puntata di REPORT RAI 3 del 15/11/2015.

    Preludio

    Quella notte il sonno tardava ad arrivare. E questo era un fatto relativamente raro. Era vero che, la sera che precedeva la sua settimanale trasferta in provincia, per la circostanza di doversi alzare presto e non poter perdere il treno utile a raggiungere il tribunale nell'orario previsto, era per lui generalmente più agitata della norma; ma la veglia nel letto prima del sonno non superava i quindici -venti minuti. In quell'occasione invece, Diego Bene era più di un'ora che si rigirava inquieto tra le lenzuola.

    Pensieri pesanti, considerazioni che andavano oltre la quotidianità gli venivano in superficie incontrollati, mettendo a soqquadro la sua coscienza. Erano come un rigurgito della sua anima più recondita, una sorta di dolente reflusso gastro-esofageo di natura psichica che lo costringeva a drizzarsi sul letto per poter respirare.

    Il treno che ogni settimana rischiava di perdere non c'entrava: era un inedito malessere esistenziale.

    Si voltò a destra togliendo il cuscino, in quella che gli risultava essere una posizione più favorevole a prendere sonno, quando questo tardava ad arrivare. Il cuscino se lo mise sopra la testa, nel tentativo di attutire i rumori esterni che, in realtà, erano quasi esclusivamente nella sua immaginazione. Poi non ce la fece più e si alzò.

    Nervoso, stanco e dinoccolato andò in cucina a bere, a tentoni, senza accendere le luci. Non guardò l'ora, volendo pensare che non fosse troppo tardi. Girovagò per qualche minuto, al buio, nel tentativo di scrollarsi di dosso le immagini e i ragionamenti che gli avevano impedito di addormentarsi. Poi, sembrandogli di provare nuovamente un po' di sonno, tornò a letto.

    La posizione supina era quella in cui generalmente si addormentava, quando il sonno arrivava in fretta. La tentò nuovamente. Ma dopo una fugace perdita di coscienza, un'immagine, una sensazione, un qualcosa gli accelerò il battito cardiaco svegliandolo completamente.

    Cos'era?

    La sua vita, la sua vita!, sentì per tutte le membra, era in una dimensione assurda. E aveva intrapreso una direzione che, a considerarla con attenzione e senza timori e chiusure, lo avrebbe condotto all'esasperazione, all'assurdità e a un'infelicità più netta e definitiva di quella che già sentiva di provare. La sua era una routine senza scampo; umiliante, devastante. Era la morte, inconsapevole di se stessa.

    Si sollevò di nuovo sul letto, con forza.

    Ma dove stava andando?

    Si rese conto in un modo assolutamente inedito, che i suoi cinquant'anni appena suonati non erano più uno scherzo. E che la vita aveva molto di più da raccontargli sul suo passato, che non su di un futuro che solo adesso vedeva come pericolosamente, scivolosamente sottile.

    E cosa gli raccontava quel cospicuo passato? Poteva appoggiarvisi agevolmente come fosse lo schienale di una comoda poltrona, o era invece un semplice sgabello senza schienale?

    Atterrito mise le gambe fuori del letto sedendosi sulla sua sponda. Stava per accendere la luce ma poi pensò che gli avrebbe fatto vedere cose peggiori di quelle che già stava vedendo. Si rimise supino, turbato, madido di sudore e con le lacrime agli occhi.

    Cinquant'anni passati a celiare.

    Faceva l'avvocato, ma non era quella la strada professionale che avrebbe voluto percorrere. Ce l'aveva costretto la famiglia: o fai una professione concreta, giurisprudenza, medicina, ingegneria, o fuori di casa. Senza appello. Lui avrebbe voluto fare l'Accademia: amava le arti visive, in particolare la pittura e l'architettura; ma quella roba a casa sua era considerata bella ma inutile. Inutile a viverci, naturalmente. O sei Raffaello, Caravaggio, Delacroix, Bernini, altrimenti sei destinato alla fame, gli veniva detto.

    E ora il rimpianto, la frustrazione cocente era nella consapevolezza che, se avesse insistito, se avesse cercato di far valere le sue ragioni, probilmente sarebbe riuscito a fare quello che desiderava. Per quieto vivere, per debolezza, per incapacità di imporsi, per scarsa personalità, aveva accettato di frustrare le sue attitudini; di fare una cosa della quale non gliene fregava niente.

    Aveva sempre pensato che, in fondo, la sua famiglia non avesse tutti i torti. Vivere con un mestiere artistico, in Italia, patria delle arti, non era semplice. Terribile paradosso, questo. E la sua inclinazione alla pittura, quanto era forte? Si era convinto che non lo fosse poi così tanto, nonostante un discreto numero di tentativi sia giovanili che della prima maturità. E soprattutto aveva pensato che, messo da parte quel forte interesse, scelta una professione qualsiasi, dopo non ci sarebbero stati grandi problemi. Svolgeva il suo lavoro con dignità ma anonimamente. Proprio a causa di quella scelta condizionata, non aveva mai avuto particolari ambizioni. O almeno non aveva avuto le ambizioni che in genere si hanno quando si vuole intraprendere un'attività artistica. Aveva scelto il ramo civilistico quasi come il movimento dada aveva scelto il suo nome: praticamente a caso. Esercitava sia a Roma, la sua città, che in provincia, come patrocinante di alcune aziende che si trovavano nel territorio di Fronesi. Per questo motivo si recava una volta a settimana in quel capoluogo: seguire le cause civili che una volta a settimana vi si discutevano.

    Aveva fatto una scelta che innumerevoli persone compiono a un dato momento della propria esistenza: quella di pensare per prima cosa alla dimensione economica. Alla propria sopravvivenza. E da questo punto di vista, pur non essendo propriamente un benestante, non si poteva lamentare. Ma non l'aveva seguita fino in fondo, quella scelta. Chi fa così, per lo più, programma anche il resto della sua vita. O se temporeggia, sa che prima o poi dovrà porsi il problema di fare un programma: il lavoro c'è, il riscontro economico un po' meno, ma andando avanti nel tempo, con astuzia e professionalità, arriverà anche quello, e più che sufficientemente. Che fare a quel punto della propria vita? Bisognerà fidanzarsi, dare una stabilità a un ambito dove non s'è fatto altro che girovagare qua e là. Sarà necessario determinare una famiglia, in sostanza; creando un corrispettivo sentimentale a una dimensione sociale già acquisita.

    Era esattamente ciò che aveva evitato per tutti i suoi cinquanta anni.

    Relazioni lunghe, stabili, che somigliavano a un vero e proprio fidanzamento ne aveva avute svariate, ma dentro se stesso – esplicitandolo o meno – non aveva mai preso lontanamente in considerazione l'idea di farle diventare il nucleo stabile di una famiglia, con dei figli. Aveva vissuto alla giornata, proprio come un artista bohémien, pur essendo in realtà un avvocato. Un avvocato anonimo come centinaia di migliaia di altri. Un avvocato dei tempi moderni, non Cicerone o Benedetto Marcello.

    Sentimentalmente, non aveva costruito niente. Viveva di presente e, soprattutto, di ricordi.

    Questo pugno di mosche che si trovava in mano, non gli faceva sentire di avere sbagliato: se fosse tornato indietro probabilmente avrebbe rifatto le stesse cose. Gli faceva sentire solo e unicamente quello che era: un pugno di mosche. Una nuvola leggera che era il suo presente e anche il suo passato. Un' inconsistenza esistenziale a tutto tondo. Un' inesistenza. Senza possibilità di cambiarla; né al presente, né al passato, se avesse avuto la possibilità di tornarvi.

    Certo, aveva creato una serie di relazioni amicali sul lavoro, alcune poche anche solide; ma in quella notte tremenda sentiva che anche queste, relazionate alla foglia autunnale in balìa del vento che era la sua vita, erano poca cosa.

    Le prime luci dell'alba iniziavano a filtrare dalle fessure delle imposte; Bene le notò, con pena. Quella notte insonne gli aveva regalato non solo la consapevolezza della condotta schizofrenica della sua vita; la certezza di essersi comportato quasi come un artista maledetto, capace di riassumere nella sua opera tutte le contraddizioni, le inadempienze e le sbavature della sua esistenza, senza residui; non solo la coscienza che queste, prima o poi, l'avrebbero condotto all'irrilevanza, alla sottrazione, all'annullamento; senza però il contraltare delle opere, delle creazioni, dove tutte quelle contraddizioni si componevano in unità superiore. Quella notte gli aveva regalato la certezza di andare verso l'insignificanza, verso la fine. Senza la stampella della propria arte, ma attraverso un mestiere che svolgeva diligentemente ma senza passione. E che lo portava nell'imbuto finale senza lasciargli altro in mano che la mera sopravvivenza.

