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Ben venga Maggio
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E-book129 pagine2 ore

Ben venga Maggio

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Info su questo ebook

Il tempo della vicenda si svolge lungo i tre, quattro anni che precedettero il Sessantotto. È il racconto di un gruppo di ragazzi, per lo più studenti, che abitavano in un quartiere operaio di una città del Nord, quasi tutti della F.G.C.I., al cui interno fermentavano i bisogni e i desideri che esplosero dopo nel Movimento.

Milena Nicolini nasce a Modena nel 1948, dove ha insegnato e vive. Laureata in Filosofia con Luciano Anceschi, fa parte del gruppo Donne di Poesia e del circolo letterario Rossopietra di Modena. Si dedica alla presentazione critica di testi letterari. Svolge continuativamente dal 1978 attivita' teatrale ed e' stata presidente dell'Associazione Teatrale non professionista Arcoscenico fino al 2015. Suoi testi, critici e di poesia, sono apparsi su varie riviste e raccolte antologiche. Ha pubblicato:
- per la poesia: "Duale", Edizioni Geiger, Torino 1975; "Lilith o del sogno", Symbola ed., Roma 1984; "Le stagioni del sogno", nel volume a cinque voci "Vi son frecce", Il lavoro editoriale, Ancona 1989; "Villa Edmea", Edizioni Mongolfiera, Bologna 1990; "La vita minima(dedicando", Cultura Duemila, Ragusa 1994; "I tagli e le giunture", Book Editore, Bologna 1999; "Trasloco", Copertine di M.me Webb, 2003: "I miei stanno bene, grazie", Quaderni di Rossopietra, Castelfranco Emilia 2007; "Romance", Ed. ROSSOPIETRA, 2010; "Tre porte ad un padre", Ed. ROSSOPIETRA, 2012; "Uno piu' uno, se facesse duale", Ed. ROSSOPIETRA, 2016.
- per la narrativa: "A chi resta", Tracce, Pescara 1990; il romanzo "L'Oscuro", Ed. ROSSOPIETRA, 2013, suo primo di fantascienza. Come saggistica ha pubblicato "Dell'Amor Cortese", Ed. ROSSOPIETRA, 2016.
 
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2020
ISBN9788835840572
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    Anteprima del libro

    Ben venga Maggio - Milena Nicolini

    Milena Nicolini

    Ben venga Maggio

    UUID: ec6ac29e-9ec1-4341-9af0-7d6422ab5ae8

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Ben venga Maggio

    a tutti quelli che c’erano e non ci sono più

    feriti o cancellati

    dalle trappole del sistema

    e della vita

    Ben venga Maggio

    Prologo

    Un cielo neghittoso – e si ferma, la parola di colpo non ha sensi, vuota, impropriamente.

    Non divorare il mondo, è l’unico possibile.

    Adesso, proprio oggi, ha scoperto che i sedici i vent’anni, quel maggio francese, quel sessantotto, non è che lei non ci pensi mai perché storicamente tutto è già stato troppo discusso, deformato anche, come dalle prime pagine dei giornali oggi. No. È solo perché sono anni così lontani, fisicamente così non suoi, non li ricorda se non a sprazzi, affastellati insieme e confusi, e contaminati, più fede che esattezza. È la ragione a tenerli insieme. Le date sotto le fotografie e i documenti sono quasi l’unica certezza che furono così. Ma vuoti, come questo cielo, senza sangue, di un’altra che era lei.

    Uno che sta viaggiando per il passato, ha detto al telefono. Una voce da ventitré anni fa.

    Nemmeno una faccia, solo il sapore di quei dolci siciliani che arrivarono d’improvviso, di mano in mano, zuccherosissimi in un inverno nebbioso della Padana. Eppure è un nome che sa, registrato nella memoria, sa anche che ci furono momenti vicini, sa che l’ha guardato, e molte volte, negli occhi.

    E poi accade adesso, mentre c’è quest’inquietudine che sente, come un amore, anzi una passione, da chiedersi perché, quali agganci al profondo, se così assurdamente a questi occhi estranei dentro l’immagine-video piatta formicolante, dentro la vicenda banale, dentro una faccia qualunque e anche non troppo espressiva, il cuore, proprio il cuore, viene chiamato sbalzato violentato, trema e grida e risponde. Sconosciuto l’attore, nemmeno da averlo fermato una chissaqualealtra volta in altra maschera, non è bravo , non prende, gesti inermi, figura immobile. Ma lei potrebbe morire dei suoi occhi.

    Come questo cielo.

