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Le ferite dell'anima
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Le ferite dell'anima
E-book96 pagine1 ora

Le ferite dell'anima

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Info su questo ebook

Racconti che scavano dentro, si fanno spazio tra la solitudine e la forza di essere donna. Volti e anime schiaffeggiati dalla storia, dalle storie. Donne che si ergono come fenici per ritrovare la loro vera essenza, per fare giustizia, per essere in pace. Donne.
LinguaItaliano
Data di uscita7 ago 2023
ISBN9791222433998
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    Le ferite dell'anima - Teresa Di Sario

    Immagine 1

    Accornero Edizioni

    Le ferite dell’anima – Teresa Di Sario

    Copyright © 2023 Accornero Edizioni

    www.accorneroedizioni.it

    accorneroedizioni@gmail.com

    Progetto grafico: Publishing Lab

    www.publishinglab.it

    In copertina dipinto Resilienza di Teresa Di Sario

    Teresa Di Sario

    LE FERITE DELL'ANIMA

    Accornero Edizioni

    Non esiste pazzia senza giustificazione

    e ogni gesto che dalla gente comune e sobria

    viene considerato pazzo coinvolge il mistero

    di una inaudita sofferenza.

    (Alda Merini)

    Vendetta,

    il boccone più dolce

    che sia mai stato cucinato all'inferno.

    (Walter Scott)

    DOLORES

    Era un abito blu... o forse non era un abito... o forse non era blu. Non ricordo nulla... perché non ricordo nulla? Cosa mi è successo? Mi fa male la testa, gli occhi, le orecchie. Mi fanno male le ossa... ah le mie povere ossa. Se mi avessero pestato e buttato in mezzo alla strada sarei stata meglio. Ma dove sono... vedo cose intorno a me ma non ne riconosco nessuna. Le guardo e mi sembrano sconosciute, volti, corpi, ma sono estranei, anche io mi percepisco nello stesso modo. Mi guardo le mani. Sono piene di sangue, anche i vestiti sono pieni di sangue, sento il sapore persino in bocca. I vestiti sono laceri e sporchi, sono scalza... dove sono.

    Attraverso la strada. Le macchine mi sfrecciano vicino, prese dalla fretta delle loro vite caotiche e prive di senso, le persone neanche mi guardano. Mi passano accanto senza ve­dermi, senza accorgersi che mi aggiro in mezzo a loro con­fusa, senza meta, senza comprendere nulla di me, degli altri. Ma dove sono... cammino a fatica, respiro a fatica, anche i miei pensieri cominciano a disperdersi e a liquefarsi colando sulla mia faccia. Nessuno presta attenzione... Nessuno mi vede.

    Questo lo ricordo bene, sono sempre stata un fantasma, un'ombra a cui nessuna luce voleva appartenere, un nugolo di polvere, un inutile trasparente goffo essere che ha sempre vissuto indossando il mantello dell'invisibilità. A essere invi­sibili ci sono molti vantaggi. Non hai responsabilità, nessuno si aspetta nulla da te, nessuno conta su di te, nessuno soffre per te. Puoi vivere scivolando attraverso i sentimenti, le emo­zioni, senza che ti tocchino, ti invadano e diventino affamate formiche divoratrici di linfa vitale. L'invisibilità ti rende per­fetta... nessuno potrà mai ridere di te per un difetto, un er­rore, una cazzata. Nessun uomo ti abbandonerà mai, nessuna amica ti tradirà, nemmeno lo sconosciuto ti farà del male ap­profittando della tua debolezza, della tua fragilità. Io sono stata sempre invisibile ai miei occhi e agli occhi degli altri. Ero acqua che si adattava a ogni forma, aria pura che volteg­giava sulle vette più alte, fuoco libero di bruciare ed estin­guersi per poi rinascere, senza nessuno che si occupasse di me, mi dicesse cosa fare, cosa dire, o chi essere.