    E quella notte gli aveva portato anche la privazione del sonno. Unico balsamo al malessere della conoscenza.

    I

    Salì sul treno di corsa, un attimo prima della chiusura definitiva delle porte. Era contrariato dal fatto di non aver potuto prendere il consueto caffè in uno dei bar della stazione. Come in altre occasioni in cui vi arrivava sul filo del rasoio, se si fosse concesso quella breve, piacevole pausa, lo avrebbe perso. In compenso aveva fatto a tempo a comprare il quotidiano del mattino, la sua lettura indispensabile per una parte del tragitto. Si fermò su uno dei vagoni situati poco prima della metà del convoglio, sedendosi a ridosso di un finestrino di destra.

    Sperava di non incontrare qualcuno dei colleghi che, non di rado, passando e riconoscendolo, si sedevano davanti a lui per parlare delle cause che stavano andando ad affrontare. Erano, in genere, discussioni noiose che anticipavano le discussioni non meno noiose che si sarebbero dovute intraprendere di lì a un paio d'ore. Preferiva leggere e poi, nell'ultimo tratto, dormire. Il giornale, in quel senso, gli era non poco utile per nascondervisi dietro.

    Come spesso accadeva, il treno tardava a partire; al momento erano cinque minuti di ritardo in partenza. Guardò l'orologio, erano le otto e venticinque. Sarebbe dovuto essere in tribunale per le dieci e un quarto: c'era ancora abbastanza tempo per fare una tranquilla colazione al bar della stazione d'arrivo, e poi salire con calma sul posto di lavoro.

    Riprese il giornale per nascondervisi dietro quando sentì il rumore metallico di scorrimento della porta di passaggio tra il suo e il vagone precedente, e poi un vociare in lingua straniera. Subito dopo un gruppo di tre ragazze gli passò a fianco, continuando oltre. Erano vestite casual, maglioni e jeans, ma nonostante questo v'era qualcosa di eccessivo in quell'abbigliamento. I pantaloni erano oltremodo attillati, e le forme che ne risultavano attirarono l'attenzione dell'avvocato che abbassò il giornale per dare un'occhiata, dimenticando quanto fosse importante per lui, se voleva continuare a leggere, non farsi riconoscere da qualche collega che, al momento della partenza del treno, attraversava gli scompartimenti alla ricerca di un posto. Sulla porta del passaggio al vagone successivo le tre giovani si fermarono, si dissero qualcosa tra loro con toni più bassi stavolta, poi tornarono indietro andando a sedersi a fianco dell'avvocato, nel gruppo di quattro sedili che stavano alla sua sinistra.

    Una delle tre, una ragazza florida dai capelli corvini tirati all'indietro e un bel volto dai tratti più mediterranei delle altre, mentre si sedeva salutò l'avvocato con un sorriso appena accennato.

    Diego Bene ricordò di aver già visto in altre occasioni qualcuna di loro, in particolare questa che lo aveva appena salutato, e la salutò a sua volta ricambiando il sorriso.

    Sì, era vero. Nell'ultimo periodo, un anno forse, aveva già incontrato quelle ragazze; in gruppo, a coppie o singolarmente. In genere, dopo un'occhiata incuriosita come quella appena compiuta al momento del loro passaggio, non notava più di tanto la cosa. Un po' perché le ragazze transitavano andando a volte a sedersi altrove, un po' perché interessato agli articoli di giornale, i più interessanti del quale leggeva appena sistemato sul treno. E un po' perché quel quotidiano, come accennato, doveva nascondergli il volto.

    Stavolta invece il giornale continuava a tenerlo abbassato, forse perché colpito dal saluto della più prosperosa del gruppo, e meditava sulla possibilità di dire a sua volta qualcosa d'altro del ciao col quale le aveva risposto.

    Non sapeva che dire, però; e si chiedeva anche perché sentiva quella necessità di prendere la palla al balzo del saluto e iniziare un dialogo, qualunque esso fosse. Non gli era mai venuto in mente di farlo, neanche nelle altre occasioni in cui già gli si erano sedute nella fila di fianco dello scompartimento, perché quella mattina sì?

    Il pretesto glielo diede il fatto che, tirata fuori una busta voluminosa di rosticceria, le ragazze iniziarono a mangiare con un appetito inconsueto per l'ora mattutina.

    «Hm... scusate la curiosità! Ma si tratta di una colazione o di un pranzo? La quantità e il tipo di cibo a me fanno pensare all'ora di pranzo, ma non sono ancora le otto e mezza...»

    Il gruppo ebbe una reazione diversificata. Una di loro, coi capelli castani fissati con un elastico e una non lunga coda che scendeva sulle spalle, non lo guardò neppure. Un'altra, capelli scuri corti sulle spalle, accennò un sorriso d'espressione, non potendo aprire la bocca perché occupata a mangiare. La terza, quella che lo aveva salutato, dopo aver deglutito gli rispose:

    «Non sappiamo quando pranzeremo, tanto vale mangiare a quest'ora... È più o meno come se fosse un pranzo».

    «Quindi è colazione e pranzo assieme?»

    «Colazione l'ho già fatta stamattina presto!» Rispose quella che gli aveva rivolto un sorriso con la bocca piena.

    «Ah!...» Rispose lui, fermandosi a quell'interiezione che aveva accompagnato con un'espressione di stupore. Non seppe e non volle aggiungere altro, perché quello che stava per dire si riferiva a un appetito fuori della norma, e questa con una ragazza gli sembrava un'affermazione indelicata.

    Le donne mangiavano con ingordigia, e lui rimuginava sul modo di continuare a interloquire con loro senza risultare troppo invadente. Risolse per aspettare che terminassero il loro pranzo-colazione. In un modo o nell'altro, pensò, l'argomento sarebbe arrivato da sé.

    Mentre si apprestava a riprendere la lettura del quotidiano, una voce lo apostrofò, alle sue spalle:

    «Diego! Sei qui, allora...»

    Realizzò subito che si trattava di uno dei colleghi tranquilli, con i quali si discuteva di cause in corso, ma anche di argomenti generici, senza insistere troppo su racconti o discussioni professionali. Nonostante questo si rammaricò del suo arrivo, più per il fatto che gli precludeva l'eventuale colloquio con le ragazze sedute alla sua sinistra, che per il fatto che gli avrebbe impedito di leggere o dormire. Voltandosi verso di lui si accorse che il suo collega non era solo, ma assieme a una donna, il Sostituto Procuratore aggiunto. Chiuse in fretta il giornale, mise la borsa dalla sua parte e fece spazio sui sedili davanti a lui. Il collega, facendo sedere la donna dalla parte del finestrino, si rivolse a Bene.

    «Conosci Maria Rosaria? È sostituto procuratore aggiunto presso il tribunale di Fronesi».

    «Buongiorno. Sì, ci siamo conosciuti alla Procura della repubblica presso il tribunale di Roma, in alcune occasioni. Non so se la signora ricorda...»

    La donna, sulla sessantina, elegante nel suo abito sotto il ginocchio in tessuto fluido, sembrava, nella sua sobrietà, l'antitesi esatta dell'ostensione disordinata e chiassosa del gruppo che gozzovigliava, quasi, nell'insieme di sedili parallelo al loro.

    «Mi sembra di sì... » disse, cercando di ricordare. «Ma lei appartiene al ramo civile... se non sbaglio...»

    Bene ebbe un leggero, quasi impercettibile movimento di impazienza sul suo sedile. Si era seduto con le spalle al movimento del treno, e aveva davanti a sé il sostituto, alla quale aveva lasciato il posto in direzione di marcia. Il discorso stava subito prendendo la piega che temeva, e non sarebbe stato facile, in tre persone del ramo, e con la presenza di un magistrato di corte d'appello, riuscire a impedirlo. Sentì un'acuta nostalgia della solitudine di qualche istante prima, e un fortissimo desiderio di unirsi al folkloristico gruppo che sedeva, ora, alla sua destra.