    Sfumanti a nebbia, senza un fermo, come il nulla dei ciechi: non c’è dove possa afferrarsi, chi li guarda. E si sfonda giù, si sfonda indietro. Assorbono ingoiano. Così che sa il vuoto.

    Sono occhi imposseduti, troppo vasti perché li tenga un nome, un pensiero – occhi di nessuno, o di tanti. Così gli occhi di Fabrizio come lo potrebbe sognare adesso, che erano neri eppure, i suoi, ed erano i suoi, i suoi indubbiamente. Così quelli di Cassandra, forse, quando parlava indietro al tempo già da accadere. Così quelli di questo uomo, che certamente è scuro nero caldo della Sicilia: per come si è cancellato e si riaddensa adesso di quel tempo che non c’era più e poi di colpo c’è ancora, ma c’è diverso. Come la vita che non c’è più e la vita che potrebbe ancora, altra, per i ‘se’ sbagliati negli ingorghi, l’intrigo dei fili, i capi allacciati altrove.

    Ah!, ben venga allora!

    Ben venga maggio.

    1

    Sbadigliando, a curve di gatto per l’ansa del divano, distratta dietro le immagini, le ultime, dell’ultimo film, l’eroe inseguito tra pensieri che aprono altrove. Appena recitata la vita, anche banale, eccola qualcosa di grande, a guardarla da fuori, a pensarci. Qualcosa di greco, tragico comico: le bocche a imbuto delle maschere, con le smorfie dei pulcinella, degli eroi immancabilmente sconfitti, il sacro per il recinto del teatro, i gradoni degli spettatori che la guardano, lì, la vita. Guardarla e pensarci. La sensazione di poterla cambiare, vista da fuori, la vita. Da dentro no. Fatale.

    Pronto? – mentre urla la pubblicità: poco chiaro, la linea ingolfata di tutti i brusii per l’universo e la pioggia sui vetri e la notte carica gonfia delle sue voci vere e nonvere.

    -Trovare la tua lettera, tornando, mi ha fatto piacere, un grandissimo piacere, sì, hai capito chi sono, sì, Eraldo, davvero ti ringrazio, sì il viaggio è stato, positivo è stato sì, anche se c’è sempre qualcosa in un viaggio di terribile, magari proprio se l’hai trovato quello che cercavi, che l’aspettavi proprio da tanto, che l’avevi immaginato nei minimi particolari e poi è proprio così, insomma non so, come se, come una delusione, no no, non una delusione, una perdita piuttosto, una nostalgia, sì sì, come.

    Sedici anni, quando l’aveva conosciuto Eraldo, come lui la dice adesso: i capelli lunghi sempre scomposti per la faccia e gli occhi, ogni tanto raccolti in alto con un elastico, senza trucco. Affascinata della ragione e della sragione, già allora quel modo di sentire sempre all’estremo, volerle intere le cose e aspettarsele come un diritto, la vita come un diritto. E a contorni netti la vita, dei buoni e dei cattivi, delle cose da volere e da non volere. Pure quell’attrazione all’irregolare, alla ribellione era ben perimetrata: dentro i confini degli eroi tragici, da vederci comunque un’onestà di fondo, un valore così grande anche da sbagliare, da morire.

    Essere comunista era irregolare; averlo scelto a tredici anni e già come decisione sicura, da grande, era irregolare. E fare il liceo classico pur venendo da una famiglia operaia dove nessuno era andato oltre la quinta elementare, dove tutti la guardavano con un misto di orgoglio e di sospetto. Essere un’attivista e andare a messa la domenica con le tessere appena fatte di altri ragazzi in tasca. Con i compagni che scuotevano la testa e i bigotti nei banchi che la guardavano da intrusa. Irregolare.

    Della scuola di partito l’aveva attirata che c’era già stata l’anno prima Mara: stavano insieme quindici giorni ragazzi e ragazze senza nessuna sorveglianza da colonia, nella fiducia dei compagni del Picì a lasciare che si gestissero come volevano tutto il tempo libero dalle lezioni. Anche la sera potevano uscire soli senza dire dove andavano e se al ritorno il cancello della scuola era chiuso, bastava scavalcarlo e la porta era aperta e non c’era nessuno a chiedere conto – che a casa invece, se si fermava per strada con dei ragazzi Olga, poi doveva dire chi come perché, a meno che non fossero dei compagni della Figicì, perché allora non c’era bisogno di niente, visto che il partito era uno spazio separato, neutro, innocente comunque. E se andava a ballare, lei e le amiche, c’era sempre una madre, la ‘vecchia’, che le accompagnava e stava lì fissa al tavolino a controllare che non si facessero stringere troppo nei lenti, che non ballassero troppe volte con lo stesso ragazzo, e per baciarsi bisognava andare proprio in mezzo alla ressa, o dall’altra parte della pista, ed erano baci veloci, appena appena le labbra.