    Un giorno mia madre mi ha regalato un abito blu. Non potevo più essere invisibile. Dovevo fare la mia entrata nel mondo, nella realtà. Dovevo apparire, essere presente, dare il mio contributo alla società. Mi ha tolto il mantello dell'in­visibilità e lo ha buttato nel cesso. Avevo freddo. Ero nuda, vulnerabile. Mi faceva male la pelle, gli occhi non sopporta­vano la luce del sole. Era come se mille schegge piovessero dal cielo e mi trafiggessero aprendo la carne viva. Mia madre mi ha infilato l'abito blu. Era stretto, pungente. Era come essere invasa da vermi striscianti, divorata da milioni di ra­gni. Non riesco a respirare, il sangue schizza nelle vene come impazzito e arriva al cervello costringendolo ad agire, devo fare qualcosa... che devo fare, continuo a ripetermi

    Mia madre si gira voltandomi le spalle, prendo il coltello ancora sporco di cibo e glielo pianto nel primo punto raggiungibile della sua schiena, poi continuo ancora e ancora.

    Il sangue schizza sulla mia faccia, sopra di me, intorno a me, ritorno invisibile. Il sangue colora l'abito blu... era un abito blu... o forse non era blu?

    MAYA

    Mi chiamo Maya. Il giorno in cui sono stata concepita, i burattini di Satana hanno rubato il pennello a Dio e, masche­randosi con le sue vesti, hanno reso la mia anima nera e densa come l'inchiostro. Una mattina, mentre mia madre era an­data in città per delle compere, è arrivata alla nostra fattoria una donna. Si era trasferita da poco nel podere vicino, mi ha offerto una torta di mele, io l'ho invitata a mangiarne una fetta insieme a una buona tazza di caffè. Ci siamo sedute nel portico e abbiamo iniziato a chiacchierare. Non sono mai stata una ragazzina loquace, ma conversare insieme era gra­devole. Con mia madre è tutto complicato. La signora mi guarda incantata come se fossi una bambola di porcellana: mi ripete quanto sia bella, buona, intelligente, ma sembra non aver altro da dire.

    Non ho un padre, è morto in un incidente stradale. Lui è spirato sul colpo, lei, incinta di sei mesi, seduta sul sedile po­steriore di una potente auto sportiva, è uscita illesa. Dopo tre mesi sono nata io. Ho i capelli rossi e gli occhi verdi. Non somiglio a mia madre, alle volte la scruto di nascosto, da lon­tano, per cercare nel viso, nella bocca, nel corpo, un sorriso, una smorfia, uno sguardo, un gesto che ho colto in lei ma che non riesco a trovare in me. La osservo e mi sforzo di imitarla, di rendere miei un suo atteggiamento, un modo di parlare o di muoversi, il gusto per un cibo e il disgusto per un altro. Cerco delle similitudini che mi facciano sentire meno estra­nea a lei e a me stessa, ma il freddo della solitudine si insinua infido e silente, creando infiniti spazi in cui i battiti del cuore sono solo astri immobili e fissi.

    Con Eva i silenzi si trasformavano in note armoniose, la felicità non era un'illusione o una vana promessa, ma un dono ricambiato. Veniva sempre quando mia madre non c'era. Non le ho parlato di quelle visite. Era il nostro piccolo segreto. Ci incontravamo vicino al ruscello e andavamo a fare lunghe passeggiate. Portava cibi buonissimi che mangiavamo sotto l'ombra di rassicuranti alberi e, dopo esserci riposate, ci avviavamo verso casa. Ho desiderato essere sua figlia. Tra di noi c'era un misterioso legame, un carezzevole nutri­mento, fatto di luce e stelle. Mi ha rivelato che il marito era morto, si era licenziata dal lavoro e aveva deciso di trasferirsi in campagna. Non aveva bambini e voleva solo vivere in pace lontana dai ricordi che la ferivano. Aveva lavorato come in­fermiera in una clinica privata alla quale si rivolgevano le coppie che non potevano avere figli. Suo marito era stato il primario del nosocomio.

    Ero orgogliosa di essere sua amica. Un pomeriggio, men­tre riposava, spinta da una insidiosa curiosità, ho frugato nella sua borsa per cercare un documento e ho annotato

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