    «Sì, certo. Ha buona memoria, signor magistrato».

    La donna sorrise, bonariamente.

    «Mi chiami signora, o Maria Rosaria, se vuole. Non amo, fuori contesto, essere chiamata con l'appellativo della funzione che mi qualifica quando esercito il mio lavoro. Spero non le dispiaccia...»

    «Al contrario! È musica per le mie orecchie, signora. Anch'io, a parte l'appellativo di avvocato, magistrato ecc. che ci si può scambiare quando si viaggia, o altrove, non amo proprio parlare di questioni di legge, cause, processi, quando sono fuori contesto. O, per meglio dire, non lo amo una volta superata una certa soglia».

    «E come si fa a stabilire quale sia quella soglia?» Intervenne il collega uomo. «Voglio dire... una volta che ritieni che quella soglia sia stata varcata, che fai? Cambi bruscamente argomento? Oppure ti alzi e te ne vai?»

    Bene guardò il collega, Paolo, civilista anche lui che viaggiava più o meno per le sue stesse ragioni, e pensò che avrebbe voluto rispondergli proprio come nella seconda ipotesi. Anche ora che non era stata superata nessuna soglia, si sarebbe volentieri alzato per andarsene. E avrebbe chiesto alle ragazze di seguirlo in un altro vagone.

    «Non c'è nessuna misurazione matematica della soglia di sopportazione, Paolo. A un certo punto, se sono stanco di parlare del mio lavoro, o di quello del mio interlocutore, se ci riesco cambio argomento; altrimenti resisto. Non mi alzo certo per andarmene! Non lo farei mai, ovvio».

    «Cari colleghi...» intervenne sobriamente, ma con implicita autorità il sostituto procuratore, «mi sembra ci sia qualcuno qui fra noi che, sotto sotto, stia buttando le mani avanti. Ebbene lo ammetto! Una di questi sono io. L'altro mi sembra l'amico?...»

    «Diego. Diego Bene, signora...».

    «E l'altro l'amico Diego...» riprese il sostituto. «Sto andando in provincia ad affrontare alcune questioni spinose, e lo farò quando sono sul posto. Come lei, Diego, non amo accrescermi il lavoro, tanto meno fuori orario».

    «Ma neanch'io!...» Disse con slancio, come se si stesse creando un equivoco, l'avvocato Paolo Teofili. «... Signori... qui mi si sta facendo passare per uno stakanovista che non vede altro che il lavoro, anche quando dorme! Ma vi assicuro che non è così. E Diego lo sa bene...»

    «Non se la prenda, Paolo...» rispose il sostituto. «... Nessuno pensa questo. Evidentemente siamo tutti e tre sul chi vive, e nessuno di noi vuole parlare di giurisprudenza e di aule di tribunale. Forse abbiamo bisogno di un po' di ferie!»

    «Forse...» Ripeté non del tutto convinto Teofili.

    «Piuttosto... abbassiamo un po' il tono di voce... altrimenti rischiamo di disturbare il pasto di queste allegre signorine al nostro fianco». Disse sottovoce, con malcelata ironia, il sostituto Maria Rosaria.

    I due uomini rivolsero lo sguardo velocemente verso le ragazze, che ormai avevano concluso la colazione e avevano iniziato a truccarsi, continuando a parlare nella loro lingua inframezzata qua e là da qualche parola in italiano. Bene le guardò un attimo con un senso di liberazione, avendo evitato di farlo da quando erano arrivati i due colleghi.

    «Ma più che il pasto...» osservò Teofili, «... rischiamo di disturbare il maquillage! Un po' il movimento del treno... un po' le nostre chiacchiere e la matita rischia di andare storta!»

    «E quanto deve essere importante quest'operazione!» Aggiunse, sempre sul tono vagamente ironico, Maria Rosaria.

    «Ho già incontrato queste ragazze...» Disse in tono furtivo, bassissimo, Paolo Teofili. «... Certo il loro comportamento, l'aspetto... il fatto che più volte si trucchino qui sul treno... fanno pensare...»

    «Anch'io le ho già viste. Non tutte assieme però».

    Intervenne Diego, cui l'argomento, a differenza di quelli paventati, interessava. Non gli piaceva però il tono quasi canzonatorio con il quale ne parlavano gli altri due. Percepiva questo fastidio, e gli sembrava strano di provarlo. Mentre parlava coi due colleghi, si chiedeva anche cosa gli stesse succedendo quel giorno: perché quel bisogno di fuga, quasi, da se stesso? Poi continuò:

    «Effettivamente anche a me è venuto da pensare a proposito...» abbassò al massimo il tono di voce, anche se c'era il movimento del treno che copriva tutto, «... del loro strano modo di viaggiare».

    «Strano? Ma credo sia evidente, no?!» Si lasciò sfuggire, in tono quasi alto, Paolo Teofili.

    «Tu dici? Anch'io l'ho pensato, ma non ne sono convinto. E poi non c'è nessuna prova!...»

    «Ma dai, su! E che c'è bisogno di prove? Ma non lo vedi come vestono, e come guardano?»

    «Sì... tutto lo fa pensare... ma in passato devo aver parlato con alcune di loro, e l'impressione fu di... sobrietà, di educazione. Anche di una discreta cultura...»

    «Ma che c'entra!» Insistette, per niente convinto, Paolo Teofili.

    «Non possiamo dire niente, e non abbiamo nessuna prova». Disse in tono basso ma deciso il sostituto. «... Diego ha ragione. Anzi... io adesso mi rammarico della sottile ironia usata prima, quando ho introdotto l'argomento. Sono debolezze di una personalità, la mia, troppo avvezza alla seriosità!»

    «Ma lei non deve rammaricarsi di niente!...» Tagliò corto Teofili. «... È abbastanza chiaro che le nostre impressioni siano corrette... e un po' di ironia ci può stare. Altrimenti non si può veramente dire più niente!»

    «Non è questo l'ambito della libertà d'espressione, Teofili...» rispose con serietà il sostituto. «Innanzi tutto perché...» Qui abbassò al massimo il tono di voce, «... siedono al nostro fianco. E poi, lasciatemelo dire! Sono donne, come me, e non mi sento – anche se l'ho fatto – di ironizzare su di loro e su quello che fanno della loro vita. Un po' per solidarietà di genere, se così posso dire, e un po' perché... sono immigrate, e quindi ragazze sicuramente in gravi difficoltà».

    Teofili tacque, annuendo debolmente. Bene rifletté. Anche se era d'accordo con l'opinione del sostituto procuratore, non poteva negare che i pensieri dei quali il collega Teofili si mostrava tanto sicuro, avessero sfiorato anche lui. E in fondo anche una donna del livello di Maria Rosaria, istintivamente, si era lasciata andare a un'allusiva ironia sulle ragazze. Poi se ne era pentita, ma intanto la cosa l'aveva detta. Era come se avesse lanciato della terra e poi tentato di pulire la mano. Strana impressione!

    Mentre gli altri due tacevano, ciascuno preso nei propri pensieri, Bene rivolse di nuovo furtivamente lo sguardo verso le compagne di viaggio. Avevano terminato di truccarsi, e una luce diversa, più viva, emanava dai loro volti. La lieve, allegra sciatteria che mostravano al momento del loro arrivo e per tutta la durata del loro pasto, aveva lasciato spazio a un'altra dimensione degli sguardi, dove un' inedita bellezza, colma di una giovinezza quasi aurorale, fugava ogni parola usata e ogni pensiero rivolto precedentemente a loro. La semplicità delle cose di cui, presumibilmente, parlavano, inframezzata qua e là anche da parole volgari italiane, annientava le preoccupazioni verbali e i sottintesi dei tre colleghi.

    «Siamo quasi arrivati. Mancano due fermate». Disse distrattamente Paolo Teofili, mentre leggeva il giornale lasciato sul sedile da Bene. Il sostituto procuratore stava invece consultando alcune carte.

    Le ragazze si alzarono e si mossero verso l'uscita. Quella che aveva salutato Bene alla partenza, gli rivolse un tenue sorriso, mentre le altre, molleggiando sui loro tacchi a dodici centimetri, si allontanavano ostentando forme a stento contenute negli abiti. I due colleghi alzarono gli occhi verso di loro. Le ragazze avevano lasciato sotto al sedile il sacchetto vuoto della loro colazione. Bene guardò verso quella busta, sorridendo.