    Quell’estate, quando partì per la scuola di partito, veniva fuori dalla storia più tragica, Olga, di tutta la sua vita: sedici anni, la sua vita, e già tutta la sua vita. Be’, forse più brutto era stato incontrare gli occhi di suo nonno Iófa all’ospedale, che moriva di cancro, la lingua così gonfia da non parlare, e lo stomaco sotto il lenzuolo come la pancia di una donna incinta. Erano così lucidi quegli occhi che giravano sulle facce intorno, che si fermavano addosso un secondo brevissimo ma che scavavano un buco. Anche a lei, dritti dentro i suoi, che non sapeva come guardarlo cosa dire, immobile senza piangere. Come tradita. La prima volta. Solo questo aveva sentito, se poteva morirle Iófa e morire così, così tremendo. Dentro la testa buio, e rabbia, senza dolore.

    Arrigo, l’aveva conosciuto a ballare, una domenica d’inverno.

    Mossi gli occhi, instabili, come a cercare e poi fuggire, e dietro l’ombra dei capelli lo sguardo si faceva ombroso, sbieco d’improvviso. Quando Olga c’era entrata dentro, quegli occhi l’avevano presa: come a specchio guardarsi e riconoscersi, in un attimo si era spalancata l’anima. Anche quella di lui, come si fosse lasciato vedere nudo. E poi subito era scivolato via. Così subito che Olga se ne era fatta trascinare, e incollata a lui, allora, per tutto il giro della sala: no, no – infastidita alle ombre che la invitavano a ballare, che passavano in cerchio e ripassavano, e dentro tesa, come una malìa – da me, da me, devi venire da me.

    Aveva modi misteriosi Arrigo, la ascoltava più che parlare, e lo faceva lieve. Sembrava che tremasse a volte, come la teneva, la sfiorava appena, lieve, una voce così bassa che appena smuoveva le labbra. Lieve come la guardava, le si fermava di colpo agli occhi e poi la svolgeva via sull’arco appena più in là della guancia tra i capelli. Olga non poteva chiedergli nulla: c’erano segreti, c’era dolore forse, ansia, ma era come se, a saperne di più, si sarebbe spezzato l’incantesimo di lui.

    E anche quando le chiese di vedersi fuori dalla balera e lei salì in macchina con un uomo la prima volta da sola – e proprio salire in macchina era una delle prime volte, perché in giro lei ci andava in bicicletta e nessuno dei suoi amici aveva la macchina, neanche l’età, che l’aveva Arrigo invece, lei non sapeva bene quanti, ma più di ventuno certamente, un uomo quindi, che sua madre sarebbe morta a sapere che andava in macchina con un uomo, e lei la sentiva tutta, per quell’amaro in fondo alla gola, la trasgressione, ma il cuore andava a mille e la pelle a raggricciarsi se appena lui la guardava – anche allora non sapeva niente di lui, seppure si vedessero già da molte domeniche. A volte lui c’era e a volte no a ballare, ma non gli chiedeva niente, e se lui invece diceva dov’era stato, erano cose qualsiasi, di tutto il mondo e di nessun posto, anonime.

    Eppure Olga era come se lo conoscesse in ogni sua fibra, aveva imparato a sentirlo dagli occhi, se si lasciava trasparire, e dalle mani dai capelli, e nel corpo nervoso che le cedeva quel suo tremito ogni tanto: c’era un male che lo affogava, e lì Olga si lasciava stringere dalle sue mani, chiudeva gli occhi dentro la musica – non pensare non pensare. Arrigo era un fuoco che la bruciava.

    Non sarebbe successo niente che lei non volesse, era sicura.

    Quando, rossa la guancia rovente, a ballare, si staccava da lui, lui non tentava di riafferrarla. Non era come tutti gli altri che cercavano di sfregarsi contro la gonna per farglielo sentire alla ballerina. Ne ridevano poi a casa, quando Gabriella le diceva che era così ridicola lei, nei lenti, col sedere in fuori da anatra, per evitare di sentirselo stampato addosso; e le insegnava come si doveva fare invece: spingerlo forte indietro alle spalle e non fargli scendere la mano sotto la vita, perché erano proprio tutti uguali, volevano solo quello e credevano di convincerle col metterlo bene in mostra il loro spessore! Arrigo non era così.

    Ma la prendeva di lui un travolgimento che non aveva mai conosciuto, Olga per la

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