    II

    La giornata in provincia passò velocemente. Assisteva quattro aziende della zona, e due singoli cittadini privati. La necessità di seguire gli iter delle cause civili di quei sei clienti gli fece dimenticare quasi anche la sua stessa esistenza, se non fosse stato per il rapido e frugale pranzo consumato assieme a uno degli assistiti in un fast food della città. Tale intensità lavorativa, al di là degli esiti specifici che erano ancora di là da venire, aveva comunque prodotto una conclusione degli impegni anticipata rispetto alle altre occasioni, per cui si era recato alla stazione prima del previsto.

    Prese il treno delle 18:20. Un orario nel quale non era quasi mai partito precedentemente. Si accomodò stanco in un posto degli ultimi vagoni, vicino al finestrino. Era doppiamente soddisfatto per le ragioni che, con quel treno, non avrebbe viaggiato con nessuno dei colleghi che rientravano nella capitale, e di conseguenza avrebbe potuto dormire in santa pace. Aveva anche scelto uno dei vagoni di coda perché in genere, in quegli orari serali, lì in fondo salivano veramente pochi passeggeri. Tutto questo non per misoneismo, ma perché, tornando da una trasferta lavorativa, era sul serio molto stanco e gli piaceva non poco lasciarsi cullare, quasi, dal movimento del treno.

    Attese la partenza dando un'occhiata al giornale che, per l'incontro con i due colleghi nel viaggio di andata al mattino, non aveva potuto leggere. Poi, quando il convoglio iniziò a muoversi, chiuse il giornale, abbassò la tendina del finestrino e, sistematosi sullo schienale, chiuse gli occhi.

    Il lento dondolìo del treno che in partenza si muoveva come un pigro e pesante pachiderma, lo accompagnò dolcemente in quella fase che potrebbe definirsi l'anticamera dell'incoscienza; oppure, al momento del risveglio, l'anticamera della coscienza. Una condizione psichica nella quale il meccanismo del pensiero attivo o semiattivo è ancora parzialmente operante; per questo, consapevole del lento disancorarsi dal senso di realtà, ricordò i dolci versi di Keats:

    «O soothest Sleep! If so it please thee, close,

    In midst of this thine hymn, my willing eyes.

    Or wait the Amen, ere thy poppy throws

    Around my bed its lulling charities»

    (O dolcissimo sonno! Se ti piace chiudi a metà di questo tuo inno, i miei occhi in vedetta, o attendi l'Amen prima che il tuo papavero al mio letto largisca in carità il suo dondolìo).

    L'Amen, il sonno, non l'attese. Ma chiuse decisamente a metà, o forse prima, di quel medesimo pensiero. Il treno accelerò, rallentò, si fermò e ripartì diverse volte.

    Non sapeva precisamente quante, al momento in cui riaprì gli occhi e vide seduta al suo fianco, nell'altro gruppo di sedili, la stessa ragazza dai capelli corvini che lo aveva salutato al mattino. Era sola. Vestita nello stesso modo, era intenta a guardare lo screen di un tablet che teneva sulle ginocchia.

    Bene si scosse. Tolse i piedi che aveva disteso sul sedile anteriore e percepì un immediato imbarazzo – adesso che tornava consapevole – nell'essere stato osservato a dormire, chissà con quali espressioni del volto o movimenti della testa!, per un tempo imprecisato. Alzò la cortina del finestrino per rendersi conto dove si trovassero in quel momento, e vide che il treno era prossimo a una stazione posta tre fermate dopo quella in cui avrebbe dovuto essere salita la ragazza. Un quarto d'ora di treno, circa, o anche di più.

    La ragazza aveva potuto osservarlo nell'incompleta incoscienza per quindici minuti. Amesso che avesse avuto un interesse del genere.

    Resasi conto del risveglio di Diego, alzò gli occhi dal tablet e, con un lieve sorriso, gli rivolse la parola:

    «Era stanco, perché quando mi sono seduta qui dormiva profondamente e non si è accorto di nulla!»

    L'avvocato, stupito più che delle parole dal fatto che gliele avesse rivolte, si diede una scossa ulteriore non per assumere un contegno, ma per svegliarsi definitivamente.

    «Ciao. Eh sì... mi sono addormentato... ma l'intenzione era proprio quella. Dopo una giornata di lavoro, fuori della mia città, in genere sono stanco».

    «Succede. Spesso anche a me. Io a volte dormo persino all'andata! Figurati al ritorno...»

    «Spero di non essermi messo a russare! Sai che brutta figura con te o con altri che sono passati in questo vagone... fortuna che sembra vuoto!...»

    «Io non ho sentito nulla, quindi, da quando sono salita, non hai russato».

    «Sei salita dove siete scese stamattina?»

    «Sì, a Romolo. Tu dove, a Fronesi? Sei salito lì?»

    «Sì, sono salito lì... e anche se non è molto distante da Roma, il viaggio mi stanca».

    Ascoltate queste parole, la ragazza tacque. La sua attenzione si fissò ancora sullo schermo del tablet. L'avvocato, immaginando di continuare un dialogo appena iniziato, si trovò spiazzato. Come era successo al mattino – quando però il dialogo l'aveva avviato lui – si trovava senza parole davanti al desiderio di continuare a parlare. Gli parve strano, tuttavia, il comportamento di lei, il suo modo discontinuo di porsi: al mattino il saluto e due parole tra un boccone e l'altro; in serata, dopo essersi seduta accanto a lui in uno degli ultimi vagoni di un treno vuoto e avergli rivolto la parola al risveglio, di nuovo in silenzio. Un silenzio né imbarazzato né decifrabile in qualsivoglia modo. Decise di continuare quel dialogo, a tutti i costi. Per andare a fondo del suo stesso desiderio che l'accompagnava molestamente dal mattino, e per capire qualcosa di lei e delle altre.

    «Le amiche che erano con te stamattina non prendono il tuo stesso treno, al ritorno?»

    «Mah... non so. A volte sì, altre partono prima».

    Avrebbe chiesto volentieri, vista la discussione del viaggio d'andata con l'amico Paolo Teofili e il sostituto procuratore, che tipo di lavoro facevano, dato che partivano assieme e ognuna tornava per fatti suoi. Ma non volle fare una domanda che poteva creare imbarazzo e difficoltà nel rispondere.

    «Siete molto... eterogenee, voi tre. Diversi modi di vestire, di muoversi, di guardarsi attorno... insomma, di interpretare la realtà...»

    Lei lo guardò interrogativa.

    «Eterogenee? Che vuol dire?...»

    «Varie... molteplici. Ognuna diversa dall'altra, pur con un'affinità di fondo...»

    «Noi diverse? E non è normale questo?»

    «Ah sì, certo!»

    «E cos'è quest'affinità di fondo?»

    Aveva buttato lì quella frase, istintivamente intendendo che l'affinità era nei modi un po' disinibiti, a volte, di vestire e di comportarsi; e nell'eventuale uniformità del mestiere che facevano. Ora doveva spiegare, ed era un problema.

    «Affinità? Intendo qualcosa che vi lega nonostante le diversità di cui parlavo prima».

    «Si, questo ho capito. Ma che vuoi dire parlando di un'affinità di fondo

    La prese larga:

    «Alcune persone, uomini o donne che siano, specie se giovani, quando sono in gruppo finiscono per avere un... look, una manifestazione visiva che li fa sembrare simili, e molto legati fra loro. È un comportamento naturale, si tende a sentirsi un'unica cosa, nel gruppo. E questo aiuta. Dà un senso di identificazione. Ma è un'impressione superficiale, visiva, appunto. Io non so nulla di te, di voi. Nulla di quale sia la vostra vita... e giustamente, peraltro...»

    La ragazza rimase in silenzio. Parve riflettere, ma forse neanche questo. Sembrava momentaneamente vuota. Diego si chiese quanto afferrasse della lingua italiana. Poi lei reagì, con un'ombra di sofferenza negli occhi.

    «Ti interessa conoscere qualcosa della mia vita?»

    Così diretta non se l'aspettava. Aveva avuto timore di metterla in imbarazzo, e in imbarazzo c'era finito lui.

    «Oh no... no, non intendevo questo! Ma... posso chiedere come ti chiami?»

    «Caterina».

    «Non era nelle mie intenzioni farmi i tuoi affari, Caterina. Volevo soltanto chiarire che a una visione superficiale, incontrandosi ogni tanto qui sul treno, voi ragazze sembrate avere un'affinità di fondo... che non so in cosa consista però!»

    «Non c'è niente di male nel voler conoscere qualcosa di una persona, anche se la si incontra solo sul treno».

    «... Certo! Ma... voi siete romene?»

    «Sì, come l'hai capito? Si vede?»

    «Non lo so... forse si intuisce. Ho conosciuto diverse donne romene, e forse ho imparato a riconoscerle. Per le inflessioni della lingua, per i nomi... Ho conosciuto persone che si chiamano Alina, Ecaterina, Dana, Adriana, Catrina, Floriana, Catalina, Ariadna, Mariana...»

    «Ma infatti io mi chiamo Catrina. Qui mi faccio chiamare Caterina, così... perché mi sembra più semplice. Ma da noi il nome è Catrina o Ecaterina. Forse Catrina non è del tutto romeno...»

    «Sì, Catrina! C'era una ragazza di compagnia di mia nonna, molti anni fa, che si chiamava così».

    Catrina tacque per alcuni istanti, l'espressione tesa a qualcosa, come se stesse compiendo un rapido calcolo mentale.

    «Molti anni fa, quanti?»

    «Eh, a ricordarselo! Una trentina, più o meno».

    Rimase stupita.

    «Trenta anni? Non ero nemmeno nata!»

    «Lo immagino...»

    «Un tempo felice...» disse, con un accento vagamente nostalgico e un velo di amarezza nel volto.

    «Un tempo felice... dove? Nel tuo paese? Ma se non eri ancora nata!»

    «Appunto per quello...»

    Bene rimase colpito da quell'affermazione, ma come spesso gli accadeva restò anche senza parole. Disse qualcosa che solo in apparenza era la logica continuazione del dialogo:

    «Nel tuo paese trent'anni fa c'era il regime, non doveva essere propriamente un tempo felice».

    «Certo, certo... Comunque mi sembra strano che a quell'epoca già venissero donne dalla Romania per lavorare in Italia».

    «Lei era sposata con un italiano, un uomo che faceva il portiere in uno stabile. E ce n'erano diversi di questi casi».

    «Ah sì? È vero, ho sentito anch'io di casi simili. Oggi più rari forse...»

    «Non so dirtelo. Effettivamente oggi l'immigrazione europea è quasi esclusivamente per lavoro, e le persone, i romeni per esempio, o vengono già sposati o fidanzati, o lo fanno qui, ma comunque fra membri della loro comunità. Non so quanti siano i casi di matrimoni o fidanzamenti con italiani, ma all'apparenza mi sembra che nella maggioranza si uniscano tra loro».

    «Ce ne sono, e non pochi, di accoppiamenti fra donne romene e italiani; però è ovvio che prevalgano quelli fra connazionali».

    «Tu sei fidanzata con un italiano?» Disse sorridendo, con un'ispirazione colta al volo nel momento stesso in cui gli si era presentata. La ragazza sorrise anche lei, ma sempre con un'ombra di malinconia negli occhi.

    «Io? Noo. Ci mancherebbe anche questo!»

    «Non ti piacciono i miei connazionali?»

    Bene si rendeva conto di stare per avventurarsi su un terreno minato; nonostante questo, e benché avesse evitato sinora di spingervisi, sentiva un'energia incontrollabile che lo indirizzava verso quel territorio. La ragazza però, la prese con ironia, prima, e poi con un persistente fondo di sofferenza.

    «Forse mi piacciono... o mi sono piaciuti, fin troppo! Ma non sono fidanzata, né con un italiano né con un romeno. Non ho molto tempo per pensare a queste cose, adesso».

    «... La mia era una battuta. Però non capisco perché una ragazza, giovane e bella, non abbia tempo per pensarci! C'è qualcosa che ti occupa molto... o che ti preoccupa molto, in questo periodo?»

    Lei tacque. Sembrava vagamente turbata e un lieve rossore le era comparso sulle guance. Guardò l'avvocato prima con intensità, poi con crescente distacco. Quasi con ostilità. Ma si riprese.

    «Ma no, sono occupata in modo normale... e non sono preoccupata. Era... per dire».

    «Devo rimangiarmi parte di quanto ho detto poco fa... Tu sembri abbastanza diversa dalle altre ragazze con le quali eri stamattina, e che mi era incorso altre volte di incontrare. Quindi, l'affinità di fondo di cui parlavo, è solo apparenza. Si tratta di quell'omologazione che lega le persone quando stanno assieme. Nella sostanza sei diversa».

    «Se ho capito bene... mi stai dicendo che sono più seria delle mie amiche. Ma le conosci bene?»

    «... No... quel pochissimo che le ho viste sul treno. Forse in passato ho parlato anche con una di loro».

    «Sarà per questo. Siamo diverse certo... ma non sono io migliore di loro».

    Bene si scoprì frainteso, chiuso in un vicolo cieco.

    «Ma non volevo dire che sei migliore! Ma soltanto che... sembri più posata, più cosciente, più matura... Forse più... malinconica...»

    «Abbiamo qualità diverse... come anche problemi diversi. Ma abbiamo anche alcuni problemi in comune. Forse in questo hai ragione quando parli di un'affinità di base che ci accomuna...»

    Disse lei interrompendolo, forse perché colta nel vivo e scarsamente interessata alle precisazioni dell'avvocato.

    «Sì... certo... ma ascolta un attimo... andiamo con ordine. Volevo dire che sei più posata, forse più matura... certamente più consapevole».

    «Non credere. Anche Nuta e Mioara sanno quello che fanno. Sono diverse per il carattere, e sono poco più giovani. Ma sono abbastanza mature e consapevoli. Forse anche più di me. Loro non sono arrivate al punto dove sono arrivata io!...»

    Quelle parole lo colpirono, e lo lasciarono quasi di stucco. Non sapeva che pesci prendere. Il timore di apparire indiscreto, covato e alimentato dalle discussioni coi colleghi del mattino, non lo lasciava. Neanche adesso che lei gli apriva una porta che dava su un precipizio. Per non sembrare curioso disse la cosa più banale che poteva essere detta in quel momento:

    «Le tue amiche si chiamano Nuta e Mioara? Quest'ultimo nome non l'ho mai sentito...»

    «... Sì, si chiamano così». Disse la ragazza, in modo asciutto. Poi tacque, riprendendo il tablet che aveva appoggiato sul sedile al suo fianco. Passarono alcuni istanti di un silenzio che si sarebbe potuto tagliare con le forbici. Si percepivano con nettezza gli scatti periodici delle ruote del treno sui binari, prima del tutto obliati. Bene si sentiva inutile.

    «Forse avevo ragione prima... quando ti ho chiesto se c'era qualcosa che ti preoccupava molto in questo periodo... no?»

    Lei alzò gli occhi dallo screen, guardando prima davanti a sé, nel vuoto, poi direttamente verso l'avvocato.

    «È importante per te avere ragione? Già ti ho detto prima che avevi ragione cogliendo un'affinità di base che ci accomuna».

    «No... non è indispensabile per me avere ragione. Mi dispiace se ho dato questa impressione. E mi dispiace anche... spingerti a parlare di cose delle quali forse non desideravi parlare...»

    La ragazza lo guardò, quasi stupita, come si guarda uno che non si capisce.

    «Ma... a dire la verità non ho detto praticamente niente! Puoi stare tranquillo. Non mi hai forzato per nulla».

    Gli sembrò che ci fosse dell'ironia in questa risposta, e che questa fosse l'occasione per apparire – e per sentirsi lui stesso – meno vago e inutile in quella discussione.

    «Se è così, perché hai minimizzato, o dato una risposta diversa quando ti ho chiesto se c'è qualcosa che ti preoccupa in questo periodo? Mi sembra che su questo aspetto tu tenda a svicolare, a cambiare quasi discorso...»

    Lei guardò l'orologio. Il treno si trovava all'altezza di Porta Maggiore e stava quasi entrando in stazione. Si era fatta sera, e le luci della città si sommavano a quelle, fastidiose e invadenti, dell'interno del treno. Si alzò in piedi, prese la sua borsa e la busta di plastica che l'accompagnava sin dal mattino, e si rivolse con un sorriso debole, molto meno radioso dell'andata, all'avvocato.

    «Vado in testa al treno, per fare subito appena si ferma. Ci vediamo la prossima volta. E grazie della... chiacchierata».

    Bene rimase al suo posto, dopo aver desiderato seguirla nelle prime carrozze. La rapidità con la quale lo aveva salutato lo lasciò privo di iniziative. Solo con i suoi pensieri.

    III

    Uscirono in tre dalla terza sezione civile, in Viale Giulio Cesare. Erano le cinque del pomeriggio. Diego Bene si sentiva stanco e sarebbe voluto andare a casa. Scendeva rapidamente la sera e l'aria, in quella metà di ottobre, iniziava a rinfrescare. Ma l'amico Paolo Teofili lo trattenne.

    «È ancora presto, dai! Andiamoci a prendere qualcosa in Via Cola di Rienzo».

    Intervenne l'altro collega, Ugo Mealli, un civilista sessantenne che non sembrava entusiasta di camminare sino a Via Cola di Rienzo, che dalla terza sezione civile era distante cinque-seicento metri circa.

    «No, andiamo in quel bar che fa angolo fra Via Duilio e Via degli Scipioni. Ha una saletta interna ed è tranquillo. Il caffè è buono e anche i dolci».

    «E soprattutto è qui vicino!...» Aggiunse ironicamente Paolo Teofili.

    «Anche...» replicò Ugo Mealli che, quanto a stanchezza, se la batteva con Bene.

    «Va bene allora?» Si rivolse Teofili verso Bene, al quale ultimo la proposta del terzo sembrava un buon compromesso tra il fare una scarpinata e l'andarsene a casa.

    «Va bene, va bene!»

    Raggiunsero il bar in meno di cinque minuti, nei quali continuarono la discussione iniziata nei corridoi del tribunale, riguardante l'atteggiamento del giudice civile che lamentava di non avere un proprio ufficio, di dover redigere da solo i verbali e di non avere un assistente nemmeno in udienza.

    «In Italia...» disse Paolo Teofili mentre sedevano nella sala interna del bar e ordinavano due caffè, un tè e delle paste mignon, «... a differenza degli altri paesi, soprattutto quelli anglosassoni, il giudice civile – e ritengo anche quello penale – impiega più tempo nel compiere attività materiali rispetto allo svolgimento delle attività propriamente giurisdizionali».

    «È così...» precisò Ugo Mealli, mentre Bene ascoltava annuendo, «... i giudici che riescono a non differire i tempi della prima udienza di comparizione sono quelli che non hanno più di cinquecento cause sul ruolo!»

    «I motivi della disfunzione delle cause civili, come della giustizia in genere... sono vari. Non spezzerei troppe lance a favore dei giudici!...» Disse Bene, aggiungendo poi: «... Ma signori! Pensate davvero che due chiacchiere in un bar del centro di tre avvocati normali come noi servano a qualcosa per questa enorme problematica? Io, sinceramente... parlerei d'altro».

    Gli altri due, intenti a mangiare, lo guardarono dapprima stupiti, poi, Teofili in particolare, con benevolenza. Fu lui, dopo il caffè, a rispondere:

    «Si parla delle problematiche di tutti i giorni. È anche vero che noi avvocati tendiamo sempre a portare fuori dalle aule i discorsi iniziati in dibattimento, ma... tu avresti argomenti migliori?»

    Bene alzò le spalle.

    «Non ci sono necessariamente argomenti migliori, ma diversi. Questi argomenti li lascerei dentro le mura di Viale Giulio Cesare 54».

    «Non hai tutti i torti...» disse, stirandosi, Ugo Mealli. «... Anch'io sono stanco di parlare sempre delle stesse cose. Meno male che fra pochi anni...»

    «È un vizio allora!, Diego...» si inserì, urtato, Paolo Teofili, «... finisci sempre per farmi passare per quello che intende parlare solo del lavoro! Ma cos'hai in questo periodo? Non stai bene? Ti vedo insofferente... nervoso, spesso sfuggente... dillo a papà! C'è anche zio Ugo qui... cos'è che non va?»

    «Ma non ce l'ho con te! È chiaro, no? Vieni... risucchiato nella discussione, e dato che parlano prima gli altri – oggi Ugo, l'altro giorno il sostituto procuratore aggiunto – e tu ti ci accalori, finisci per essere te quello che è stato la causa del discorso indesiderato. Hai il torto di parlare per ultimo, tutto qui. Lo so che non sei uno particolarmente fissato col lavoro...»

    «Non ti innervosire, Paolo...» intervenne Ugo Mealli, placidamente, mentre si asciugava la bocca dopo aver terminato il tè. «... Lo sai che Diego è... un temperamento artistico. Ha sempre sofferto questa professione che, per determinate circostanze, si è trovato a esercitare. Non gli va di parlarne fuori delle aule, e non ha tutti i torti!»

    Teofili si mosse nervosamente sul sedile di legno che circondava il tavolino, e che assieme a pochi altri costituiva una sorta di salottino interno al bar.

    «Ma lo so, lo so! Solo che da un po' di tempo a questa parte a sentire lui non si può parlare più di niente. Sembra diventato l'esponente di punta del politically correct qui in Italia!»

    Stavolta fu Bene a scuotersi dal torpore che, nonostante il caffè, non l'aveva abbandonato:

    «No... qui hai preso una cantonata, Paolo. Se c'è uno che non può soffrire le pastoie, le gabbie e l'autoincartamento del politically correct, quello sono io. E anche più di te!»

    Teofili abbozzò un mezzo sorriso, ironico.

    «Ma dicevo per dire! Era solo per rilevare che hai un atteggiamento censorio su ogni iniziativa di argomento, di discorso. Si parla di quello che viene! Fra di noi mica siamo a una conferenza o a un dibattimento...»

    «Però facci caso...» si inserì Ugo Mealli, rivolgendosi a Teofili, «... fra noi avvocati... diciamo noi tre!... ma anche altre quattro o cinque persone del nostro studio o colleghi vari, il grosso delle discussioni anche fuori del lavoro... è il lavoro. Sarà perché è un tipo di professione basata molto sulla discussione... ma altri argomenti – parlo di argomenti sostanziosi, non del calcio o altre cazzate – entrano di rado nelle nostre chiacchierate. Siamo molto intenti al nostro particulare, ma di politica parliamo solo in prossimità delle elezioni, o per biasimare la situazione grave della giustizia; di arte e cultura, di musica, di letteratura, di cinema, non parliamo mai. Del fenomeno dell'immigrazione, dei profughi, dei barbari che premono alle porte dell'impero, ce ne freghiamo. Eppure sulle frontiere meridionali, qui in Italia e prima anche in Grecia, essi spingono paurosamente. Ne muoiono a migliaia, oltretutto, ma noi: niente! Se ci pensate... è un modo di fare forse naturale, ma terribilmente deprimente!»

    Il silenzio, breve ma significativo, seguì alle parole di Mealli. Bene le aveva seguite con implicita approvazione, e fu il primo a scuotersi.

    «Io lo penso da anni, questo, Ugo».

    «Ma che c'entra!» Sbottò quasi Teofili. «... Io a casa ne parlo sempre di queste cose! E anche al circolo del tennis...»

    «Lì poi... immagino di cosa si parli!» Replicò Bene con ironia.

    «E a casa quando?... Durante il telegiornale?» Punzecchiò Mealli, con maggiore ironia.

    Teofili fermò il dondolio che lo coglieva quando era nervoso, e fissò un punto imprecisato davanti a sé, nello spazio del locale, come imbambolato. Era un istante di riflessione. Poi replicò alle battute dei colleghi:

    «Vi faccio notare una cosa: parlare fra noi tre, normali cittadini italiani come normali avvocati, secondo l'espressione precedente di Diego, di argomenti ben altrimenti gravi del problema della giustizia italiana – in quanto europei e mondiali, non solo italiani – non modifica di un millimetro la situazione in atto. Ci sono guerre e profughi, e stiamo subendo una vera e propria invasione. Parlarne fra noi servirebbe a qualcosa?»

    «No, certo...» replicò Mealli, «... ma... almeno, a me personalmente, mi farebbe sentire meno incline alla deformazione professionale e più partecipe dei tempi che stiamo vivendo!»

    «E anche a me!» Aggiunse Bene con soddisfazione, per poi precisare:

    «Però voglio aggiungere anche che Paolo non ha tutti i torti. Sono diverse volte che finisce, suo malgrado, per restare col moccolo in mano, per così dire, ossia come quello che ha iniziato il solito discorso sul lavoro quando i suoi interlocutori non erano interessati. E siccome gli sono affezionato, voglio chiarire che sì, è vero, in questo periodo io sono un po' insofferente. Non sopporto parlare di giurisprudenza oltre una certa misura. Ma non si può preventivare i discorsi: si parla di quello che capita. In questo lui ha ragione».

    Teofili diede un buffetto sul braccio a Diego, come a dire che quello che aveva appena detto era superfluo.

    «Il problema resta, però...» continuò Mealli. «... Forse il nostro mestiere impegna le energie migliori, e ruba molte ore della giornata; quando arrivo a sera e riprendo il giornale che non ho potuto che sfogliare al mattino, mi rendo conto di come la realtà mi stia letteralmente sfuggendo dalle mani! Nel nostro lavoro... o nello specifico mio... questa realtà in fieri, ribollente quasi, è riflessa molto alla lontana. È come se io agissi in una dimensione altra rispetto a quella realtà dinamica. La cosa mi deprime molto!»

    «Ma in tutte le attività qui in occidente, se non si è il ministro degli interni, il sindaco e la gente dei posti di frontiera, quella realtà dinamica ha un riflesso molto blando! Se non si arriverà al punto in cui le nostre città saranno invase da profughi che, affamati, si daranno ad attività criminali esplicite, sentiremo sempre quella dimensione della realtà come... sostanzialmente altra». Replicò Teofili, con convinzione.

    «Ma le nostre città...» si inserì Bene, cui l'argomento aveva sempre interessato, ma un po' a metà fra le posizioni dei due colleghi, «... sono già... non dico invase, ma piene di extracomunitari. Da diversi lustri molte attività commerciali sono loro prerogativa. Come anche molti mestieri, quelli più umili e relativamente sottopagati che la forza lavoro locale non vuole più fare... O almeno così dicono!... Ma questa è l'emigrazione economica che avviene da lustri, come dicevo. Ed è un fenomeno normale. Ma poi in questi ultimi anni sono cresciuti gli altri immigrati... i profughi, i clandestini soprattutto. E le strade, qui a Roma, come in tutte le altre grandi e piccole città, ne sono piene. Vai a vedere alle stazioni principali della città, oppure nel quartiere multiculturale dell'Esquilino. Ma anche qui in Prati: non c'è angolo dove non ve ne siano a chiedere l'elemosina o a vendere ombrelli quando piove ecc. E questo la gente lo vede, e se ne comincia a preoccupare!»

    Ugo Mealli assentì, ma nell'espressione del viso non sembrava pienamente convinto.

    «Questo è vero... ma io mi riferivo a qualcosa d'altro. Oltre a queste trasformazioni del sociale pienamente visibili e verificabili ogni giorno... sta accadendo qualcosa di più grande... di epocale, e che non è nemmeno possibile descrivere come qualcosa di concreto, di materiale. Non so cosa sia, ma sento qualcosa che mi scivola via... qualcosa che scorre sotto alle mie terga e mi sta facendo cadere... e io me ne accorgo a malapena. Me ne accorgerò pienamente quando starò col culo per terra!»

    «Col culo per terra ci stanno già molti delle nuove generazioni...» intervenne tempestivamente Paolo Teofili, «... e andando avanti in questo modo, ce ne saranno sempre di più!»

    Ugo Mealli scosse la testa negativamente.

    «No. O meglio... è vero in parte anche quello che hai detto, ma io mi riferivo ad altro. Come dire... c'è qualcosa che mi accomuna all'ansia esistenziale di Diego... quel suo non trovarsi a pieno agio nel mestiere che esercita e nel mondo che frequenta... quel suo porre in discussione le cose stesse di cui si parla! Lui credo – e correggimi Diego se sbaglio – sente che c'è qualcosa che non va in tanto di quello che facciamo, e che può essere rappresentato anche dai discorsi che facciamo... e così, un po' nebulosamente, vi si oppone come può: criticandoli e rifiutandoli. Lui, credo, manifesta in questo modo il disagio che io sento nel condurre una vita... che sta andando verso un binario morto. Mentre l'altra vita, quella che intravedo e non mi appartiene, corre su un treno di alta velocità in un'altra direzione».

    Diego Bene sentiva che Mealli aveva in parte colto nel segno, e provava un sentimento contraddittorio. Da una parte come colui che sia stato scoperto in una manchevolezza infantile, quasi da provarne vergogna; dall'altra come colui che riconosce nelle parole dell'altro una chiarezza che lui stesso non aveva saputo dare alla sua insofferenza. Avrebbe fatto a meno di rispondere, ma dato che era stato chiamato in causa, non poté evitare di farlo:

    «Se ti stai riferendo al fatto che noi continuiamo a preparare il mangime per il bestiame, ignorando che i buoi siano già usciti dalla stalla... hai ragione».

    «Proprio a quello!» Precisò subito Mealli.

    «Ma come hai riconosciuto tu stesso...» continuò Bene, «... non so dare un nome a questa sensazione di... inadeguatezza, di asimmetria».

    «Le trasformazioni epocali di cui parlavamo prima, ne sono probabilmente un esempio, o almeno un nome! Altre cause... non saprei. E questo è il nostro limite». Concluse Mealli. Poi, alzandosi, aggiunse:

    «Signori, debbo salutarvi. Ho un impegno con mia moglie stasera, e non posso fare tardi. Se no chi la sente!...»

    Uscirono dal locale tutti e tre. Mealli si diresse verso la sua automobile. Bene, che si muoveva in metro, accompagnò Teofili verso il motorino, parcheggiato vicino l'entrata del tribunale. Quest'ultimo, rimasti soli, introdusse ex abrupto un nuovo argomento:

    «Beh? Le hai più viste quelle mignottelle che erano sul treno l'altro giorno?»

    «Pensi che lo siano? Io, e come anche hai sentito, il sostituto procuratore, non ho ancora questa certezza...»

    «Se ti capiterà di rincontrarle... ce l'avrai. Ma dai! È talmente evidente... Maria Rosaria è stata un po' ipocrita, l'altro giorno. Si è vergognata di aver fatto dell' ironia su di loro. Ma il pensiero era quello!»

    «Lei è stata ipocrita, ma quello che ha detto è vero: non possiamo avere nessuna certezza. E poi anche se lo fossero...»

    «Questo è un altro discorso. Nessuno vuole giudicarle».

    «Una di loro, al ritorno, l'ho rincontrata».

    «Ah sì? Quale?»

    «La più florida. Quella coi capelli neri».

    «La buzzicona».

    «No, buzzicona... abbondante. Ma una bella ragazza...»

    «Meglio le altre due. Hai visto che culi!?»

    «Eh... comunque lei mi sembra la più matura...»

    «Perché... che ti ha detto?»

    «Ma guarda!... Sono due giorni che non faccio altro che pensarci!»

    Togliendo la catena dal motorino, Teofili squadrò l'amico con aria interrogativa.

    «Ossia? A cosa?»

    Bene, quasi in preda all'ansia, si torse le mani.

    «All'atteggiamento che ha avuto durante il viaggio».

    «Ha cercato di abbordarti?»

    «Macché! Ha cercato di comunicarmi qualcosa e io, come un monolite, non ho mai raccolto. Un po' perché non mi rendevo conto di quello che voleva dire, un po' perché, quando capivo, cambiavo argomento!»

    «E che cosa avrebbe voluto comunicarti?»

    «Non lo so! Ma qualcosa sicuramente».

    «Forse che voleva abbordarti... farti diventare un suo cliente».

    «No, Paolo. Qualcosa di completamente diverso!»

    «... Vale a dire?»

    «Come se... fosse in pericolo... ma non potesse dirlo apertamente!»

    IV

    Come spesso accadeva, arrivò in stazione sul filo del rasoio: mancavano cinque minuti alla partenza, secondo quanto indicava il grande orologio dell'ingresso di Via Giolitti. Ma, in una sorta di ebbrezza del rischio, non volle rinunciare al caffè in uno dei chioschetti interni.

    Giunse sulla piattaforma del treno a un minuto dalla partenza e, con sua sorpresa, trovò, sedute tranquillamente a fumare, due delle tre ragazze incontrate la settimana precedente. Catrina lo salutò sorridente, ma in modo evasivo. L'altra rispose distrattamente al suo saluto. Bene proseguì, anche se avrebbe voluto dire ancora qualcosa. Come al solito però non gli venne in mente nulla che avrebbe potuto concretizzare il suo desiderio. Si disse che, fermarsi a parlare davanti a un treno in partenza, era un azzardo eccessivo dopo quello che si era concesso con il caffè. Così si acquietò la coscienza.

    Salì un paio di vagoni avanti al punto in cui erano sedute le due ragazze. Non volle in tal modo allontanarsi troppo da loro, ma nello stesso tempo non volle salire dove presumibilmente esse l'avrebbero fatto.

    Il treno partì, in orario, mentre l'avvocato cercava ancora il posto in cui sedere. Si chiese se erano salite, vista la pacatezza e l'impassibilità, quasi, con la quale differivano la salita su un convoglio già in fase di partenza. Ma, trovato il posto a sedere, non tentò nemmeno di verificare se le due ragazze erano effettivamente sul treno.

    Durante il viaggio lesse buona parte del giornale e controllò alcuni appunti che gli sarebbero tornati utili per una udienza del pomeriggio. Colleghi, stavolta, non ne vide. Paolo Teofili era rimasto a Roma per diverse necessità; di altri che conosceva anche soltanto di vista, nessuna traccia.

    La curiosità di sapere se le ragazze erano su quel treno lo colse solo all'altezza della località dove, usualmente, scendevano. Quandò il treno si fermò e aprì le porte, si affacciò discretamente per vedere se vi fossero. Scesero allegramente, con un grande ombrello che, alla stazione Termini, non avevano. Aveva cominciato a piovere e, dato che sul treno era passato un giovanissimo venditore di ombrelli, evidentemente ne avevano acquistato uno. La loro andatura era disordinata. La ragazza di cui non conosceva il nome, e che poteva essere Nuta o Mioara, secondo i nomi che gli aveva accennato Catrina la settimana precedente, oscillava da un lato all'altro del marciapiede, sculettando platealmente. Catrina procedeva in modo più regolare, a volte sbandando quasi per empatia con l'amica, o per esserle prossemicamente affine . Sembrava un'allegra brigata appena uscita, ebbra, dall'osteria. Le donne non uscirono dalla stazione, secondo il percorso regolare e preordinato, ma, attraversati i binari e camminato per un po' a ritroso, si infilarono in un boschetto che li costeggiava dal lato opposto dell'uscita.

    Bene si risedette. La visione delle ragazze che camminavano l'aveva reso di buon'umore, suscitandogli quasi una sorta di tenerezza. Quella con cui aveva avuto il dialogo nel viaggio di ritorno della volta precedente, Catrina, sembrava tranquilla e spensierata. Affatto diversa dall'impressione che gli aveva dato, parlandoci. Pensò che si era sbagliato a giudicarla preoccupata, e che il suo era stato un errore di valutazione. Questo lo rese tranquillo.

    Mancavano una paio di fermate all'arrivo. Si preparò al lavoro della giornata.

    Il ritorno, stavolta, fu procrastinato di quasi tre ore. I molteplici impegni lavorativi, compreso un aperitivo più rilassante preso nel tardo pomeriggio con alcuni amici e clienti, gli fecero saltare tutti i treni che, in genere, gli capitava di prendere. Giunto in stazione alle nove di sera, attese il treno delle 21:10 passeggiando sul marciapiede sotto la pensilina. Era un treno che prendeva piuttosto raramente, ma, per l'orario serale e quasi notturno, e per il fatto di essere semivuoto, gli piaceva. Gli consentiva, a suo vedere, il necessario ripiego nell'intimità del pensiero, delle sue impressioni e sensazioni, dopo tutta una giornata vissuta al di fuori di se stesso, nella realtà e nel caos delle relazioni personali, sociali e lavorative. E poi, in quei vagoni tristi e vuoti, nel pieno svolgimento di quelle desiderate riflessioni, nell'auscultazione delle proprie sensazioni, piano e dolcemente scendeva il sonno, velando progressivamente la consapevolezza di se stesso, delle cose esterne, di tutta una realtà scarsamente attraente.

    Pensando a ciò, mentre in fondo alla linea dei binari, verso sud, comparivano i fari ondulanti e appena percettibili del treno in arrivo, si sentì bagnato sulla testa. Era uscito dalla protezione della pensilina, e un principiare di pioggia lo riportò all'attualità del tempo reale. L'aria umida e fresca lo fece rabbrividire piacevolmente. Indossava solo una giacca di mezza stagione, perché nella capitale sentiva ancora caldo. Ma lì, nella provincia più interna, soggetta a rapidi cambiamenti di temperatura, essa rappresentava una copertura insufficiente. Stringendosi nelle spalle, mentre saliva sul convoglio, se ne rallegrò. Un leggero freddo, l'aria più frizzante, lo stimolavano; gli davano energia.

    Si sistemò in un vagone dove erano sedute soltanto quattro persone; un uomo di colore che tentava senza successo di fare una telefonata, e tre altri passeggeri. Uno, sveglio e attivo, andava presumibilmente a Roma a iniziare il suo turno serale; un altro disfatto e semiaddormentato, tornava probabilmente dal suo turno di lavoro giornaliero. Forse sarebbe sceso in una delle stazioni intermedie. Un ultimo, forse straniero, relativamente giovane, all'apparenza non sembrava riconducibile alle categorie cui gli altri sembravano appartenere. Era abbastanza impenetrabile. Seduto diritto, sveglio, lo sguardo fisso nel vuoto e assente. Al suo fianco, appoggiato sul sedile vuoto alla sua destra, un cellulare che non dava segni di vita.

    Una volta seduto, Bene non vedeva più nessuno degli altri viaggiatori. Sentiva soltanto la voce dell'uomo di colore che era finalmente riuscito a prendere la linea per la sua telefonata. La sua lingua e la sua cadenza, e anche il tono alto della voce, mal si accordavano con l'andamento regolare del treno, e gli rendevano problematico quel suo prendere sonno dolcemente cullato dal moto del convoglio. Poi il treno rallentò e si fermò, e pochi istanti dopo una ragazza di colore, con i capelli a treccine fittissime passò alla sua sinistra per andare a sedere un paio di posti più avanti. Alla ripartenza, Bene iniziò a perdere il contatto con la realtà, e non sentì più nessuno dei diversificati rumori che, dal movimento del treno al vociare dei passeggeri era dato ascoltare in quel vagone.

    Una voce forte e aggressiva, di una lingua sconosciuta, lo svegliò in un determinato momento del viaggio. L'avvocato si sollevò ritirando automaticamente le gambe dal sedile anteriore e rimettendole sul pavimento.

    L'uomo giovane, il cellulare all'orecchio, gli passò accanto velocemente per scendere alla fermata in arrivo. Parlava ad alta voce, litigava praticamente con qualcuno; sembrava molto risentito e nella sua voce c'era un vago tono minaccioso.

    Il treno si fermò e l'uomo scese, e con lui si persero velocemente le parole e le inflessioni acute di quella lingua ignota. Era la stazione di una località posta circa a metà strada del percorso che settimanalmente intraprendeva per recarsi nella città di provincia.

    Quell'improvvisa interruzione del sonno lo lasciò lievemente stordito. Sentiva tutta intera la stanchezza della giornata, ma si rendeva conto che, se avesse ritentato di prendere sonno, non ci sarebbe riuscito. Qualcosa lo disturbava. Un'idea, o, prima ancora di essa, una sensazione vaga e nebulosa, spingeva discretamente nella sua coscienza, senza riuscire a entrarvi con nettezza. Era come un ricordo di qualcosa che non riusciva a delinearsi, a diventare memoria. Un disturbo vago, niente di più. Ma che lo faceva stare irresoluto sul sedile, senza decidere se rimettersi a dormire oppure leggere qualcosa.

    Mentre il treno si allontanava dalla cittadina di provincia, dal finestrino alla sua destra rivide l'uomo che era appena sceso. Camminava su una strada che costeggiava un parcheggio di auto, ed era ancora animosamente al telefono. Nel momento in cui non lo vide più e il treno fu completamente inghiottito dall'oscurità della campagna,

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